L’invisibilità dei gay e delle lesbiche vittime di violenza domestica
Articolo della psicologa Arianna Petilli*
Quando parliamo di violenza, quella che si svolge all’interno di una coppia in cui un partner agisce comportamenti di abuso nei confronti dell’altro, in genere facciamo riferimento alla violenza che un uomo mette in atto nei confronti della propria compagna. Mai, o quasi, prendiamo in considerazione il fatto che la violenza domestica si verifica anche all’interno delle coppie formate da partner dello stesso sesso. Eppure, una quantità di studi scientifici sempre maggiore sembra indicare che le percentuali, le caratteristiche e modalità con cui la violenza fisica e psicologica si manifesta all’interno delle coppie gay e lesbiche, sono del tutto comparabili a quanto accade nelle coppie eterosessuali.
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Cos’è la violenza domestica?
Sotto la definizione di “violenza domestica” rientrano tutti quei comportamenti violenti e coercitivi attraverso cui un partner cerca di intimidire, dominare e controllare l’altro membro della coppia. Tali comportamenti, in genere, non consistono in modo esclusivo in agiti violenti di tipo fisico ma, per colpire la propria vittima, l’aggressore si avvale anche, e soprattutto, di strategie di maltrattamento psicologico, sessuale e sociale. L’operazione distruttiva cui viene sottoposta la vittima è così caratterizzata da derisioni, critiche, umiliazioni, errori che le vengono attribuiti dal partner in modo improprio.
Sono frequenti le accuse, magari erronee e senza prove, di tradimento, oppure, al contrario, la vittima è minacciata di essere tradita o lasciata, in alcuni casi forzata a pratiche sessuali che non considera desiderabili. Il modo in cui si veste e i luoghi e le persone che frequenta vengono sottoposti a un sistematico processo di controllo. Allo stesso modo, è per l’aggressore oggetto di monitoraggio e critica il modo in cui la vittima si relaziona a lui, scorgendo in ogni comportamento un’accusa, una mancanza di stima nei suoi confronti o, comunque, una cattiva intenzione.
L’obiettivo che spinge l’aggressore a mettere in atto tali comportamenti è quello di esercitare un controllo generale sul partner. Per farlo, cerca di subordinarlo al suo potere, utilizzando strategie manipolative che, con il tempo, indurranno la vittima a percepirsi come una persona sbagliata, di scarso valore, colpevole del malessere del proprio aggressore e, addirittura, del maltrattamento subito. La vittima ne uscirà sempre più disorientata, indecisa sulla correttezza dei suoi pensieri, emozioni e comportamenti e, per questo, sempre più dipendente dal suo aggressore. Quando questo accade, il controllo è stato acquisito. La reazione di paura della vittima contribuirà a mantenerlo nel tempo.
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La violenza domestica all’interno delle coppie omosessuali: un problema ignorato
Storicamente la violenza domestica è stata concepita come una questione di genere, come un abuso di potere del maschile sul femminile. Così, ancora oggi, siamo portati a ritenere che questo sia un problema che caratterizza, in modo esclusivo, le coppie eterosessuali. L’errore è dato dal credere che la violenza sia una questione di forza, di prestanza fisica e che solamente un uomo, in virtù del ruolo di potere che gli è socialmente attribuito, possa configurarsi come l’autore dell’aggressione. Ciò che ci dimentichiamo di considerare, assumendo come vera questa concettualizzazione, è che, in realtà, il nucleo centrale della violenza domestica è costituito dal bisogno di controllo che un partner desidera esercitare sull’altro e questo, ovviamente, prescinde dal genere biologico di appartenenza così come dall’orientamento sessuale.
Eppure, i tradizionali ruoli di genere hanno così profondamente influenzato il modo di vedere e studiare la violenza che nell’immaginario collettivo l’aggressore continua a essere identificato in un individuo di genere maschile mentre la vittima continua a essere riconosciuta in una donna. Così, si tende a escludere la possibilità che una relazione omosessuale possa essere violenta o, comunque, ancor quando riconosciuta come tale, ne viene sottostimata la gravità, ritenendo che la violenza subita da un uomo, oppure quella perpetrata da una donna nei confronti della sua compagna, non abbia lo stesso grado di pericolosità e le stesse drammatiche conseguenze della violenza cui una donna viene sottoposta da un uomo. Il rischio è che si continui a negare il problema, impedendo la creazione di servizi idonei e specializzati. Il risultato è che la vittima venga lasciata sola a gestire la relazione violenta, contribuendo ad alimentare il clima di solitudine e incomprensione che, in genere, già caratterizza la vita delle persone omosessuali.
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Chiedere aiuto e denunciare l’aggressore
Riconoscere di essere rimasti intrappolati in una relazione violenta e attivare le risorse disponibili per chiedere aiuto non è un processo rapido o automatico. Nella maggior parte dei casi, infatti, le vittime non si accorgono della violenza subita se non quando questa è diventata un’abitudine, il sistematico modo con cui il partner si relaziona all’interno della coppia. Il motivo per cui questo accade è dato dall’ambivalenza con cui il maltrattante gestisce la violenza. Se da un lato, infatti, al termine di ogni aggressione tende a chiedere perdono, a comportarsi in modo romantico e gentile e a promettere che l’episodio violento non si ripeterà, d’altra parte si giustifica incolpando la vittima. Il problema è che, spesso, questa è portata a credere alle accuse di colpa che le vengono rivolte perché nel tempo l’aggressore l’ha sottoposta a strategie manipolative tali da privarla della sua
autostima, della sua capacità di giudizio e spirito critico, impedendole di valutare in modo obiettivo la situazione e di comprendere la necessità di chiedere aiuto.
Questa dinamica, di per sé già complessa, rischia di essere ulteriormente aggravata nel caso in cui la vittima sia un uomo gay o una donna lesbica. Innanzitutto, come abbiamo visto prima, il modo di intendere la violenza è influenzato da stereotipi di genere così rigidi che risulta difficile riconoscerla nelle situazioni in cui i partner condividono lo stesso sesso biologico. Gay e lesbiche potrebbero quindi non avere fiducia nelle abilità del sistema giuridico e decidere di non denunciare il loro aggressore per il timore di essere trattati con pregiudizio e di non vedere riconosciuta la gravità dell’abuso subito. Del resto, loro stessi potrebbero aver appreso i medesimi stereotipi ed avere così difficoltà a interpretare l’aggressività del partner nei termini di un vero e proprio maltrattamento. Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che la violenza che si verifica all’interno di una coppia omosessuale si inserisce nel più ampio contesto dell’omofobia sociale, cioè degli atteggiamenti avversi e ostili che la nostra società continua a mostrare nei confronti dell’omosessualità, e che questo potrebbe condizionare profondamente la capacità delle vittime gay e lesbiche di prendere le distanze dal partner violento.
A causa dell’omofobia sociale, infatti, spesso gay e lesbiche vivono il proprio orientamento sessuale in modo piuttosto nascosto, in alcuni casi isolandosi anche dalla comunità omosessuale per non correre il rischio di riconoscersi, ed essere riconosciuti, in quanto tali. La difficoltà nel denunciare l’aggressore potrebbe quindi essere innanzitutto spiegata dal bisogno di mantenere segreta l’omosessualità. L’assenza di adeguati modelli di coppia omosessuale ai quali ispirarsi e di persone omosessuali con le quali confrontarsi, causata dall’isolamento cui gay e lesbiche spesso si costringono, potrebbe inoltre ostacolare la capacità della vittima di comprendere quali comportamenti possano essere accettabili all’interno di una relazione intima, inducendola, in alcuni casi, addirittura ad accettare la violenza subita come inevitabile all’interno di un rapporto omosessuale che, in base allo stereotipo sociale, è definito come sbagliato, disfunzionale e patologico. Infine, gay e lesbiche potrebbero decidere di non denunciare il maltrattamento subito per il timore di essere accusati dagli altri omosessuali di gettare discredito su una comunità, quella omosessuale appunto, già così fortemente stigmatizzata. La capacità di riconoscere e denunciare l’aggressione è così messa a dura prova. La sensazione predominante della vittima potrebbe essere quella di non avere altra scelta se non rimanere con il suo abusatore.
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Conclusioni
Riconoscere la violenza domestica all’interno delle coppie gay e lesbiche sfida i tradizionali ruoli di genere e il consueto modo di intendere la violenza come un problema che riguarda, in modo esclusivo, le donne eterosessuali. Del resto, gli studi più recenti sembrano sempre più concordi nel
ritenere che l’elemento chiave del maltrattamento non sia rappresentato dal genere biologico o dall’orientamento sessuale dell’aggressore quanto, piuttosto, dal suo bisogno di controllare la vittima e subordinarla al suo potere. Ecco, quindi, che una quantità di dati empirici sempre maggiore mette in evidenza come la violenza domestica si manifesti anche fra partner dello stesso sesso, secondo dinamiche in cui le somiglianze rispetto a quanto accade all’interno delle coppie eterosessuali sono certamente superiori delle differenze.
E’ innegabile, tuttavia, che parlare di violenza domestica all’interno delle coppie gay e lesbiche potrebbe esporre al rischio di rinforzare lo stereotipo, omofobico ed erroneo, secondo cui le relazioni omosessuali sono per loro natura sbagliate. In realtà, com’è ovvio, la maggior parte delle coppie omosessuali non sono violente ma, molto semplicemente, la violenza domestica sembrerebbe non discriminare sulla base dell’orientamento sessuale.
Continuare a tacere il problema, d’altro canto, potrebbe esporre a un rischio ancor maggiore, ovvero quello di non permettere la creazione di servizi appositamente formati e di non sensibilizzare la comunità omosessuale a un problema da cui, purtroppo, non risulta immune. Infine, negare la possibilità che anche una relazione omosessuale possa essere violenta permetterà all’aggressore di agire indisturbato, consapevole che non sarà chiamato a rispondere del maltrattamento perpetrato né a pagare le conseguenze per i suoi comportamenti violenti.
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* Arianna Petilli è laureata in Psicologia Clinica e della Salute. Iscritta all’Albo dell’Ordine degli Psicologi della Toscana con il numero 6500. Specializzanda in Psicoterapia Cognitivo Comportamentale presso l’Istituto Miller di Firenze.
Svolge l’attività clinica privata a Firenze occupandosi, prevalentemente, di disturbo ossessivo compulsivo, disturbi del comportamento alimentare e disturbi d’ansia. Lavora, inoltre, con pazienti gay e lesbiche aiutandoli nel processo di accettazione del proprio orientamento sessuale e nell’affrontare le difficoltà legate all’omofobia, sociale e interiorizzata.
Relatrice in forum e convegni, nazionali e internazionali. E’ autrice del lavoro di ricerca “Religione e omosessualità: uno studio empirico sull’omofobia interiorizzata di persone omosessuali in funzione del grado di religiosità” che, per la prima volta in Italia, analizza approfonditamente l’impatto degli insegnamenti del Magistero della Chiesa Cattolica sulla vita delle persone omosessuali e indaga sugli effetti che una pastorale cattolica, inclusiva e accogliente, può avere sui gay e sulle lesbiche cattolici.