11 marzo 2012. Una giornata particolare sulle orme di don Piero
Testimonianza tratta dal sito del gruppo Bethel di Genova
Un gruppetto di otto persone di Bethel si muove in auto per raggiungere Fossano, città natale del loro padre spirituale, don Piero Borelli.
A qualche chilometro dal centro abitato sorge, in località Marene, il cimitero in cui è presente la tomba di famiglia dei Borelli. Ci si sposta con due macchine. Il gruppo è allegro. Si sorride per stemperare la velata tristezza insita nello scopo della gita.
Durante il viaggio, complice una mattinata tiepida e soleggiata, si parla di noi, della nostra identità personale omoaffettiva, delle persone a noi care: sprazzi di vicende personali venate di dolore, ma con una grande apertura al futuro.
Appena giunte e giunti a Fossano, ci mettiamo alla ricerca del cimitero, chiedendo a qualche persona del luogo il tragitto più breve per raggiungerlo.
Così veniamo a sapere che esso si trova al di fuori dell’abitato. Una volta arrivati nel piazzale antistante il grande cancello del complesso tombale, scendiamo dalle auto e ci avviamo all’entrata.
Dove sarà la tomba di don Piero? Decido di chiamare la sorella, Angiola. Nessuna risposta. Passati non più di due minuti, mentre andiamo alla vana ricerca del custode, il mio telefono cellulare squilla.
Dall’altra parte è proprio Angiolina, la quale mi dice che la tomba di famiglia è sulla sinistra, a 30 metri di distanza dal cancello: si deve imboccare il vialetto principale e fermarsi in un piccolo spiazzo.
Ci rechiamo sul posto e, non appena ci fermiamo di fronte alla serie dei loculi, protetti da un cancelletto, ci viene incontro una donnina dai capelli quasi bianchi. Sorride, ci parla: si tratta della cugina prima del nostro don.
Le stringiamo la mano che, con cordialità, ci offre. E facciamo amicizia. Impossibile, per noi, non pensare che quell’anima salva ci sia stata mandata, a mo’ di benvenuto, proprio dal nostro padre spirituale.
Con lei scambiamo qualche parola, stando attente ed attenti a non rievocare ricordi particolarmente toccanti, poiché il nostro pudore ci impone di non versar lacrime.
Non appena la cugina di don Piero se ne va, una delle persone del gruppo si lascia andare ad un breve commento di gratitudine, rivolto a quel padre amorevole che ha accolto noi, anime difettose perché omosessuali – secondo la Chiesa cattolica – con affetto smisurato ed un atteggiamento mai giudicante, ma di solo ascolto attento.
E così le lacrime cominciano a scendere, dapprima discrete poi sempre più copiose, dagli occhi di tutte e tutti noi, rigando i nostri visi contratti dal dolore, un dolore per la perdita del nostro punto di riferimento mitigato solo dal pensiero che il nostro don non se n’è mai andato, se non in carne. In spirito è e sempre sarà con noi.
Ci disponiamo in cerchio e, senza mai rivolgere le spalle alla tomba, iniziamo a recitare un sommesso Padre Nostro, seguito da L’eterno riposo.
Ci teniamo saldamente per mano, i capi chini in segno di rispetto. Almeno ora le voci non sono rotte dal pianto.
Nell’aria si spande un delicato sentore di biscotti appena sformati e, in quella, i nostri stomaci ci ricordano che hanno necessità di essere riempiti. Così decidiamo di recarci in città e di cercare una trattoria.
Una volta risalite e risaliti in auto, asciugate le lacrime, ci dirigiamo verso Fossano, una cittadina piena di vestigia storiche, dalla cui rocca domina il Castello degli Acaja, che strizza l’occhio al lontano Monviso innevato, che si staglia sullo sfondo.
Proseguiamo a piedi verso il centro e ci viene indicato un ristorante dal nome beneaugurante, Il girasole. Ci dirigiamo nella via in cui si trova – intitolata al Beato Giovanni Bosco (un altro caso?) – e decidiamo di entrare per sapere se c’è posto a sedere per otto persone affamate.
Ci viene detto di sì e ci accomodiamo ai tavoli. Il pranzo scorre leggero, le pance si riempiono di cibo e di vino e l’atmosfera si fa lieta, dopo la mestizia precedente.
Passeggiata d’obbligo, dopo pranzo, al fine di smaltire e digerire. Ci dirigiamo dove sono i piedi a condurci e scorgiamo, di lontano, una costruzione che sa di cattolicesimo: si tratta del seminario, attorno al quale si dipana una passeggiata restaurata di recente che riporta in centro città.
Il sole scalda le ossa e l’affetto che unisce le persone di Bethel fa il resto. Si chiacchiera, si ride, si affrontano tematiche serie, si parla di amori perduti e di storie in corso, di figlie e di figli, di stereotipi e di pregiudizi. E don Piero ci accompagna con la sua presenza silenziosa, discreta ed amorevole.
È già ora di tornare alle nostre case. Rimontiamo in macchina e ci avviamo verso l’autostrada. Il cielo è sempre limpido, i nostri cuori pure. E si ricomincia a parlare di noi. C’è tempo per una sosta di ristoro e poi di nuovo in viaggio.
La Torino-Savona è un’autostrada piena di curve, spesso pericolose, come la vita, ma la nostra è stata illuminata dall’incontro con un prete di frontiera che ha scelto di stare dalla parte degli ultimi.
Secondo la Chiesa cattolica noi lesbiche e gay ultimi lo saremmo più di altre categorie di persone. La nostra immoralità ci precederebbe di molto. Quando rimettiamo piede a Genova, ci sembra che sia passato un tempo infinito eppure siamo stati insieme per poche ore, che sono fuggite via in un lampo.
Ogni persona di Bethel che ha preso parte a questa gita un po’ particolare porterà con sé emozioni, sensazioni e pensieri a volte differenti, ma tutti accomunati da un unico particolare: l’amore incondizionato di un presbitero che non dimenticheremo mai e che è riuscito a mettere un poco di luce nelle nostre vite.
Quell’amore e quella luce sono il suo lascito a noi, persone di Bethel. Da ora e per sempre.