Pecore e pastori. Per un laicato adulto nella chiesa cattolica
Il pastore “condivide la vita del gregge”, ma ne è soprattutto “il capo e il condottiero”, perché i sacerdoti “non devono seguire le pecore nei loro sbandamenti, ma guidarle con mano ferma”. E pazienza se questa autorità “sarà vista ovviamente come un’autorità che si fonda su sé stessa, e sarà classificata come antidemocratica”. Tanto la Chiesa non è una democrazia.
Con queste parole il cardinale Giacomo Biffi (ndr Arcivescovo emerito di Bologna), nel suo ultimo libro Pecore e pastori, (ed. Cantagalli, 2008) liquida il rapporto tra chierici e laici che, in verità, è ben più complesso di come lo ritrae l’arcivescovo emerito di Bologna.
Perché, se i fedeli “accolgono con docilità gli insegnamenti e le direttive che vengono loro dati, sotto varie forme, dai Pastori” (Catechismo della Chiesa cattolica, 87), è anche da ricordarsi – senza mai dimenticarlo – che il Magistero “’non è al di sopra della Parola di Dio, ma la serve’” (Catechismo della Chiesa cattolica, 86, che richiama la Dei Verbum 10).
Ciò a cui occorre prestar fede è la Parola di Dio più che il Magistero. Che troppo spesso dimentica di essere a servizio della Rivelazione, pretendendo dal laico una preminenza di ascolto che non gli compete.
E ancora, tornando alla relazione tra laici e preti, il Concilio Vaticano II, pur non superando – purtroppo – la struttura gerarchica della Chiesa, di cui non c’è traccia nel Vangelo (“I capi della nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere.
Non così dovrà essere tra di voi, ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo e colui che vorrà essere il primo, si farà vostro schiavo, appunto come il Figlio dell’uomo che non è venuto per essere servito ma per servire” Mt, 20,25-28), cerca di avvicinarsi alla volontà di Cristo, in un’ottica di collaborazione fraterna fra clero, laicato e religiosi.
Non di semplice despotismo da parte dei chierici nei confronti degli altri membri della Chiesa, ai quali porporati come Biffi chiedono il silenzio su tutto e con tutti. Infatti, i laici “hanno la facoltà, anzi talora il dovere di far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa” (Lumen gentium, 37), mentre i pastori “riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa” ( Lumen gentium, 37) che godono di “quella giusta libertà, che a tutti compete nella città terrestre” (Lumen gentium, 37). Ossia la libertà di coscienza.
Ci pare, dunque, che, leggendo con attenzione la dottrina della Chiesa, ci sia spazio – ancora troppo poco – per i ‘cattolici adulti’. E ci rincresce che il cardinale Biffi guardi loro con sarcasmo.
Scrive il porporato: “Se qualcuno manifesta ad alta voce di voler essere considerato ‘adulto’ nella Chiesa, l’intenzione ci sembra legittima e persino encomiabile, purché egli rimanga convinto che, secondo il Vangelo, chi dentro di sé non diventa come un bambino non entrerà nel Regno dei cieli”.
E’ vero che bisogna diventare come dei bambini per entrare nel Regno dei cieli, ma il riferimento evangelico (Mt 18,3-5) è alla purezza d’animo dei più piccoli. Al loro non essere toccati dal peccato. Pertanto, ci sembra fuorviante richiamarsi a tale dettato della Parola per contrastare un modo autentico di vivere la propria esperienza di fede.
Che dire, infine, delle parole del cardinale che accosta gli omosessuali a “maniaci che impongono a tutti una loro degenerazione mentale”, con l’omosessualità vista come “estromissione di Dio”? Non vale a niente parlare di persone da rispettare quando si usano espressioni di fuoco per descrivere la natura di certi uomini e donne.
“Va deplorato con fermezza che le persone omosessuali siano state, e siano ancora, oggetto di espressioni malevole e di azioni violente. Simili comportamenti meritano la condanna dei pastori della Chiesa, ovunque si verifichino” (Cura pastorale delle persone omosessuali, 10).
Certo che, se la discriminazione prende le mosse dai successori degli apostoli, viene difficile pensare che gli stessi siano in grado di stigmatizzare certe violenze, verbali o fisiche che siano.