The imitation game. L’inimitabile giogo del dolore
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Recensione di Mattia Morretta*
The imitation game non è di sicuro un’opera d’arte, ma è un buon prodotto commerciale, che si fa notare sugli scaffali del supermercato cinematografico, che sforna a ciclo continuo pseudo-novità o presunti capolavori a misura del varietà consumistico mediatico.
Il suo pregio sta anzitutto nell’utilità del messaggio che può veicolare al grande pubblico, a cominciare dalla mancanza di scabrosità, volgarità, eccessi estetici e anatomici che abbondano nei film e video “realistici” sui gay, pretendendo di riprenderne i costumi “dal vivo” e “in diretta” (per scandalizzare o provocare chi?).
Molto più rilevanti risultano l’accento sull’affettività come moneta di scambio che prescinde dal sesso delle persone (quindi anche con la donna), sulla cooperazione con uomini eterosessuali senza interferenze sentimentali o ammiccamenti erotici, addirittura il riconoscimento al personaggio omosessuale del ruolo di leader e di “maschio dominante” ricorrendo solo a strumenti civili e al primato delle idee.
Se si può ritenere una rappresentazione rassicurante per la maggioranza, non si può negare che si compia un’opera di esplicita valorizzazione della figura del protagonista, pur nella retorica post-mortem e post-bellica, includendone l’omosessualità che appare qualificazione e conferma di una variante plus e non minus.
La morale della favola è ancor più positiva poiché, a ben vedere, nonostante l’accento sulle stranezze e le idiosincrasie, Alan risulta un “diverso” più in quanto tipo umano che in quanto omosessuale, magari ci fossero tanti soggetti omosessuali così auto-centrati e privi di dubbi sulla “tendenza”.
È la forza della soggettività solitaria e separata a conferire a Turing il senso di fierezza e autostima, che sfiora la superbia di chi è dotato di un talento effettivo di cui è il primo valutatore e giudice, la confidenza nelle proprie capacità dimostrate sul campo, l’ambizione di chi sa quel che vale e non ha tempo da perdere con la falsa modestia, tuttavia è in grado di partire dal basso e di mettersi al servizio di un gruppo per uno scopo superiore.
Per non dire della qualifica di “eroe di guerra”, a posteriori potremmo chiamarla “informatica”, un unicum visto il panorama di intellettuali gay dell’epoca (inglesi e tedeschi, ad esempio) pusillanimi o pavidi, spie sovietiche o comunisti di penna, in fuga o in esilio dorato. Gli si attribuisce persino la decisione di salvare o dannare centinaia di vite umane, di dare cioè indirettamente la morte, laddove l’omosessuale è per tutti specializzato nel rotolarsi o crogiolarsi nel godimento evitando la lotta e il dolore fisico non associati all’erotismo.
Rilevo che la “grazia postuma” ha un senso appunto per i meriti patriottici, perché la cassazione della condanna per atti omosessuali alla luce del politicamente corretto è ridicola, la riscrittura integrale della Storia a partire dalle correnti ideologiche del presente un segno di deriva culturale.
Non nascondo una vena di nostalgia nell’amarcord del cosiddetto passato, una sorta di “the day before”, quando si era uomini e persone prima che omosessuali o gay, tanto che la punizione giuridica concerneva gli atti di “grave oscenità” e non una specifica tipologia omo-sessuale, nel periodo di passaggio del testimone dalla legge alla medicina in contemporanea alla nascita della categoria sociale “gay”.
Ah, si fosse capaci di farsi rispettare per e con le doti umane, intelligenza e abilità in qualsiasi campo, concorrendo alla pari con gli altri e accettando la meritocrazia, mirando ad acquisir valore e veder riconosciuta l’utilità per la società dei membri omosessuali migliori, non puntando alla considerazione politica perché diversamente abili nel sesso con annessi diritti matrimoniali!
Il Turing cinematografico non è molto dissimile da quello effettivo, un fragile narcisista, uno “strambo” con tendenza all’autolesionismo, se non all’immolazione sacrificale, come sempre accade quando la persona soggiace alla vocazione trasformandosi in una “funzione” (matematica, nello specifico) da assolvere per la specie.
In fondo il suo è un suicidio annunciato che trova nelle circostanze del periodo conclusivo l’occasione di passare dal piano simbolico a quello concreto. Va ricordato che Alan, terapia ormonale a parte, si suicidò dopo due anni di psicoterapia ricorrendo ad una mela avvelenata con cianuro di potassio: era la sera del lunedì di Pentecoste, 7 giugno 1954 (avrebbe compiuto 42 anni il 23 giugno), ma venne trovato nel pomeriggio del giorno successivo dalla governante.
Restano dei lati oscuri nella macabra fiaba del morso fatale, poiché non venne rinvenuto alcun biglietto ed erano stati presi appuntamenti per i giorni seguenti, il che ha fatto ipotizzare ad alcuni l’omicidio con implicazione dei servizi segreti. Al di là della appena verosimile spy story, è giocoforza considerare che Turing era stato una pedina su uno scacchiere infinitamente più grande e indifferente alla sorte dei singoli, a maggior ragione più vulnerabile in quanto uomo del pensiero, convinto abitante del regno dell’astrazione e portato ad una onestà intellettuale mescolata a una ingenuità fanciullesca (un tratto comune di tanti omosessuali creativi).
Quel che più dà motivo di riflessione è che Alan è doppiamente anormale, “mostro” in senso etimologico (stra-ordinario), perché una grande mente matematica in un soggetto omosessuale costituisce una rarità, in confronto all’interminabile e “sublime” catalogo di artisti, scrittori, poeti. Tanto che George Steiner si poneva più di trent’anni fa un interrogativo circa il fondamento biologico, propriamente neurologico, dell’inclinazione omosessuale, poiché volenti o nolenti si tratta di cervelli che funzionano in modo diverso (un concetto caro a Turing). In effetti, si può affermare che Turing stesso sia un “enigma”, un’entità misteriosa e incomprensibile, che non si riesce ad intendere e spiegare del tutto.
Quanto abbiamo ancora da imparare sulle variazioni sul tema dell’omosessualità! Come non rilevare che Alan Mathison Turing era ed è sconosciuto tra gli stessi gay? Per conoscerne la vicenda umana e scientifica, istruttiva ed emblematica, occorre leggere la lunga (oltre settecento pagine), ricca e partecipata biografia curata da Andrew Hodges (classe 1949, a sua volta omosessuale matematico di Cambridge), pubblicata in Gran Bretagna nel 1983 e in Italia nel 1991 (Bollati Boringhieri): Storia di un enigma.
D’altronde, non c’è alternativa: per diventare avvocati credibili e competenti della propria causa, almeno gli omosessuali con professioni intellettuali dovrebbero applicarsi a studiare e approfondire, e non appagarsi di immagini o di slogan sull’omofobia come piace alle masse gay.
Le didascalie finali del film sull’epilogo tragico e sul contesto storico (le condanne di 49 mila omosessuali nell’arco di circa un secolo e la riabilitazione di Turing nel 2013) sono la siglatura del metodo “pedagogico” più in voga al momento: ci si documenta prevalentemente guardando le figure mentre le parole sono decorative, il minimo sindacale di informazione da conservare in memoria, le “visualizzazioni” parametro e fine della comunicazione.
In conclusione voglio rievocare la scena drammatica più intensa per me quale spettatore: quella che fotografa sul pallido volto di Alan ragazzino l’eco esteriore del turbamento assoluto di fronte alla notizia della morte per tubercolosi di Christopher, l’amico del cuore.
In controluce, l’apparente impassibilità esteriore, accompagnata dalla negazione verbale del legame affettivo, fa trapelare l’emozione di chi riceva un colpo fatale, una sofferenza definitiva che è già “decesso”, presagio della morte vera e propria di lì a pochi decenni. Testimonianza di quanto profondo possa essere l’amore per un simile già nel cuore di un fanciullo (I love you, ha scritto Alan su un biglietto che vorrebbe consegnare all’amico andandogli incontro al suo atteso ritorno in Istituto), in quella fase in cui il bisogno di intimità con un membro del proprio sesso è fondamentale, anzi vitale, e fortunati coloro che lo conoscono e possono soddisfarlo.
Perché Turing è un esemplare del tipo omosessuale precoce, definibile “omofilo puro”, fin dal principio orientato con chiarezza verso il medesimo sesso, ben prima che qualunque pratica o esperienza possa vantare crediti o debiti.
L’omosessualità, infatti, è per i più quantitativa, ma per una minoranza selezionata è qualitativa, questione di identità e di essere, non di avere o di fare, una colorazione naturale della personalità e non un colorante artificiale del comportamento o dell’aspetto. E in quel caso l’amore come bene dell’anima conta più dell’unione fisica, che a malapena riesce ad esprimere la tensione al congiungimento e alla condivisione. Allora il dolore è altrettanto o più importante del piacere per la consapevolezza dell’impossibilità di ricomporre le due metà platoniche.
« Ci vediamo tra due lunghe settimane, mio carissimo amico ».
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* Mattia Morretta è psichiatrapsicoterapeuta e sessuologo, operatore storico del servizio pubblico milanese per Hiv e Malattie a Trasmissione Sessuale, cofondatore e primo presidente dell’Associazione Solidarietà Aids. Ha curato numerosi saggi e pubblicazioni sulla tematica omosessuale e sull’Aids (tra i quali: Il percorso del morire, con R. Tommasi, Unicopli; Sessualità e Aids, con M. Albera, A 77; Legami a rischio, con C. Donvito, ASL Milano) ed è autore del saggio “Che colpa abbiamo noi. Limite della sottocultura omosessuale” (Viator, 2013, 132 pagine)