Giovani gay in fuga dall’omofobia dei genitori. In Francia una struttura gli accoglie
Essi condividono una stanza d’albergo a Montpellier, grazie all’Associazione Il Rifugio, una struttura unica in Francia. Tutti e due si sono ritrovati brutalmente messi alla porta di casa loro quando la famiglia ha saputo che erano omosessuali.
L’albergo sociale ha trentasei posti, alcuni dei quali sono riservati al Rifugio. “Sistemazione completa”, dice il cartello all’entrata. Dal balcone Mathieu guarda la strada con occhi malinconici. Sophian invece, è tutto eccitato, parla svelto e sorride molto. Sogna di partire per Londra.
Era iscritto ad un corso superiore di restauro quando ha traslocato. Gli mancano tre mesi di corso, che comunque intende recuperare al suo rientro. Mathieu invece non fa così tanti progetti. Ogni mattina fa il giro dei ristoranti e dei caffè di Montpellier con il suo Curriculum Vitae. Ha lasciato la scuola in terza ed era aiuto cuoco prima di andar via da casa. Tre settimane fa viveva ancora con sua madre e con i suoi due fratelli, nella periferia di Parigi. “Ho sempre nascosto il fatto di essere gay”, dice.
Nella sua famiglia, cristiana e molto religiosa, le “persone fatte così vanno all’inferno”. Quando sua madre vedeva degli omosessuali alla televisione gridava: “La fine del mondo è vicina!”. Allora Mathieu faceva attenzione a dissimulare ogni gesto, ogni parola. ” Non mi lasciavo andare, mi controllavo molto, per evitare che avessero dei dubbi”. E aggiunge con un sorriso triste: “Devo pensare che che non abbia esercitato un buon controllo”.
“Per me sei morto”
Un cugino, insieme alla madre, ha frugato nel suo cellulare ed ha trovato delle “tracce”. Mathieu ne parla come se fossero indizi di un crimine. Il parentado, un clan di parrocchiani, ha convocato Mathieu. “Mi hanno detto che ero la vergogna della famiglia, che ero un maledetto, che bisognava che mi facessi curare: Vorrebbero che io la smetta con questa vita, che mi sposi, che abbia dei bambini ed una vita ordinata.
Ha ascoltato i suoi (“persone perbene, solidali quando hai bisogno di loro”) che lo sgridavano. “Dicevo a me stesso che li stavo perdendo”.
E aggiunge : “Sono pieno di rancore, mia madre, la stessa che mi ha allevato, mi ha detto: Sei morto per me, non ti conosco più.”. La sera stessa Mathieu si rende conto che il suo sacco per lo sport è stato tirato fuori dall’armadio e messo bene in mostra. Passa una notte a piangere da solo, poi mette insieme qualche vestito e al mattino se ne va.
“Non sapevo proprio dove stavo andando”: Dorme da un compagno. Poi per tre mesi sta da quello che definisce “un amico”, poi da “un altro”. Finalmente trova il contatto dell’associazione, specializzata nella “lotta contro l’isolamento delle giovani vittime dell’omofobia” a cui invia un messaggio d’aiuto urgente.
Il Rifugio ne riceve uno ogni giorno. Si è fatto prestare i soldi per pagare il treno per Montpellier. “Ritorno a vivere. Non sono più obbligato a cercare a destra e a manca”. Quasi non ci crede di aver trovato un luogo “dove non si viene giudicati”.
Dal vagabondaggio alla vita da marciapiede
David ha compiuto tutti i suoi studi in una scuola religiosa. “Avevo l’impressione di recitare una commedia. Mi sentivo quasi schizofrenico. Avevo due vite separate”. Ha anche “tentato con una ragazza”, una piccola compagna ufficiale, per essere “normale”.
Ma “niente”. Non ha resistito a lungo. “Mi interesso alla moda, ai vestiti, ogni volta che passo davanti ad uno specchio non posso fare ameno di pettinarmi”, rivela tanto per affermare la sua identità.
Incoraggiato da compagni di corso, più liberali rispetto ai suoi amici d’infanzia, alla fine decide di convocare i suoi genitori per una spiegazione: “Ascoltatemi, nonostante lo psichiatra, so benissimo chi sono, non sono un pervertito, sono una persona normale. Sono omosessuale”. I suoi genitori rimangono inflessibili: “Se è questa la tua scelta di vita, tu non fai parte della famiglia, ti fai gli affari tuoi e te ne vai”. E mia sorella mi ha detto: “Finocchio, non sei più mio fratello!”.
Due giorni dopo se n’è andato via. Strappato ai suoi studi di diritto, David va a lavorare a Marsiglia in un bar gay. Lì incontra un tipo che in seguito lo ospita a Montpellier: “Ma non andava bene, lui mi trovava troppo invadente”.
Quando il rifugio l’ha accolto, non aveva più nessun’altra soluzione. “Ho rischiato di cadere molto in basso”. Ha pensato di prostituirsi, e per questo si è recato nei luoghi “caldi” della città, ma ha passato la notte a simpatizzare con i travestiti. Il ragazzo ha capito che il Rifugio è anche “una risorsa contro il marciapiede”.
L’associazione – che ha in progetto di svilupparsi a Parigi – è nata per giovani come Mathieu e David.
“L’omosessualità, banalizzata sugli schermi, spesso all’interno delle famiglie è ancora vissuta male. Nicolas Noguier, il fondatore del Rifugio, convenzionato con lo Stato, fa riferimento a numeri di sanità pubblica per lo meno allarmanti: un omosessuale (o bisessuale) ha un rischio tredici volte superiore di compiere un tentativo di suicidio rispetto ad un eterosessuale” (1).
“Ora, l’assenza di risposte a queste richieste di aiuto urgente grida vendetta” ha constatato. “Molti arrivano qui fortemente condizionati: si sentono obbligati di passare attraverso una pratica assidua di prestazioni sessuali gratuite o anche di prostituzione” dice Jean-Baptiste Garcia, volontario permanente.
“Spesso vedono la sessualità come qualcosa di sporco, hanno una visione molto svilente del corpo. Questo spinge a comportamenti a rischio”. “Spesso cercano dei giovani uomini che abbiano i connotati del cliente. Se da una relazione di sesso possono trarne qualche guadagno in denaro, è sempre cosa utile”, ha fatto notare Frédéric Gal, un altro volontario.
Qui questi giovani allo sbando si fermano almeno per un mese. L’associazione può sistemarli in una stanza o in un piccolo appartamento, un “universo di soccorso” o, in emergenza, in un albergo sociale. Sono seguiti da una psicologa ed aiutati dalla missione locale.
Dal 2003 una quarantina di giovani hanno già trovato ricovero. Sette di essi hanno riallacciato i rapporti con la loro famiglia, anche se i “giovani di origine musulmana rifiutano sempre la mediazione”, ha notato l’associazione. Uno vive in coppia a Montpellier da due anni. E altri sono riusciti a trovare la strada dell’autonomia.
Per Lorenzo è più difficile. Ospitato dal novembre 2007, ha trattato da “puttana” la sua educatrice e continua a trovare “dei vecchi” su Internet. Ha avuto rapporti sessuali non protetti, ha mancato l’appuntamento obbligatorio per ritirare il suo pacco alimentare.
In quel giorno la lista è lunga… “Le abbiamo tentate tutte. Il tuo fallimento è anche il nostro”, dice desolatamente Gal. “Io non sono nient’altro che marciume”, risponde Lorenzo. Che fare? “Ci sono persone che vogliono l’appartamento, ce n’è tutta una lista d’attesa”, sospira un volontario.
La sera stessa Lorenzo manda uno scritto al fondatore del Rifugio. “Non ho più stima per me stesso e nessuno ne ha. Sono una merda, è così e spero di poter farla finita, non ne posso più”. Il cellulare dell’associazione rimane aperto 24 ore su 24.
Abdel, magro e gracile, fa pensare ad un uccellino appollaiato sul divano. Vivono in coppia da qualche mese. Matt si trascina dietro un passato di violenze famigliari e sogna di lavorare “in dogana”. Figlio di immigrati marocchini, Abdel abitava a Montreuil ed era uno studente di Storia, appassionato di questa materia.
“A 16 anni mi sono innamorato di un ragazzo incontrato su Internet – racconta – . Provavo il desiderio di dirlo a quelli che amo. Così ho detto a mia sorella: “Sono innamorato”. Sua sorella gli domanda: “E lei come si chiama?”. “Kevin”. “Quando lei mi trattava da finocchio io le dicevo: “Non è un insulto!”.
Lei lo obbliga a lasciare Kevin. Abdel si ritrova quindi privato di Internet e di cellulare. “Mia madre pensava che avessero cercato di plagiarmi”. E’ colpito dallo scatenarsi della sua volgarità. Nelle famiglie maghrebine spesso è tabù parlare della propria intimità. “Lei mi ha detto: “Preferisco saperti morto piuttosto che vivo e omosessuale”.
Finchè si imbatte in un’amica che non gli permette di raccontare frottole. “Ho finito col dirle di essere omosessuale. E’ stato un tale sollievo, prima mi sentivo soffocare”. Dopo qualche settimana in un centro di ospitalità d’emergenza nella regione di Parigi, Abdel e Matt sono arrivati qui. Abdel continua a non dire la verità a sua madre. Quando lei chiama al telefono, Matt deve stare in silenzio.
“In queste occasioni bisogna che io smetta di vivere, borbotta, non posso nemmeno tossire”. Abdel ritira la testa tra le spalle e cerca di scusare sua madre ancora una volta: “Io sono il suo unico figlio”.
(1) Studio di Marc Shelly, medico di sanità pubblica presso l’ospedale parigino Fernand-Widal, svolto su 933 uomini, di età compresa tra 16 e 39 anni, approvato dall’Istituto Nazionale della Sanità e della Ricerca Medica. Alcuni nomi sono stati cambiati.
Testo originale
Réfugiés de l’homophobie