Quando eravamo froci. Gli omosessuali nell’Italia del boom economico
Dialogo di Katya Parente con Andrea Pini
In un articolo precedente abbiamo avuto ospite Sebastian Buckle, che ha tratteggiato per noi la storia recente dell’omosessualità in Inghilterra. Oggi è nostro gradito ospite Andrea Pini, che invece ci parlerà del nostro Paese.
Andrea è autore del libro “Quando eravamo froci. Gli omosessuali nell’Italia di una volta” che racconta la vita dura e repressa dei gay nostrani negli anni del boom economico.
Il tuo libro parla degli anni ’60. Possibile che in un’epoca così pregna di idee nuove e politiche rivoluzionarie (anche in Italia) la condizione degli omosessuali maschi fosse così meschina?
Usare il termine meschina è già un giudizio, vorrei dire un pre-giudizio. Ogni condizione va studiata nel suo contesto storico e sociale. Negli anni ’60 l’omosessualità era considerata da tutti (omosessuali e non) come una vergogna terribile. Pochissimi riuscivano a restare indifferenti di fronte a quella feroce condanna. Lo stesso Pasolini, a causa della sua omosessualità, dovette scappare dal suo Friuli e provare a ricominciare una vita da zero (era poverissimo) a Roma.
Quindi la gran parte degli omosessuali maschi era costretta e obbligata dal giudizio comune a vivere nascostamente la propria sessualità in quei luoghi e in quelle forme che descrivo nel libro “Quando eravamo froci” (cinema, vespasiani, parchi, luoghi di prostituzione maschile, piccole feste private, ecc.). Le lesbiche al contrario non avevano nessuna forma di frequentazione “pubblica” con altre lesbiche e, quel poco che accadeva, nasceva nel chiuso delle case, in giri ristretti e ancor più segreti.
Verso la fine degli anni ’60 scoppia la “rivoluzione gay” a New York, precisamente la notte del 28 giugno 1969. Da quel momento inizia una lenta evoluzione della condizione omosessuale anche in Europa e in Italia e nasce la possibilità di una nuova visibilità pubblica grazie al neonato movimento gay. In Italia è il FUORI a fare da pioniere a cominciare dalla fine del 1971 e l’inizio del 1972.
Per tornare alla frase iniziale da te usata – la condizione meschina dell’omosessualità – aggiungo che meschina era la mentalità dell’epoca, con (contro) la quale gli omosessuali dell’epoca hanno dovuto confrontarsi. Oggi però quella mentalità la chiamiamo omofobica.
Per il libro hai intervistato i protagonisti dell’epoca. Come sei riuscito a rintracciarli? Hai trovato qualcuno più restio degli altri a raccontarsi/raccontare?
Ho faticato a trovare un numero sufficiente di omosessuali da intervistare per il mio libro: volevo arrivare a 20, un numero piccolo ma sufficientemente ampio per poter tentare alcune considerazioni generali. Facile è stato per alcuni personaggi più o meno noti che ho avuto la fortuna di avere come amici (Paolo Poli, Corrado Levi, Vinicio Diamanti, Dominot ed altri), che però rappresentavano un certo tipo di omosessuali (artisti, intellettuali) e che hanno potuto avere una vita più libera e spregiudicata della media.
Ma io volevo intervistare anche omosessuali qualsiasi e quelle erano persone più difficili da individuare e conoscere. Una volta agganciata la persona poi ognuno di loro ha raccontato con molta disponibilità la propria vita. Ho lavorato con il passaparola, per questo ho impiegato vari anni a completare il mio lavoro. Poi ho avuto la fortuna di poter intervistare Aldo Braibanti, forse l’uomo più schivo tra tutti quelli che ho potuto incontrare. E la sua intervista – una delle pochissime che Aldo ha rilasciato in tutta la vita – è forse per me la più preziosa.
Il periodo di cui tratti è relativamente recente, in bilico tra costume e storia. Come ti sei regolato?
Ho cercato di raccontare quelle vite con l’occhio sempre rivolto al contesto storico (in senso ampio) che ognuno di loro aveva intorno. Mi interessava soprattutto provare a descrivere un pezzo di società italiana – nella quale uomini e donne omosessuali erano immersi – sia dal punto di vista sociale e del costume, che culturale-politico, passando dall’intimità degli incontri più o meno clandestini, a giornali e riviste che raccontavano (quasi sempre con cattiveria, talvolta con pietismo giudicante) la vita degli omosessuali, a libri e a film che la rappresentavano.
Mi sono soffermato solo sul periodo che va dal secondo dopoguerra al momento della nascita del movimento gay italiano. Che è stato un periodo di enormi cambiamenti sociali, culturali, del costume ed anche della politica per tutti i cittadini, compresi, per fortuna, anche i cittadini omosessuali (cosa non scontata).
“Froci” è un termine che oggi risulta insultante. Ci si può riappropriare in chiave positiva di un termine offensivo? Se sì, qual è il percorso psicologico sotteso?
Non sono uno psicologo e quindi provo a risponderti da militante e da scrittore. Un termine è offensivo quando chi lo usa intende offenderti o non ha pensato che potrebbe offenderti. Frocio può essere un insulto, ma se è usato da un gruppo di gay in modo scherzoso o in modo consapevole (ad esempio in una conversazione tra amici io potrei dire tranquillamente ‘Io sono frocio’) allora la situazione cambia.
Io usandolo nel titolo del mio libro, però, ho voluto lanciare anche un messaggio: i froci a cui mi riferisco sono i froci di una volta, oggetto di offese, ma adesso è più difficile offenderci chiamandoci froci, perché sono io per primo che mi autodefinisco frocio.
In tal modo spunto l’arma dell’offesa e suggerisco che un forte cambiamento è già avvenuto: un tempo voi ci chiamavate froci per offenderci e noi eravamo costretti a subire, ora noi ci chiamiamo gay e lesbiche, persone portatrici di diritti e di rivendicazioni positive.
C’è stato dunque un capovolgimento di valori, contrassegnato dalla conquista di nuova visibilità e di nuovi diritti, come quello del matrimonio LGBT (ora aspettiamo la legge antidiscriminazioni, la legge Zan, che questo parlamento potrebbe approvare). E a proposito di nuova visibilità non è forse vero che il nuovo ministro dei trasporti del governo Biden si chiama Pete Buttigieg ed è dichiaratamente gay, mentre la nuova ministra alla salute dello stesso governo è Rachel Levine, una donna transgender? Questo, fino all’altro ieri, col presidente USA appena sostituito non è accaduto e non poteva accadere: ad ogni fase storica e politica corrisponde un certo tipo di visibilità gay, lesbica e transgender.
Speriamo che questa visibilità politica non si limiti né agli USA, né agli altri Paesi europei (Xavier Bettel, primo ministro del Lussemburgo o la più recente Petra De Sutter, transgender e vice primo ministro del governo belga) ma sia possibile anche in Italia, e non in tempi biblici.