Aborto e morale. Capire un nuovo diritto
Recensione di Lucio
Sono passati trent’anni dalla approvazione in Italia della legge che depenalizza l’aborto (L. 194/78, successivamente confermata da un referendum popolare nel ‘81), ma il tema è continuamente dibattuto: perché?
La legge, dicono i suoi difensori, ha funzionato bene: il numero degli aborti è in costante e significativa diminuzione ( almeno tra le donne italiane, tra le extracomunitarie il problema è un po’ diverso): dal 1982 al 2006 le interruzioni volontarie di gravidanza sono quasi dimezzate ( – 44,2%) e il tasso di abortività – cioè il numero percentuale delle donne in età fertile che ricorrono all’aborto- fortemente diminuito (- 45,3%); sono i dati ufficiali.(Vedi P. Fogliazzo s.j., L’aborto a trent’anni dalla legge, in Aggiornamenti sociali sett-ott 2008).
La legge riduce il ricorso all’aborto, produce buoni frutti, quindi è una buona legge. Assolutamente no! Rispondono i contrari: non si può mai considerare positivo ciò che è prodotto con mezzi malvagi e la legge non può legalizzare il male. Come si vede, nel trentennale dibattito la legge 194 è sempre stata difesa con argomenti sociologici (eliminazione dell’aborto clandestino, riduzione degli aborti) mai con argomenti morali. Anzi spesso si accettano passivamente e acriticamente le argomentazioni morali degli avversari alla legge.
Questo breve e stimolante libro di Maurizio Mori, insegnante di bioetica a Torino, si propone di esaminare, con rigore analitico, i rapporti tra aborto e morale e soprattutto gli ultimi sviluppi : dalla legge 194 al momento attuale ( la post-fazione è stata scritta quest’estate).
L’origine di un divieto
Nelle discussioni comuni il divieto morale dell’aborto viene fatto derivare direttamente dal “non uccidere” . Per schematizzare in un sillogismo: sopprimere una persona è omicidio, l’embrione è una persona, quindi l’aborto è un omicidio.
L’impatto emotivo è enorme: la donna che abortisce è una assassina, gli embrioni sono bambini innocenti sacrificati: un olocausto immane. Ma è interessante vedere come questo argomento sia usato solo da poco: mai nel passato l’aborto è stato concepito come un omicidio e questo non è neppure la motivazione che al divieto di aborto dà il magistero cattolico ( l’embrione non viene mai definito “persona” cioè composto di corpo e anima razionale, ma “ vita umana”: è una distinzione sottile, ma cruciale).
La debolezza dell’argomento consiste nell’identificazione di embrione con persona: una identità molto difficile da dimostrare razionalmente.
Data una definizione precisa di persona è facile constatare che l’embrione non rientra in essa per molti aspetti fondamentali. Non regge l’argomento che esso è “potenzialmente” una persona, perché “potenza” ed “atto” sono, appunto, distinti: chi compra un biglietto delle lotteria è potenzialmente un milionario, ma non è un milionario: fa una bella differenza!
Ma quando una vita umana diventa persona?
Questa domanda è importante, ma ingannevole: sottintende che ci sia un momento preciso, “ reale”, di svolta ontologica (cioè un cambiamento dell’essenza): prima esisteva corpo (prodotto dalla natura e studiato dalla biologia) e poi c’è una persona: è il momento magico della “animazione” ( della infusione dell’anima) come la chiamavano i filosofi antichi.
Ma, si controbatte, la vita è un cerchio, un flusso continuo, iniziato milioni di anni fa e che si propaga ininterrottamente. Nella vita biologica non esistono salti, ma trasformazioni continue: c’è un uomo, ma prima c’era un bambino, e prima un embrione, e prima dei gameti e prima ancora un uomo, in una catena ininterrotta.
Stabilire un punto di inizio è una scelta fatta da noi, non certo “intrinseca” nelle cose: in questa ottica si spiega la legge: fino a tre mesi dal concepimento l’interruzione delle gravidanza è permessa con relativa facilità, dopo solo in casi particolari ( pericolo per le vita della madre, gravi malattie dell’embrione).
Con la nascita il bambino viene riconosciuto dallo stato, ma fino a 14 anni è considerato non responsabile delle proprie azioni ( non è perseguibile penalmente), da 14 a 18 anni è un minorenne, da 18 diventa maggiorenne, ma sono a 25 anni viene considerato cittadino a pieno effetto (può votare per il senato): un percorso graduale che configura l’aumento progressivo della tutela giuridica.
Ma per molti le cose sono chiarissime: l’uomo nasce, come persona, al momento della fecondazione: prima c’erano due gameti, poi un individuo ; questo è il momento scelto dalla natura e quindi non arbitrario, non frutto di una scelta umana. Mori analizza con cura questa posizione anche alla luce delle conoscenze scientifiche e evidenzia le gravi contraddizioni che presenta.
La fecondazione è un processo complesso: semplificando molto, quando i due gameti si raggiungono, non si fondono immediatamente: bisogna aspettare più di trenta ore (curiosamente simile al tempo della pillola del “giorno dopo”).
Successivamente i gameti uniscono il patrimonio genetico e si forma un pre-embrione: cioè un gruppo crescente di cellule non organizzate gerarchicamente e indifferenziate (le famose staminali): per tredici- quindici giorni possono dividersi ( e si formano diversi pre-embrioni) e rifondersi: diventa quindi difficile parlare di individuo (etimologicamente: non-diviso); poi si formano le prime strutture stabili e si parla di embrione e dal terzo mese sono riconoscibili alcuni nuclei fondamentali del corpo.
Quindi parlare di momento del concepimento dell’uomo come un attimo preciso, una svolta ontologica stabilita dalla natura, è fallace: anche il concepimento è un processo biologico graduale e per identificarlo in un punto preciso bisogna fare una scelta e bisogna motivarla: cioè non è un dato “naturale”, oggettivo, ma una scelta umana arbitraria
In conclusione chi condanna l’aborto sostenendo che fin dal concepimento esiste una persona e quindi l’aborto è un omicidio, non ha validi argomenti razionali a suo sostegno. Ha, questo sì, argomenti di grosso impatto emotivo e che possono colpire e mobilitare grandi folle. Questo non significa, ovviamente, che non ci siamo altre motivazioni, più coerenti, al divieto razionale di aborto.
Difendere la vita umana fin dalle sue origini naturali : l’etica della sacralità della vita contro l’etica della dignità della vita
Questo è il punto sempre affermato dalla chiesa cattolica: ma c’è da notare che si usa l’espressione “vita umana” non “persona”: una differenza essenziale. Senza il concetto di persona non c’è l’omicidio! Per esemplificare anche gli spermatozoi fanno parte della “vita umana”: lo “spreco de seme” può essere considerato un grave peccato, anche un crimine, se una legge lo proibisce, ma non certo un omicidio: il principio morale di riferimento deve essere diverso. Come detto sopra, il magistero cattolico ufficiale mai definisce l’embrione una persona ( e quindi l’aborto un omicidio), anche se riafferma da sempre la proibizione assoluta, dedotta da altri valori.
Infatti secondo la chiesa cattolica attraverso aborto e contraccezione ( entrambi mai permessi, anche se trattati, dal punto di vista pastorale, in modo diverso) “ i coniugi tolgono all’esercizio della loro sessualità coniugale la sua potenziale capacità procreativa e si attribuiscono un potere che appartiene solo a Dio “ (Giovanni Paolo II) : un grave peccato di idolatria e la violazione dell’ordine divino. La posizione delle chiesa rientra quindi in un preciso paradigma morale: la sacralità assoluta della vita e la sua assoluta indisponibilità. L’etica della sacralità della vita esclude la contraccezione, l’aborto, molte forme di fecondazione assistita, la manipolazione genetica, l’eutanasia e limita fortemente anche la possibilità di testamento biologico.
La vita non appartiene all’uomo e l’uomo non ne può mai disporre. E’ un’etica che gli oppositori definiscono “della crudeltà”: il principio assoluto non tiene conto degli effetti e della sofferenza che esso può provocare. Una gravidanza, anche se porta alla morte della gestante, non può essere interrotta; il profilattico non può mai essere usato, neanche per prevenire di contagiare con malattie mortali il partner; il malato terminale deve vivere fino in fondo la sua terribile condizione, qualsiasi sia la sua volontà.
A questa visione etica della sacralità della vita si contrappone l’etica della dignità della vita : non si procede da principi assoluti, ma in una ottica di riduzione del danno e della sofferenza e, in ultima istanza, è il soggetto che decide della sua propria vita, nella misura in cui questo non danneggia gli altri.
In caso di malattia terminale la persona, se valuta la sua condizione non più degna di essere vissuta, può scegliere la morte; ed è sempre l’uomo che decide responsabilmente su come e quando procreare: la sua vita è nelle sue mani. Questi due parametri etici ( l’etica della sacralità della vita – l’etica della qualità della vita) sono molto difficilmente conciliabili: la prima basata su principi che considera non negoziabili e che vanno rispettati indipendentemente dalla ricadute individuali ( etica dei principi) ; la seconda basata sulla considerazione della responsabilità e delle conseguenze delle azioni, e quindi volta a prevenire e limitare la sofferenza per le persone ( etica della responsabilità).
Quale paradigma morale è “giusto”? Mori non dà, giustamente, indicazioni. Resta un punto aperto: siamo sicuri che l’etica dei principi, abbracciata con tanta sicurezza della chiesa cattolica, sia davvero un’etica conforme al vangelo? Molte altre confessioni cristiane non sono infatti d’accorto con le posizioni del Vaticano su temi morali.
Ma in una società pluralista, dove necessariamente convivono diversi valori, sono importanti le osservazioni finali dell’autore : l’etica della qualità della vita non toglie all’individuo la possibilità di organizzare la sua esistenza secondo i principi morali che sceglie, mentre non vale il viceversa. Per semplificare la legge sull’aborto (o sulla eutanasia, sulla libera procreazione, sul divorzio, sulla coppie di fatto) non obbliga nessuno; ma la proibizione obbliga tutti: non è una differenza da poco!
Perché l’aborto resta un “problema”?
Nella stimolante postfazione l’autore si pone il problema iniziale: perché la battaglia sull’aborto, dopo trent’anni, è ripresa con tanta virulenza: una strumentalizzazione mediatica dei teocom? La ripresa dell’attivismo della chiesa di Ratzinger? Un ripensamento collettivo? Secondo Mori la “liceità dell’aborto è la testa di ponte per una sempre più massiccia trasformazione della famiglia circa l’aspetto riproduttivo, è una sorte di bomba ad orologeria che fa via via saltare nuove parti della famiglia tradizionale” (pag.112).
Le nuove frontiere della tecnica, precipitosamente sviluppate negli ultimi anni (l’ ingegneria genetica, le nuove forme di procreazione, la medicina riparativa con uso di staminali, la definizione di vita e di morte) prospettano una rivoluzione nella nostra esistenza: “ la vita era qualcosa di sacro, di dato e di donato, come un destino che ci trascina e di cui siamo parte. Ora non è più così: la vita è nelle nostra mani e dipende da scelte umane.
Questa nuova situazione crea uno sgomento di enormi dimensioni ed in molti una profonda angoscia, dal momento che costituisce una novità assoluta nel corso della storia” (pag. 114).
Ciò che nel passato era sentito come fato ora diventa una scelta. La lotta contro l’aborto si salda con la difesa della famiglia “naturale” e il rifiuto delle possibilità che la modernità offre. Incanala lo spaesamento di molti di fronte a nuovi scenari di cui non sanno cogliere le grandi prospettive potenziali, ma solo apocalissi : è una “fuga dalla libertà”.
Maurizio Mori, Aborto e morale. Capire un nuovo diritto, Einaudi, 2008, pag. 126
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