Pierre Seel, un deportato omosessuale nei lager nazisti
Abstract* tratti dal libro di Pierre Seel, Moi, Pierre Seel, déporté homosexuel (Io, Pierre Seel, deportato omosessuale), New York, Basic Books, 1995, traduzione di Marina La Farina già pubblicata su viottoli.it
Pierre Seel (Haguenau, 16 agosto 1923 – Tolosa, 25 novembre 2005) era un’anziano uomo francese, che e’ stato deportato nel campo di concentramento di Schirmeck nel 1941. Dopo la guerra, per vergogna, ha nascosto (per anni) la sua omosessualita’, si e’ sposato ed ha avuto dei figli. Nel 1982, spinto dall’affermazione di Elchinger, Vescovo di Strasbourg, che gli omosessuali erano dei “malati”, Pierre Seel ha deciso di rendere pubblica la sua storia. Eccone alcuni estratti.
I. L’ arresto
Da giovane, Pierre Seel feceva parte della comunita’ gay della sua citta’ d’origine, Mulhouse. Al tempo era innamorato di un ragazzo di nome “Jo”. Dopo la presa di potere nazista, Seel scopri’ di essere stato schedato dalla polizia locale come omosessuale. Il suo nome compariva nell’elenco di omosessuali del luogo.
Gli fu ordinato dalla Gestapo di recarsi al posto di polizia locale. Per proteggere la sua famiglia dalle ritorsioni, obbedi’. Il giorno in cui fu arrestato, insieme ad altri, furono tutti portati alla stazione di polizia e picchiati.
“Sulle prime pensammo di poter sopportare le violenze, ma in seguito divenne impossibile. La macchina della violenza ebbe una accelerazione. Urtati dalla nostra resistenza, le SS hanno cominciato a strappare le unghie ad alcuni prigionieri. Furiosi hanno divelto le assi su cui ci avevano costretto a stare in ginocchio e le hanno usate per stuprarci. Le budella straziate. Il sangue e’ sprizzato dappertutto. Nelle orecchie sento ancora quei gemiti e quelle urla di dolore.” [ pp.25-26]
II: La sopravvivenza
Seel e’ stato spedito al campo di concentramento di Schirmeck, del quale descrive le condizioni di vita. Un punto e’ di particolare interesse per i gay cattolici. “Privati dei nostri vestiti sporchi, ci furono date le uniformi del campo: camicie simili a quelle di forza e pantaloni di tessuto ruvidissimo. Ho visto un piccolo, misterioso rettangolino blu sulla mia camicia e sul berretto.
Era parte di un indecifrabile codice di prigionia conosciuto solo dai nostri carcerieri. Secondo alcuni documenti, che solo alla fine ho potuto controllare, ‘blu’ stava per ‘cattolico’ o ‘asociale.’ In questo campo blu stava anche per omosessuale.” [pp. 29-30]
III: La morte del suo amante
Tuttavia, le cose peggiori sono inimmaginabili. “Intanto passavano giorni, settimane, mesi. Ho trascorso sei mesi, dal maggio al novembre del 1941, in un luogo dove l’orrore e la barbarie erano legge. Ma non ho ancora descritto la prova peggiore che ho subito. E’ accaduta durante le prime settimane al campo e ha contribuito piu’ di qualsiasi altra cosa a fare di me un’ombra silenziosa, obbediente fra le altre ombre.
“Un giorno gli altoparlanti ci ordinarono di presentarci immediatamente all’appello. Urla e grida ci spingevano la’ senza indugi. Circondati dalle SS, abbiamo dovuto formare un quadrato e restare sull’attenti, come facevamo la mattina per l’appello.
Il comandante e’ arrivato con il suo intero staff. Ho pensato che stesse per picchiarci ancora una volta con la sua fede cieca nel Reich, accompagnando il tutto con la solita serie di comandi, insulti e minacce – emulando l’infame atteggiamento del suo capo, Adolf Hitler. Ma la prova in effetti era peggiore: un’esecuzione.
Due uomini delle SS hanno portato un giovane al centro del quadrato. Inorridito, ho riconosciuto Jo, il ragazzo che amavo, appena diciottenne. Non l’avevo ancora incontrato al campo. Era arrivato prima o dopo di me? Non ci eravamo visti nei giorni che avevano preceduto la mia consegna alla Gestapo.
“Ero gelato dal terrore. Avevo pregato perche’ non fosse nelle loro liste, sfuggito alle retate, risparmiato dalle loro umiliazioni. E invece era li’ di fronte ai miei occhi impotenti, colmi di lacrime. Diversamente da me, non aveva consegnato lettere pericolose, affisso manifesti o firmato dichiarazioni. E tuttavia era stato catturato e adesso stava per morire.
Cosa era accaduto? Di cosa lo stavano accusando quei mostri? Nella mia angoscia ho dimenticato completamente la motivazione della sentenza di morte. “Gli altoparlanti trasmettevano musica classica a volume molto alto mentre le SS gli strappavano i vestiti di dosso lasciandolo nudo e gli ficcavano un secchio in testa.
Poi gli hanno aizzato contro i loro feroci Pastori Tedeschi: i cani lo hanno azzannato all’inguine e tra le cosce, e lo hanno sbranato proprio li’ di fronte a noi.
Le sue grida di dolore erano distore e amplificate dal secchio sulla testa. Ho sentito il mio corpo irrigidito vacillare, gli occhi sbarrati dall’orrore, le lacrime mi correvano giu’ irrefrenabili, ho pregato perche’ la sua potesse essere una morte rapida.
“Da allora e’ accaduto spesso che mi sia svegliato urlando nel cuore della notte. Per cinquanta anni quella scena e’ passata e ripassata continuamente nella mia mente. Non dimentichero’ mai il barbaro assassinio del mio amore – davanti ai miei occhi, davanti ai nostri occhi, perche’ li’ c’erano centinaia di testimoni. Perche’ stanno ancora zitti oggi? Sono tutti morti? E’ vero che eravamo fra i piu’ giovani del campo e che e’ passato molto tempo da quei giorni.
Ma sospetto che alcuni preferiscano tacere per sempre, impauriti dal rivangare i ricordi, quell’episodio tra i tanti altri. “Quanto a me, dopo decenni di silenzio mi sono deciso a parlare, accusare, testimoniare.” [pp. 42-44]
IV: Maria
Nel campo di Shirmeck c’e’ un posto che attira gli sguardi. “Novembre 1941. L’autunno aveva preso il posto dell’estate. La foresta aveva i colori del fuoco intorno a noi. Oltre il filo spinato, la natura, potevamo vederlo, sfoggiava generosamente la sua bellezza. Spesso, mentre fissavo il Vosages, che stava cominciando a diventare bianco per la neve, desideravo che qualcosa accadesse – qualsiasi cosa, non importava quanto terribile, a patto che mettesse fine alla nostra routine di avvilimento e a questo apparato di abusi.
“Qualche volta quando la nebbia mattutina si dissolveva guardavo, insieme agli altri, una statua della Vergine in piedi su una delle torri del castello nella valle, dal lato della montagna. Lo sguardo di diversi prigionieri correva in quella direzione. Non dicevamo nulla, ma so quello che passava per la mia mente, e, senza dubbio, anche in quella dei miei compagni: la sola cosa che avesse ancora senso – tornare a casa, per ritrovare le cose amate, dormire nei nostri letti, nelle nostre stanze. Tornare a casa.,”[pp. 45-46]
V: Oggi
Seel continua a descrivere l’incredibile odissea da lui vissuta al tempo della guerra in Europa. Alla fine della Guerra, fu rilasciato, ma come tutte le vittime omosessuali del Nazismo nego’ qualsiasi pubblica ammissione di quanto gli era accaduto. Provava vergogna, e cosi’ si e’ sposato, ha lavorato, ed ha avuto dei figli. Ha visto affermarsi il movimento per i diritti gay finche’, nel 1982, le affermazioni del Vescovo di Strasbourg contro gli omosessuali definiti “malati”, l’hanno spinto a parlare pubblicamente della sua storia.
Sia la famiglia d’origine, sia la moglie e i figli lo hanno sostenuto. La sua decisione lo ha costretto ad alcune non facili apparizioni in tivu’. Dopo una di queste Seel descrive il suo stato d’animo. “Il 9 febbraio 1989 sono stato intervistato in televisione da Frederic Mitterand. La trasmissione era stata preceduta da alcuni articoli su Tele 7 Jours e La Depeche du Midi. Far fronte a questa improvvisa notorieta’ mi terrorizzava, ma mi sono sottoposto ugualmente alla prova…”. “Esausto dopo la trasmissione, sono ritornato a casa e mi sono fermato a Lourdes. Sono sempre stato affascinato dal culto della Vergine Maria.
La mia e’ un’adorazione silenziosa, la richiesta di un po’ di serenita’. La mia fascinazione e’ l’indizio di una fede? Di un amore inesprimibile? Il mio amore per mia madre? In ogni caso proviene da molto lontano. Perche’ mi accade che dopo aver affrontato momenti difficili il mio sguardo si volge sempre verso Lourdes, proprio come mi voltavo a guardare verso quella Vergine sulla montagna, quella Vergine che mi pare ancora di vedere oltre il campo di Schimeck in un giorno chiaro.
Come ho detto, altri miei compagni guardavano fisso senza dir niente nella stessa direzione, cercando di individuare il profilo adorato.
Per quale motivo, quando ho raggiunto una chiesa polacca coi Russi, io ho seppellito la statua della Vergine per proteggerla dai vandali e dai bombardamenti? Non vado a Lourdes per pregare, perche’ io non prego piu’ da molto tempo. Tutto cio’ che faccio e’ salutare Maria. Non so di che natura siano il rispetto e la devozione che provo ma placano le mie ansie e mi confermano nella mia integrita’ e identita’.” [ p. 132.]
Seel e’ ancora impegnato a far si’ che gli omosessuali francesi deportati ricevano un risarcimento. Recentemente ha ricevuto un assegno di 9,100 Franchi, circa 1300 dollari. Ma non e’ l’amarezza a spingerlo ad agire. “Quando sono in preda all’ira prendo il cappello e la giacca e cammino spavaldo per le strade. Immagino di camminare per cimiteri che non esistono, luoghi di riposo di tutti i morti che turbano la coscienza dei vivi. E mi pare di urlare. Quando accadra’ finalmente di veder riconosciuto pubblicamente l’orrore della deportazione Nazista degli omosessuali?
Nel mio condominio e nel mio quartiere molta gente mi saluta, gentilmente mi ascoltano e mi chiedono a che punto e’ il mio caso. Sono grato ed apprezzo il loro appoggio. Ma cosa posso dir loro? “Quando finisco di vagabondare torno a casa. Quindi accendo la candela che arde continuamente nella mia cucina quando sono solo. Quella fiamma e’ in memoria di Jo.”[ p. 140]
* Brani tratti da Pierre Seel, Moi, Pierre Seel, déporté homosexuel (Io, Pierre Seel, deportato omosessuale), New York, Basic Books, 1995.