Che intervento pastorale si può chiedere alla chiesa cattolica nei confronti delle persone omosessuali?
Intervento di Mauro Castagnaro* tenuto al convegno su “Omosessuali cristiani e Chiesa cattolica: prove di dialogo” organizzato a Roma da Nuova Proposta il 10 gennaio 2009
In questo intervento ho cercato di riassumere, limitandomi a selezionare e ordinare – ovviamente senza rincorrere un’impossibile neutralità, ma cercando di far emergere problemi e “prospettive di azione positiva” – quanto scritto da altri, una certa quantità di libri, articoli, riflessioni pubblicate in Italia negli ultimi anni1 – su “che cosa si può realisticamente chiedere alla chiesa e a noi stessi in ordine a una pastorale e a una sensibilità diverse nei confronti delle persone omosessuali?”.
CHE COSA SI PUÒ REALISTICAMENTE CHIEDERE ALLA CHIESA E A NOI STESSI IN ORDINE A UNA PASTORALE E A UNA SENSIBILITÀ DIVERSE NEI CONFRONTI DELLE PERSONE OMOSESSUALI? PERCHÉ UN INTERVENTO PASTORALE?
La pastorale con le persone omosessuali è un dovere
Le persone omosessuali, uomini e donne, in virtù del battesimo ricevuto, sono membri della Chiesa e sono destinatarie della salvezza come ogni altro battezzato. Esse hanno un posto e un diritto di cittadinanza nella Chiesa. Esse sono Chiesa e nella Chiesa devono trovare piena accoglienza, tenendo conto che l’omosessuale, come ogni altro credente, è chiamato a convivere con le proprie ferite, debolezze e sofferenze.
È compito di tutti i pastori aiutare gli uomini omotropici e le donne ginecotropiche, un gruppo umano che stima, non senza ragione, di non aver incontrato nel passato la sollecitudine sperata.
Nella società le persone omosessuali sono variamente incomprese, discriminate, emarginate ed esposte a stereotipi e pregiudizi negativi.
Ciò le costringe spesso a non farsi riconoscere come tali e a tacere o nascondere il loro orientamento sessuale, il che è per loro un grave peso. Come ricorda il Documento base elaborato dal Gruppo di lavoro sulla pastorale delle persone omosessuali della diocesi di Innsbruck, “una Chiesa che sa di dover restare sempre a fianco delle minoranze discriminate rifiuta come inumana e non cristiana ogni forma di diffamazione e discriminazione”.
Secondo la Commissione cattolica inglese per l’assistenza sociale, “occuparsi delle persone che, a causa della loro omosessualità, sono sempre state emarginate, è un preciso dovere sociale e morale”; inoltre “la Chiesa ha una seria responsabilità nell’eliminazione di tutte le ingiustizie perpetrate ai danni degli omosessuali da parte della società. Come gruppo che ha sofferto, molto più del dovuto, oppressione e disprezzo, la comunità omosessuale ha un posto speciale nella preoccupazione della Chiesa”.
La lettera della Congregazione per la dottrina della fede ai vescovi della Chiesa cattolica su “Cura pastorale delle persone omosessuali” condanna ogni discriminazione: “Va deplorato con fermezza che le persone omosessuali siano state, e siano ancora, oggetto di espressioni malevole e di azioni violente. Simili comportamenti meritano la condanna dei pastori della Chiesa, ovunque si verifichino. Essi rivelano una mancanza di rispetto per gli altri, lesiva dei principi fondamentali su cui si basa una sana convivenza civile. La dignità propria di ogni persona deve essere sempre rispettata nelle parole, nelle azioni e nelle legislazioni”.
Il Documento base elaborato dal Gruppo di lavoro sulla pastorale delle persone omosessuali della diocesi di Innsbruck traduce: “Poiché certi problemi delle persone omosessuali derivano essenzialmente dal loro ambiente sociale occorre un impegno politico attivo nella società e nella Chiesa. Perciò, la presa di posizione a favore delle persone omosessuali, comunque esse vengano stigmatizzate ed emarginate, l’impegno a favore dei loro diritti e l’eliminazione della discriminazione fanno parte integrante di una pastorale con le persone omosessuali”.
Tuttavia la stessa lettera della Congregazione per la dottrina della fede ai vescovi della Chiesa cattolica su “Cura pastorale delle persone omosessuali” ripete che “la doverosa reazione alle ingiustizie commesse contro le persone omosessuali non può portare in nessun modo all’affermazione che la condizione omosessuale non sia disordinata”.
E il documento “Alcune considerazioni concernenti la risposta a proposte di legge sulla non discriminazione delle persone omosessuali” della Congregazione per la dottrina della fede afferma che “la ‘tendenza sessuale’ non costituisce una qualità paragonabile alla razza, all’origine etnica, ecc. rispetto alla non discriminazione. Diversamente da queste, la tendenza omosessuale è un disordine oggettivo e richiama una preoccupazione morale. Vi sono ambiti nei quali non è ingiusta discriminazione tener conto della tendenza sessuale: per esempio, nella collocazione di bambini per adozione e affido, nell’assunzione di insegnanti o allenatori di atletica, e nel servizio militare.
Le persone omosessuali, in quanto persone umane, hanno gli stessi diritti di tutte le altre persone, incluso il diritto di non essere trattate in una maniera che offende la loro dignità personale. Fra gli altri diritti, tutte le persone hanno il diritto al lavoro, all’abitazione, ecc.
Nondimeno questi diritti non sono assoluti. Essi possono essere legittimamente limitati a motivo di un comportamento esterno obiettivamente disordinato. Ciò è talvolta non solo lecito, ma obbligatorio, e inoltre si imporrà non solo in caso di comportamento colpevole, ma anche nel caso di persone fisicamente e mentalmente malate. Così è accettato che lo Stato possa restringere l’esercizio di diritti, per esempio, nel caso di persone contagiose o mentalmente malate, allo scopo di proteggere il bene comune.
Includere la ‘tendenza omosessuale’ fra le considerazioni sulla base delle quali è illegale discriminare può facilmente portare a ritenere l’omosessualità fonte positiva di diritti umani, ad esempio, in riferimento alla cosiddetta ‘affirmative action’ o trattamento preferenziale nelle pratiche di assunzione. Ciò è tanto più deleterio dal momento che non vi è un diritto all’omosessualità., che pertanto non dovrebbe costituire la base per rivendicazioni giudiziali.
Il passaggio dal riconoscimento dell’omosessualità come fattore in base al quale è illegale discriminare può portare facilmente, se non automaticamente, alla protezione legislativa e alla promozione dell’omosessualità. L’omosessualità di una persona sarebbe invocata in opposizione a un’asserita discriminazione e così l’esercizio dei diritti sarebbe difeso precisamente attraverso l’affermazione della condizione omosessuale invece che nei termini di una violazione dei diritti umani fondamentali.
La ‘tendenza sessuale’ di una persona non è paragonabile alla razza, al sesso, all’età, ecc. anche per un’altra ragione che merita attenzione, oltre quella sopramenzionata. La tendenza sessuale di un individuo non è in genere nota ad altri a meno che egli identifichi pubblicamente se stesso come avente questa tendenza o almeno qualche comportamento esterno lo manifesti.
Di regola la maggioranza delle persone a tendenza omosessuale che cercano di condurre una vita casta non rende pubblica la sua tendenza sessuale. Di conseguenza il problema della discriminazione in termini di impiego, alloggio, ecc. normalmente non si pone. Le persone omosessuali che dichiarano la loro omosessualità sono in genere proprio quelle che ritengono il comportamento e lo stile di vita omosessuale ‘indifferente o addirittura buono’, e quindi degno di approvazione pubblica.
È all’interno di questo gruppo di persone che si possono trovare più facilmente coloro che cercano di ‘manipolare la Chiesa conquistandosi il sostegno, spesso in buona fede, dei suoi pastori, nello sforzo volto a cambiare le norme della legislazione civile’, coloro che usano la tattica di affermare con toni di protesta che ‘qualsiasi critica o riserva nei confronti delle persone omosessuali è semplicemente una forma di ingiusta discriminazione’. Inoltre vi è il pericolo che una legislazione che faccia dell’omosessualità una base per avere dei diritti possa di fatto incoraggiare una persona con tendenza omosessuale a dichiarare la sua omosessualità o addirittura a cercare un partner allo scopo di sfruttare le disposizioni di legge”.
Come qualcuno ha osservato, questo documento e la Lettera cui rimanda sembra ignorare del tutto gli omosessuali che vogliono il rispetto della loro condizione senza doversi nascondere chiedono alla Chiesa e alla società di riconoscere che anche tra due omosessuali è possibile costruire un rapporto serio basato sul dono di sé e sui una reciprocità responsabile, e domandano che tale scelta venga accettata come l’unica reale possibilità, nella maggior parte dei casi, di condurre una vita dignitosa e serena, in pace con se stessi e con la propria identità sessuale.
La Chiesa insiste quindi sulla necessità di attitudini comprensive e non discriminatorie verso le persone omosessuali, ma non sempre dà il buon esempio al proprio interno e ciò ne rende meno credibili i richiami.
Come gli omosessuali vivono la Chiesa
Anche nella Chiesa, che è chiamata a testimoniare l’amore di Cristo verso tutti coloro che hanno bisogno di aiuto e comprensione, molti omosessuali non si sentano accettati e sperimentano umiliazioni, discriminazioni, violenze e pressioni psicologiche a causa della loro diversità, mentre l’induzione della vergogna e dei sensi di colpa provoca gravi crisi personali, alimenta angoscia e solitudine, influenza la configurazione della vita e l’immagine di Dio.
Come riconosce la Commissione cattolica inglese per l’assistenza sociale, “la disapprovazione sociale e il rifiuto della persona omosessuale solo perché ha queste tendenze è un penoso problema per l’omosessuale. Sfortunatamente, l’incomprensione viene molto spesso da persone ‘religiose’ e l’ostracismo e la discriminazione nei confronti degli omosessuali sono presenti spesso in molti cristiani praticanti che non vogliono ammettere di essere omosessuali”.
Dalla Chiesa le persone omosessuali si sentono spesso abbandonate, giudicate, discriminate, sospinte ai margini ed escluse. Non si sentono comprese né prese veramente sul serio: i pronunciamenti ufficiali ignorano il loro bisogno affettivo e non sembra contribuiscano a un loro recupero di rispetto e di dignità nell’opinione di credenti e non.
Ritengono particolarmente difficile da accettare l’accento posto dal magistero ecclesiale sugli “atti omosessuali”, considerato un contributo a mantenere una visuale riduttiva della condizione omosessuale, o il persistere nel giudicare l’omosessualità una malattia, di cui vanno cercate le cause, per poterle poi superare e ricondurre l’omosessuale alla normalità, e la valutazione di “immoralità oggettiva” delle relazioni omosessuali. La sentono non come un aiuto alla configurazione del loro stile di vita, ma come un giudizio di condanna.
Delusi da un approccio prevalentemente normativo e stigmatizzante, molti omosessuali credenti le volgono le spalle, non si aspettano da essa più alcun orientamento e l’abbandonano silenziosamente, venendo così privati della ricchezza e della grazia del messaggio evangelico. Come rilevava il documento del Gruppo del Guado al Convegno ecclesiale di Loreto “chi resta lo fa con molta fatica: alcuni si trovano a lottare contro penosi sensi di colpa che sono causa di tanta sofferenza e non contribuiscono certo a un giudizio lucido e sereno su se stessi, altri sono portati a ignorare un insegnamento che non li aiuta a vivere in chiave positiva la loro situazione. L’atteggiamento di pratico ostracismo da parte della comunità nel suo insieme impedisce che vengano proposti modelli positivi, che pure ci sono, dove la condizione omosessuale è vissuta con dignità in un contesto di condivisione e di amore”.
La Chiesa appare all’esterno oppressiva nei confronti degli omosessuali e non è estranea, almeno per il passato, alla formazione della mentalità di rifiuto e disprezzo nei loro riguardi. Con realismo il Documento base elaborato dal Gruppo di lavoro sulla pastorale delle persone omosessuali della diocesi di Innsbruck osserva che “la visione negativa dell’omosessualità e la sua condanna morale da parte della Chiesa influenzano profondamente anche i comportamenti della società in genere e contribuiscono quindi ad accrescere l’emarginazione e la discriminazione sociale” delle persone omosessuali.
Il fatto che nella Chiesa, la quale proclama l’accoglienza universale, ci siano persone che, per di più appartenenti a una minoranza già emarginata e discriminata sul piano sociale, si sentono escluse, e che il Vangelo, “buona notizia”, possa essere percepito da costoro come fonte di profondo malessere, costituisce una contraddizione che tutti i cristiani dovrebbero vivere come lacerante e fonte di una sfida urgente.
Il silenzio della Chiesa italiana
In anni recenti in Chiese di altre nazioni sono stati fatti tentativi di considerare con più simpatia e migliore intelligenza la condizione omosessuale. La nostra Chiesa tace. La Commissione cattolica inglese per l’assistenza sociale osserva: “Alcuni attaccano mettendo in ridicolo e denunciando. Altri si ritirano dalla compagnia degli omosessuali. Né l’uno né l’altro di questi atteggiamenti servono a qualcosa .
Un rifiuto silenzioso, come se l’argomento fosse di quelli di cui non si deve parlare perché non è del tutto ‘pulito’, è ugualmente inutile e non aiuta. La società continuerebbe nei suoi atteggiamenti di incomprensione e di pregiudizio nei confronti di una parte considerevole della comunità”.
In Italia le istanze ufficiali della Chiesa hanno mostrato nei confronti delle persone omosessuali una disattenzione, una sordità o, quando hanno parlato, una perentorietà di affermazioni senza spiragli che hanno favorito il diffondersi dell’idea per cui nella Chiesa c’è posto per tutti, eccetto gli omosessuali. I tentativi compiuti dai gruppi di omosessuali cristiani di dialogare con gli organismi direttivi della Cei e delle diocesi hanno avuto scarso esito.
Nel 1985 Il guado aveva inviato un documento al Convegno ecclesiale di Loreto: il testo era stato discusso in una commissione, e gli Atti avevano auspicato che la condizione omosessuale fosse letta ‘in positivo’ e si evitasse nelle comunità ogni forma di emarginazione. Nel 1994 all’analogo convegno di Palermo erano stati inviati più documenti dai gruppi, ma di essi non si era avuta accusa di ricezione e nessuna menzione della condizione degli omosessuali nella Chiesa era stata fatta dei testi conclusivi dell’assise.
Per sensibilizzare l’opinione pubblica e la comunità
Viceversa, accanto allo spazio protetto della pastorale e della consulenza, sarebbero molto importanti anche il lavoro formativo e la coscientizzazione dell’opinione pubblica. Informando e spiegando si possono eliminare pregiudizi e paure, sviluppare un’immagine più realistica delle persone omosessuali e accrescere la comprensione nel loro riguardi.
La formazione della coscienza in tutti i settori richiede che si parli con la massima naturalezza possibile anche dell’omosessualità ogniqualvolta si affrontano i temi della sessualità e delle relazioni (scuola, iniziative giovanili, catechesi degli adulti, preparazione al matrimonio, formazione ai ministeri ecclesiali).
Ciò che gli omosessuali possono dare alla Chiesa
D’altro canto una proposta di cammino spirituale nata dall’ascolto della condizione omosessuale finisce per essere utile a tutti, soprattutto in quegli aspetti del vivere che una minoranza coglie con maggiore sensibilità e la maggioranza rischia di non vedere o di occultare per non mettere in crisi il proprio predominio.
Edificare una Chiesa della compassione e della gioia, invece di una Chiesa dell’arroganza e delle sicurezze, richiede che la debolezza venga messa al centro e non esclusa o mascherata come un ingrediente fastidioso. Forse è questo il servizio maggiore che i gruppi di cristiani omosessuali possono dare alla loro Chiesa.
Una pastorale attenta alle peculiarità delle persone omosessuali avrebbe poi l’effetto di far crescere nella comunità cristiana una più acuta sensibilità per le situazioni di marginalità e una maggiore capacità di accoglienza, mentre il dialogo con loro potrebbe aiutare la Chiesa a imparare a comprendere meglio coloro che vivono, sentono e pensano diversamente. Le persone omosessuali, infatti, sono state sempre duramente perseguitate a causa della loro forma di vita e sperimentano ancor oggi incomprensione ed emarginazione.
Una pastorale delle persone omosessuali può creare un ghetto?
Alcuni, anche nei gruppi di omosessuali cristiani, obiettano che una pastorale delle persone omosessuali, oltre a essere vincolata dall’adesione alle linee del magistero al punto da escludere chi non le condivide e dal vedersi inibito qualunque intervento sociale e politico controverso (per es. a favore delle unioni di fatto), finirebbe ancora una volta per emarginare e distinguere gli omosessuali dagli altri credenti.
Perciò ritengono preferibile inserire gli omosessuali nella pastorale ordinaria, chiamando gli operatori a tener conto di questa componente umana nei vari ambiti: chi si occupa di pastorale familiare dovrà prendere in considerazione il fatto che in una famiglia vi possano essere un figlio, una figlia, un genitore omosessuale; chi tratta della pastorale giovanile dovrà ricordarsi che esistono giovani gay o lesbiche; l’ufficio per la pastorale vocazionale dovrà tener conto che i chierici e religiosi/e omosessuali sono numerosi.
Di conseguenza i gruppi di omosessuali cristiani che sostengono questa posizione non propongono occasioni di riflessione religiosa, biblica o di preghiera, invitando i propri membri a vivere questi momenti assieme a tutta la comunità e proponendo ai gruppi di gay credenti che li organizzano di aprirli ai credenti eterosessuali.
Quanti sostengono l’adozione di forme specifiche di accompagnamento pastorale delle persone omosessuali non rifiutano la prospettiva di una comunità cristiana in cui omosessuali ed eterosessuali si accolgano reciprocamente per crescere insieme.
Sono però convinti che, dato l’attuale contesto sociale ed ecclesiale segnato dal rifiuto e dall’emarginazione, le persone omosessuali abbiamo bisogno anche di luoghi in cui possano sentirsi pienamente accolti, ricevere un’assistenza pastorale e un accompagnamento spirituale rispettosi della loro diversità, e realizzare un cammino verso una fede adulta che integri la loro identità sessuale.
PRINCIPI DI AZIONE PASTORALE
Che cosa è la pastorale
Il Documento base elaborato dal Gruppo di lavoro sulla pastorale delle persone omosessuali della diocesi di Innsbruck ricorda che “la pastorale dei seguaci di Gesù Cristo deve essere intesa come servizio e sollecitudine (di salvezza) per la persona umana integrale, con tutti i suoi aspetti e tutti i suoi problemi.
Essa si preoccupa che le persone possano vivere nella libertà dei figli di Dio e secondo il desiderio di Gesù Cristo ‘di avere la vita e averla in abbondanza’ (Gv 10,10). L’incondizionata dedizione alle persone è già di per sé proclamazione del messaggio dell’amore incondizionato di Dio. Lo scopo della pastorale è ‘la piena e naturale accettazione di ogni persona, che possiede la stessa dignità in quanto creatura e figlia di Dio e arricchisce, grazie alla sua specifica costituzione, tutti gli altri’”.
Ogni azione pastorale si pone all’incrocio tra teologia e prassi, e costituisce di fatto una mediazione tra alcuni principi e la situazione delle persone. Tali principi sono sostanzialmente due. Il primo, che ha la sua icona nel pastore, il quale dà forza alle pecore deboli, cura le inferme, fascia quelle ferite, va in cerca e riporta quelle disperse, si traduce in un’azione ispirata a un atteggiamento di “compassione”, nel senso di lasciarsi investire dalla situazione (“mettersi sulle spalle la pecora perduta”) per aiutare la persona a dare un senso alla propria vita, il che produce conforto e serenità.
In questa luce si colloca il secondo principio, che il teologo Richard McBrien esprime così: “Nella sua versione migliore la religione riguarda le relazioni, con Dio e tra noi, non le regole. La gerarchia esiste non per controllare se noi osserviamo le regole, ma per incoraggiarci a mantenere relazioni sane e feconde tra noi, con quelli che non appartengono alla famiglia e, attraverso queste relazioni, con Dio”.
Questi due principi riguardano la pastorale in generale, non gli omosessuali in particolare, i quali non amano essere “compatiti”. Tutte le “pecore” di volta in volta oggetto e soggetto della pastorale sono “ferite” e a costruire sane e feconde relazioni interpersonali sono chiamati tutti, omosessuali compresi, senza che a loro debba essere chiesto di mettere semplicemente da parte quella modalità relazionale che è iscritta nella loro natura. La “compassione” pastorale non significa altro che valutare le situazioni in positivo, affrontarle con atteggiamento di simpatia, sorreggere chi ha bisogno perché dia il meglio di sé.
Magistero e pastorale
La Dichiarazione della Congregazione per la dottrina della Fede “Alcune questioni di etica sessuale” sostiene che gli omosessuali “devono essere accolti con comprensione” e occorre giudicare “con prudenza” la loro colpevolezza; al contempo afferma che “non può essere usato alcun metodo pastorale che, ritenendo questi atti conformi alla condizione di quelle persone, accordi loro una giustificazione morale”, dato che ‘gli atti omosessuali sono intrinsecamente disordinati e non possono in nessun caso essere approvati”.
Il primo e unico documento organico sul tema è però la Lettera della Congregazione per la dottrina della fede ai vescovi della Chiesa cattolica intitolata “La cura pastorale delle persone omosessuali”. Essa parte sottolineando la necessità che le persone omosessuali siano “oggetto di una particolare sollecitudine pastorale perché non siano portati a credere che l’attuazione di tale tendenza nelle relazioni omosessuali sia un’opzione moralmente accettabile”.
Quindi imputa “la confusione nei confronti dell’insegnamento della Chiesa”, il cui contrasto è considerato “una delle dimensioni essenziali di un’autentica cura pastorale”, a una nuova esegesi della sacra Scrittura, secondo cui la Bibbia o non avrebbe niente da dire sul problema dell’omosessualità o, addirittura, ne darebbe in qualche modo una tacita approvazione, oppure, infine, offrirebbe prescrizioni morali così culturalmente e storicamente condizionate che non potrebbero più essere applicate alla vita contemporanea”.
Stigmatizza poi i “gruppi di pressione” presenti all’interno della Chiesa e impegnati ad “accreditarsi come rappresentanti di tutte le persone omosessuali cattoliche”, i quali “cercano di sovvertire” l’insegnamento della Chiesa. La Congregazione definisce “ammirevole” la “particolare sollecitudine dimostrata da molti sacerdoti e religiosi nella cura pastorale delle persone omosessuali e spera che essa non diminuirà.
Tali ministri zelanti devono nutrire la certezza che stanno seguendo fedelmente la volontà del Signore, allorché incoraggiano la persona omosessuale a condurre una vita casta”. Perciò chiede “ai vescovi di essere particolarmente vigilanti nei confronti di quei programmi che di fatto tentano di esercitare una pressione sulla Chiesa perché essa cambi la sua dottrina”, accusando queste aggregazioni di “calcolata ambiguità” e di “non promuovere l’insegnamento del magistero”, per concludere che “questo comportamento contraddittorio non può avere in nessun modo l’appoggio dei vescovi”.
Il documento “incoraggia pertanto i vescovi a promuovere, nella loro diocesi, una pastorale verso le persone omosessuali in pieno accordo con l’insegnamento della Chiesa. Nessun programma pastorale autentico potrà includere organizzazioni nelle quali persone omosessuali si associno tra loro, senza che sia chiaramente stabilito che l’attività omosessuale è immorale.
Un atteggiamento veramente pastorale comprenderà la necessità di evitare alle persone omosessuali le occasioni prossime di peccato”. Nel concreto “un programma pastorale autentico aiuterà le persone omosessuali a tutti i livelli della loro vita spirituale, mediante i sacramenti e in particolare la frequente e sincera confessione sacramentale, mediante la preghiera, la testimonianza, il consiglio e l’aiuto individuale”.
I vescovi di conseguenza “sono invitati a valutare nell’ambito della loro competenza la necessità di particolari interventi, Inoltre, se ritenuto utile, si potrà ricorrere a un’ulteriore azione coordinata a livello delle conferenze episcopali nazionali.
In particolare i vescovi si premureranno di sostenere coi mezzi a loro disposizione lo sviluppo di forme specializzate di cura pastorale delle persone omosessuali”, ricorrendo alla collaborazione dei teologi e “delle scienze psicologiche e sociologiche e mediche, sempre mantenendosi in piena fedeltà alla dottrina della Chiesa”.
I vescovi dovranno avere particolare cura “nella scelta dei ministri incaricati” della pastorale, sulla base della “loro fedeltà al magistero” e del “loro elevato grado di maturità spirituale e psicologica”, dovranno “promuovere appropriati programmi di catechesi, fondati sulla verità della sessualità umana”, e “ritirare ogni appoggio a qualunque organizzazione che cerchi di sovvertire l’insegnamento della Chiesa, che sia ambigua nei suoi confronti o che lo trascuri completamente”, proibendo l’uso delle proprietà della Chiesa per celebrazioni religiose o altre attività, “compresa la possibilità di disporre delle scuole e degli istituti cattolici di studi superiori”.
Il Catechismo della Chiesa cattolica dedica tre numeri (2357-59) all’omosessualità, in cui ribadisce che “gli atti omosessuali in nessun caso possono essere approvati”, ma le persone omosessuali “devono essere accolte con rispetto, compassione e delicatezza”.
Un bilancio di questa proposta pastorale
A quasi 20 anni dalla Lettera della Congregazione per la dottrina della fede, bisogna prendere atto che le linee di pastorale per gli omosessuali qui offerte non hanno prodotto alcuna iniziativa pastorale organizzata e pubblicizzata, da parte dei vescovi (pur esplicitamente sollecitati a promuoverne), con il conseguente sospetto che non funzionino proprio perché irrealistiche e dunque impraticabili.
Difficile sfuggire all’impressione che a rivelarsi riduttiva e paralizzante sia stata un’impostazione concentrata sulla genitalità e sullo sforzo di condurre l’omosessuale a fare del celibato la sua scelta di vita.
Nella stragrande maggioranza dei casi ciò è impossibile ed è probabilmente dovuto a questo blocco l’abbandono della pratica religiosa da parte di un enorme numero di omosessuali (si parla del 90%). Per proporre qualche pista di azione capace di incontrare la situazione di migliaia di persone che si sentono non capite, mal giudicate, rifiutate proprio da una “famiglia”, quella cattolica, che proclama l’accoglienza universale, bisogna forse capire che l’omosessualità, prima e più di un bisogno sessual-genitale, è una particolare modalità di relazione.
Una pastorale dell’omosessualità come lavoro organizzato, programma d’azione ben compaginato, che parte da premesse e principi teorici e deduce poi applicazioni concrete, e diretto dai responsabili ecclesiali e dagli organismi di partecipazione che li coadiuvano non esiste oggi in Italia. Né si danno molti punti di riferimento: ci si trova tra la condanna inappellabile e un silenzio imbarazzato.
A livello del colloquio pastorale che avviene nel confessionale, poi, si ottiene una serie di risposte che vanno dal rifiuto dell’assoluzione all’invito a “pregare” o a “non pensarci” o a confidare nella misericordia di Dio. Se la prima risposta chiude ogni possibilità di dialogo, le altre risultano evasive e, alla fin fine, poco significative per una persona che desidererebbe avere qualche consiglio su come integrare la propria condizione omosessuale in un progetto di vita cristiana.
Insufficienza della morale come punto di partenza nella pastorale
Gli omosessuali vedono giusto quando affermano che la teologia morale tradizionale oppone all’omosessualità un rifiuto globale, senza sfumature, con la pretesa di oggettività. Essi conoscono già la risposta che verrà loro data in caso chiedano consiglio a un pastore per una relazione omosessuale. Perciò il prete si trova in un vicolo cieco.
Di fronte a questo sentimento di impotenza, si tratta di cercare la possibilità di fare in un modo o nell’altro qualcosa di positivo in questo campo, convinti che ogni uomo ha diritto di ottenere l’aiuto religioso che sollecita. Ciò richiede che si lascino per il momento da parte le oggettivazioni teologiche: queste non sono respinte, anzi sono accettate in linea di massima, ma non sono considerate come punto di partenza.
L’astenersi dalle oggettivazioni e il mettere tra parentesi le affermazioni generali, pur senza negarle in quanto tali, non rappresenta solo un mezzo utile per scoprire la verità, ma contribuisce ad aguzzare l’ingegno nel campo pratico e ad aprire vie non ancora sperimentate verso la realtà del soggetto.
Così la Commissione cattolica inglese per l’assistenza sociale ricorda che “la cura pastorale non consiste semplicemente nell’applicazione rigida e automatica delle norme morali oggettive, ma considera l’individuo nella sua situazione concreta, con tutte le sue forze e tutte le sue debolezze.
La decisione di coscienza, che determina che cosa dovrebbe essere fatto e che cosa dovrebbe essere evitato, può essere presa solo dopo una prudente considerazione della situazione reale e della norma morale. La cura pastorale di persone omofile non può ignorare la moralità oggettiva degli atti genitali omosessuali, ma è importante interpretarli, per capire il tipo di vita in cui hanno luogo, per apprezzare il significato personale che questi atti hanno per le varie persone”.
Ancora prima, negli anni ’60, il gruppo di lavoro olandese spiegava di essersi “costantemente reso conto dell’insufficienza della morale come punto di partenza formale. Prima di poter formulare una proposizione riguardante una politica pastorale autentica, è stato necessario studiare come si delineassero le possibilità in questo campo e come potessero essere giustificate in seconda istanza da una riflessione teologica”.
D’altro canto le esperienze italiane dei gruppi di omosessuali cristiani fanno pensare che il percorso più produttivo sia quello di partire dal vissuto delle persone e, quindi, di indirizzare la riflessione sulla spiritualità, come luogo dove la vita incontra la fede, la colora e ne resta colorata. Da questo punto di vista, la morale, come scienza del lecito e dell’illecito, non porta molto lontano, rimanendo nella mente dei più l’elenco dei divieti.
Chiedersi invece, interrogando se stessi e la parola di Dio, il senso di ciò che siamo (la propria vocazione!) e facciamo, considerare la quota di benessere e/o sofferenza che il nostro agire produce in noi e in quelli con cui entriamo in relazione, domandarsi se aiutiamo o sfruttiamo, se siamo onesti o inganniamo, se siamo rispettosi o maltrattiamo, e tutto questo anche rapportato alla vita affettiva e sessuale, è un po’ più complicato del “si può” o “non si può”. La spiritualità, in quanto è per se stessa più attenta alla dimensione psicologica e temperamentale della fede, sembra strumento più duttile per delineare un cammino.
Omosessuali soggetti della pastorale
Come evidenzia il Documento base elaborato dal Gruppo di lavoro sulla pastorale delle persone omosessuali della diocesi di Innsbruck, “una pastorale che prende sul serio la persona come soggetto della propria esperienza di vita rende giustizia alle persone omosessuali solo se viene elaborata e attuata insieme a loro. Le persone omosessuali non sono oggetti della pastorale, bensì soggetti attivamente partecipi”.
Non si tratta, infatti, di parlare delle persone, ma con loro. Sarebbe insensato, inoltre, che la formulazione di una pastorale non “per”, ma “con” le persone omosessuali non si confrontasse e facesse tesoro delle esperienze dei gruppi di omosessuali credenti già esistenti da anni. La conoscenza di queste realtà e del loro cammino eviterebbe errori di valutazione e faciliterebbe la formulazione di criteri e direttive di portata generale.
OBIETTIVI, FORME E STILI DELLA PASTORALE
Obiettivi dell’azione pastorale
Secondo la Lettera della Congregazione per la dottrina della fede ai vescovi della Chiesa cattolica intitolata “La cura pastorale delle persone omosessuali” , “un programma pastorale autentico aiuterà le persone omosessuali a tutti i livelli nella loro vita spirituale” (n. 15).
In assenza di ulteriori precisazioni, e partendo dal principio che la persona è un “essere in relazione”, sembra di poter intendere questi “livelli” secondo la consueta triade: il singolo, gli altri, Dio, e di interpretare l’azione pastorale come l’aiuto che si può dare all’omosessuale perché viva in modo positivo, riconciliato e gratificante il rapporto con se stesso, con il prossimo e con il Padre. Il quadro di riferimento o, se si vuole, il traguardo resta quello proposto a ogni cristiano: “Amare Dio e il prossimo come Cristo ci ha insegnato”.
Per dirla con la Commissione cattolica inglese per l’assistenza sociale, “in termini generali il compito pastorale dovrebbe essere considerato come un aiuto alle persone omosessuali per capire ed esaminare il significato del loro comportamento sessuale o altro, alla luce dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo, secondo l’insegnamento pastorale e morale del cristianesimo”.
D’altro canto già la Nota informativa edita dall’Ufficio cattolico olandese per l’assistenza pastorale “La cura pastorale degli omofili” indicava la necessità di aiutare l’omosessuale a maturare spiritualmente in conformità alla sua costituzione: “Questo trattamento deve mirare a che l’omofilo, liberamente, raggiunga la propria maturità nel suo rapporto con Dio, e con il prossimo, secondo un modo che corrisponda alla sua costituzione”.
Sulla stessa linea si muove il Documento base elaborato dal Gruppo di lavoro sulla pastorale delle persone omosessuali della diocesi di Innsbruck: “Nell’agente pastorale l’uomo omosessuale e la donna lesbica troveranno un sostegno per il loro sforzo e desiderio di interpretare anche teologicamente la loro costituzione omosessuale, trovare un senso alla stessa e scoprire la volontà di Dio riguardo alla concretizzazione e configurazione della loro vita, una vita che è ben più della semplice omosessualità, ma nella quale l’orientamento omosessuale riveste un’importanza basilare, poiché non è possibile svincolarlo dal fondamento dell’essere persona”.
In senso più ampio, con le parole con cui i gruppi di omosessuali cristiani definiscono il fine della propria azione, si tratta di “accompagnare il cammino delle persone omosessuali verso un traguardo di riconciliazione tra la loro fede e la loro identità sessuale, di armonizzazione tra la loro condizione di omofili e quella di cristiani, di sviluppare un’affettività matura in cui integrare la loro tendenza sessuale come dato imprescindibile per un cammino verso una fede adulta”.
Il Documento base elaborato dal Gruppo di lavoro sulla pastorale delle persone omosessuali della diocesi di Innsbruck afferma quindi che “il compito principale della pastorale non deve essere quello di recare la dottrina della Chiesa ai ‘poveri peccatori’, bensì quello di stimolare le energie spirituali e vitali in modo tale che esse possano autodeterminare e realizzare responsabilmente la loro vita”.
E prosegue: “La pastorale con le donne e gli uomini omosessuali deve anzitutto permettere loro l’esperienza dell’essere rispettati, accettati e compresi per quello che sono: ‘E’ bello che tu esista, anche con la tua natura, con ciò che costituisce la tua identità, quindi anche con la tua omosessualità’ (H. Rotter). Quest’autentica accettazione e sincera stima da parte dell’operatore e dell’operatrice pastorali imita e manifesta la benevolenza e l’amore incondizionato di Dio nei riguardi dell’essere umano”.
L’azione pastorale deve, quindi, innanzitutto favorire la comprensione e il rispetto ed essere orientata alla creazione di condizioni di accoglienza per chi vive l’omosessualità. Nessuno è responsabile delle tendenze che trova in sé: troppo spesso vengono giudicate con eccessiva severità situazioni che non si conoscono, accentuando indebitamente il senso di colpa già così fortemente presente in chi vive una condizione anomala.
Anche perché, col proprio comportamento, la comunità cristiana dovrà aiutare l’omosessuale a farsi una giusta idea di Dio: non il moralista che giudica dall’esterno, ma il Padre che conosce la nostra fragilità, ci accetta nella sua misericordia e rende così anche noi capaci di accettarci con i nostri limiti, senza negarli o idealizzarli con meccanismi di compensazione, senza angosce e sensi di colpa.
Nella situazione attuale, in cui il rapporto tra persone omosessuali e comunità cristiana risulta estremamente difficoltoso, va tenuta presente la considerazione di don Domenico Pezzini: “Nel 1981 suggerii tre obiettivi comuni per i gruppi che stavano nascendo: accoglienza, ricerca e riflessione culturale, dialogo con le Chiese. A tutt’oggi questi rimangono i cardini di un’azione pastorale con gli omosessuali”. Il metodo comprende sia il consiglio personale sia il possibile cammino all’interno di un gruppo.
Aiutare l’omosessuale ad accettare se stesso
Già negli anni ’60 del secolo scorso, la riflessione pastorale olandese rilevava come, “supponendo che non si possa pervenire, attraverso un trattamento, a cambiare la scelta dell’oggetto, è spesso possibile agire efficacemente sugli omosessuali attraverso relazioni stimolanti, aiutarli ad attraversare i periodi difficili e, perciò, facilitare un loro miglior adattamento alla vita sociale.
Su questo piano può avere una grande importanza la soppressione dei sentimenti patologici di colpa. Possono ugualmente esercitare un’influenza favorevole dei consigli concernenti la scelta della professione, il cambiamento dell’ambiente di lavoro, gli svaghi. A volte sono raccomandabili dei contatti con la moglie, l’amico o i parenti del paziente”.
Oggi la psicologia è orientata ad aiutare l’omosessuale non per “guarirlo” trasformandolo, o cercando di trasformarlo, in eterosessuale, cosa impossibile, ma per fargli accettare un’identità e dignità anche sessuale. Lo spinge cioè ad accettarsi, a convivere con la propria realtà umana, a sentirsi idoneo nella vita di tutti i giorni, con i parenti, gli amici, i colleghi di lavoro.
Come riconosceva già la Nota informativa edita dall’Ufficio cattolico olandese per l’assistenza pastorale “La cura pastorale degli omofili”, “l’orientamento omofilo non risulta da una scelta personale. L’uomo scopre il suo orientamento prendendo progressivamente coscienza di se stesso. L’esistenza personale riposa su una storia pre-personale, che viene assunta in un modo o nell’altro nell’esistenza personale.
Questa assunzione può assumere forme diverse, per esempio accettare e affermare, ma anche rifiutare e nascondere. In quest’ultimo caso parleremo di ‘conflitto interiore’. L’uomo o la donna omofili debbono essere aiutati a liberarsi dal loro conflitto interiore. Ciò non può realizzarsi se altre persone non accettano l’omofilo qual è, nel suo stato particolare.
Allorché un omofilo si presenta a un pastore con problemi e interrogativi, è indispensabile, innanzitutto, fargli ammettere la sua particolarità, il che equivale in definitiva a fargli accettare il disegno di Dio che gli ha dato la vita in questo modo”.
Il dato di partenza resta, quindi, la condizione omosessuale, non da cancellare o mettere tra parentesi come “storta o irredimibile”, ma da integrare nel complesso della persona. La riconciliazione con se stessi è un passo decisivo. Chi sta male nella propria pelle, chi non si accetta, chi ha vergogna di sé, vive un malessere insopportabile che alla lunga ha effetti devastanti sulla persona e su chi gli sta attorno.
Per il diffuso rifiuto sociale e la pesante tabuizzazione dell’argomento anche all’interno delle comunità cristiane, il giovane che si scopre omosessuale fa molta fatica a leggere in positivo questa sua condizione. L’atteggiamento del prete può essere in questo caso decisivo, nel bene e nel male. Sono troppe, purtroppo, le persone che per un incontro disgraziato in confessionale hanno lasciato per sempre la Chiesa o, per avere dichiarato candidamente la loro identità a qualche responsabile di parrocchia o istituzione ecclesiale, sono state all’istante allontanate da incarichi che svolgevano con decoro e competenza.
L’opuscolo della Commissione cattolica per l’assistenza sociale dell’Inghilterra “Cura pastorale degli omosessuali” dice in proposito: “I pastori possono essere di aiuto in modo particolare nel processo di autoaccettazione (coming out). Questo è il momento in cui la persona omosessuale riconosce apertamente la propria omosessualità e molto spesso è il primo stadio in cui si può cominciare ad affrontare il problema. Il pastore sembra essere la persona giusta con cui condividere queste confidenze e la sua risposta deve essere delicata e comprensiva. Può essere necessaria una chiara riaffermazione delle norme morali, ma non deve essere un brusco rifiuto basato sul pregiudizio e l’ignoranza”.
Alla base della visione positiva di sé sta, com’è ovvio, e come ricorda la stessa Lettera della Congregazione per la dottrina della fede ai vescovi della Chiesa cattolica “La cura pastorale delle persone omosessuali”, la dignità di creatura e il nostro essere, per grazia, figli di Dio ed eredi della vita eterna (n. 16). La condizione omosessuale va vista come componente essenziale della propria immagine. Anche su questo punto risulta importante sia l’azione del singolo pastore come l’esperienza del gruppo.
Nei gruppi di omosessuali credenti quello dell’accettazione di sé è un passaggio inevitabile: finché una persona omosessuale continua a disprezzare se stessa e a odiare la propria omosessualità non sarà in grado di approdare a quella sana autostima che è indispensabile per intraprendere qualunque cammino di cambiamento; finché non è in grado di considerarsi una persona capace di vivere in libertà le proprie scelte continuerà a correre il rischio di cadere in una sterile quanto dannosa autocommiserazione; finché continua a considerarsi un povero malato da compatire e commiserare, giustificherà ogni compromesso e depravazione senza rendersi conto che ciò rischia di ingenerare atteggiamenti schizofrenici.
La persona omosessuale non deve reprimere il proprio orientamento sessuale, ma lo deve accettare e integrare nell’insieme della personalità. L’accettazione di se stessi comprende anche l’accettazione dell’orientamento sessuale e costituisce il presupposto della identità con se stessi. Chi reprime la propria sessualità, comunque essa si presenti, perde anche la possibilità di configurarla e di viverla in modo responsabile.
Ma l’accettazione e la stima di se stessi diventano più difficili quando si dice alla persona omosessuale che essa non dovrebbe esistere in quel modo – cioè con il suo orientamento sessuale – o che la sua tendenza omosessuale deve essere considerata un male o una macchia. Ora se quell’orientamento sessuale fa radicalmente parte del suo essere e della sua personalità, un tale giudizio non la colpisce e ferisce profondamente? Una visione così negativa non porterà necessariamente al disprezzo e all’odio di se stessi? Queste persone come potrebbero accettarsi, amarsi e rispettarsi? L’accettazione di se stessi è importante per poter amare gli altri. Infatti, solo chi si sente amabile può amare gli altri in modo oblativo. Ogni vero amore del prossimo presuppone un vero amore di se stessi.
Modalità dell’azione pastorale
Anche se consideriamo moralmente reprensibili e socialmente inadeguati i procedimenti seguiti dagli omosessuali nella loro vita amorosa, dobbiamo innanzitutto renderci conto dei fenomeni omofili e del significato che rivestono per le persone coinvolte. Solo trattando gli omosessuali come esseri simili a noi ci sarà possibile stabilire con loro un contatto reale, base di un accostamento che non sarà un’umiliante elemosina offerta a una persona miserabile, ma un’espressione di quella solidarietà umana di cui gli omofili hanno più bisogno di tanti altri.
Accettazione e dialogo
Come ricorda il Documento base elaborato dal Gruppo di lavoro sulla pastorale delle persone omosessuali della diocesi di Innsbruck, “se è vero che ‘l’uomo è la prima e fondamentale via della Chiesa’ (Giovanni Paolo II), ciò vale anche per la pastorale. E quanto più le persone umane sono trattate come ‘casi’ e vengono emarginate come minoranze tanto più impellente diventa la necessità di ricondurle dai margini al centro: ‘Mettiti nel mezzo!’ (Mc 3,3)”.
L’omosessuale è una persona e come tale va incontrata. Non è il rappresentante di una categoria minoritaria, ma un essere umano il cui vissuto è carico di sofferenza anche quando sembra accettare pacificamente la propria condizione. Inoltre, la solitudine e l’emarginazione hanno maturato in molti gay e molte lesbiche una grande delicatezza e sensibilità.
La Chiesa qualche volta privilegia l’aspetto istituzionale anziché la persona, che invece va sempre messa al centro della pastorale. Il presupposto di fondo al quale occorre fare appello è anzitutto quello dell’accettazione del “mistero” della persona, per cui l’azione pastorale deve innanzitutto creare condizioni di accoglienza per chi vive esperienze come l’omosessualità.
Non a caso il documento del Gruppo del Guado al Convegno ecclesiale di Loreto richiamava, tra le “affermazioni che ci incoraggiano a sperare” contenute nel testo “La forza della riconciliazione”, la frase: “Occorre promuovere momenti di vita pastorale in cui venga favorita l’espressione di ciascuno e lo sforzo di accoglienza reciproca” (2.3.2.d).
Già 40 anni fa, sia pur col linguaggio “patologizzante” del tempo, dai Paesi Bassi venivano alcune prime, ma essenziali indicazioni dell’essenziale stile pastorale: “Accettare il paziente così com’è, non cominciare col fargli la predica, essere attenti ai vari elementi della sia esistenza sono le condizioni richieste per stabilire un primo contatto. Si creerà in questo modo l’atmosfera che permetterà al paziente o alla paziente di considerarsi come un vero membro della Chiesa, senza provare in partenza un sentimento di indegnità”.
E richiamando la “tristezza che può soffocare la vita di un omosessuale”, A. Overing esprimeva la speranza che la conoscenza e la riflessione potessero “contribuire ad attenuare questa avversione” subita dagli omosessuali e i pastori ne ricavassero le risorse per “alleviare la disperazione di quanti si rivolgeranno” a essi.
Resta quindi valido l’invito a non “soffocare il consultante con un atteggiamento di incomprensione come troppo spesso accade e senza usare al suo riguardo parole brutali, cosa che purtroppo a volte avviene. Il sacerdote deve ascoltare con attenzione e pazienza quando gli si esprime una convinzione sincera. Egli darà allora dei consigli appropriati, mostrando al consultante come possa vivere con Dio malgrado la sua sofferenza. È pure molto importante per il sacerdote tener conto della reazione del partner implicato nella relazione. Egli cercherà inoltre di convincere il paziente che se vivere con una tale sofferenza può suscitare una particolare miseria spirituale, ciò non significa pertanto necessariamente che vi sia da parte sua infedeltà a Dio e alla sua Chiesa”.
A mo’ di testimonianza personale, si può riportare la riflessione di don Goffredo Crema, del gruppo cremonese La goccia: “Mettendomi a tu per tu con la persona ho inteso aprire un dialogo, esprimere una solidarietà fatta di amicizia e di partecipazione. Dialogo, soprattutto dialogo. Ha rappresentato il momento più importante e decisivo dei nostri incontri per aiutare la persona a uscire dalla patologia dei suoi problemi.
Non mi sono posto di fronte ai miei interlocutori come il ‘prete’ che sa tutto mentre loro non sanno niente, ma come un uomo accanto a un altro uomo, in umile atteggiamento di ascolto. Nel clima di una scambievole fiducia, si andava alla ricerca di quegli elementi che avevano creato una disarmonia nella personalità.
Si trattava di interessarsi non dell’omosessuale, ma della persona, comunicando un po’ di calore umano, di coraggio per affrontare la propria realtà invece di fuggire davanti a essa. E’ il ‘gay-persona’ che ha bisogno del dialogo umano. Si è trattato di un confronto molto aperto, sincero, pieno di comprensione per chi richiede attenzione o ha bisogno di scaricare una tensione o di confessare qualcosa di sé a un’altra persona, senza inutili paure, con la ferma convinzione di trovare un amico capace di mettersi in sintonia con lui.
La solitudine: è il momento più terribile, e non c’è altra terapia che l’incontro con l’altro, sentirsi capiti e accettati per quello che si è, non per quello che gli altri vorrebbero che tu fossi. Ciò aiuta a vivere e ad affrontare la propria realtà e costituisce un momento di verità, di fiducia, di intensa emozione”.
A conferma di ciò valga la riflessione di Gianni Geraci: “Il vero dramma della persona omosessuale non è la mancanza di una relazione erotica, ma la profonda solitudine in cui è costretta a vivere la propria affettività: raccontare ad altri, che non ci giudicano e sono in grado di comprenderci, quello che proviamo quando vediamo qualcuno che ci piace, è un’esperienza liberante che spesso, da sola, riesce a trasformare un’omosessualità ‘fissata’ (in cui la dimensione genitale del proprio orientamento sessuale è prevalente se non addirittura esclusiva) in un’omosessualità ‘integrata’ (in cui il sé omosessuale entra in dialogo con il consesso degli altri sé e ne rispetta, magari modificandolo e integrandolo a partire dai propri bisogni, il sistema di valori)”.
Perciò, con un’affermazione di valenza anche più generale, il Documento base elaborato dal Gruppo di lavoro sulla pastorale delle persone omosessuali della diocesi di Innsbruck sottolinea che “il presupposto più importante per un vero dialogo con le donne e gli uomini omosessuali è il fatto di dialogare con loro e non limitarsi a parlare di loro.
L’incontro diretto fra persone omosessuali ed eterosessuali e la conoscenza personale è un primo passo verso una maggiore comprensione e una vera accettazione. Questo richiede l’instaurazione di un clima nel quale si possa parlare liberamente e rispettosamente dell’omosessualità e delle persone omosessuali. Si deve assicurare che ogni persona omosessuale possa parlare apertamente della propria condizione perlomeno in seno alla sua Chiesa senza essere punita e emarginata”.
Consulenza e accompagnamento
La generale tabuizzazione dell’omosessualità può rendere più difficile la scoperta dell’identità, bloccare lo sviluppo integrale della personalità e ostacolare importanti processi di maturazione. Ciò può portare a una separazione della sessualità dagli altri aspetti della vita. La stigmatizzazione sociale e le limitate possibilità di vivere una vita di coppia provocano spesso gravi conflitti psichici. Il cosiddetto coming out (prendere coscienza) è il processo attraverso il quale la persona scopre, fino ad averne poi la definitiva certezza, di essere omosessuale e non eterosessuale, trova la propria identità e il proprio stile di vita.
In questo periodo molto difficile, nel quale le persone giovani o adulte scoprono il loro orientamento sessuale e imparano, dopo una lunga e spesso dolorosa lotta interiore (resa più complessa dalla difficoltà di trovare modelli e personaggi positivi cui potersi ispirare), ad accettarlo e forse a confidarlo anche ad altri, la consulenza e l’accompagnamento da parte di persone competenti sarebbe particolarmente importante.
Infatti, per quanto riguarda il chiarimento dei loro problemi e delle loro questioni vitali e l’incontro-scontro con le rappresentazioni sociali della normalità sessuale e della morale della Chiesa, le persone omosessuali e i loro genitori si sentono per lo più abbandonati a loro stessi.
A causa dell’isolamento sociale, fra le persone omosessuali il tasso dei suicidi – soprattutto nella fase della presa di coscienza – è molto elevato.
Il Documento base elaborato dal Gruppo di lavoro sulla pastorale delle persone omosessuali della diocesi di Innsbruck aggiunge che “le persone omosessuali hanno diritto alla consulenza e all’accompagnamento pastorale (intervento in caso di crisi, consulenza, accompagnamento spirituale, affidamento a psicoterapeuti…).
E’ molto importante che le persone omosessuali (specialmente nel processo del coming out) incontrino interlocutori e interlocutrici comprensivi, persone di riferimento che le accettino con la specificità dei loro sentimenti, del loro comportamento e della loro definizione di se stessi e (riflettendo criticamente) le sostengano. Per molte persone omosessuali questa è l’unica possibilità di confidarsi senza timori e parlare liberamente almeno con una persona.
L’accompagnamento e la conversazione dovrebbero poter includere anche l’aspetto religioso e spirituale. Una consulenza e un accompagnamento competenti riconoscono l’orientamento sessuale come parte essenziale della persona. Il loro compito è quello di accompagnare con grande sensibilità e favorire la conoscenza di sé, l’accettazione della sessualità, l’accoglienza e l’integrazione dell’orientamento omosessuale nella vita. All’occorrenza, le persone omosessuali hanno bisogno di essere aiutate anche a costituire un’unione stabile. Vanno accompagnate (riflettendo criticamente) anche le persone omosessuali che scelgono la vita celibataria”.
L’amicizia omosessuale
Come ricorda l’opuscolo della Commissione cattolica per l’assistenza sociale dell’Inghilterra “Cura pastorale degli omosessuali”, “l’amore umano sostiene, arricchisce e sana; genera armonia, unità e realizzazione. La vera caratteristica di un autentico amore per un’altra persona è l’esperienza purificatrice e salutare. Una vita senza amore è incompleta e insoddisfatta.
Questa carenza, specie se risale all’infanzia, genera disadattati sociali, solitari e introversi oppure aggressivi e disgregati. Il pastore deve aiutare quelli che cercano la sua guida tenendo conto di questo quadro. Ma il pastore deve tener presente un’altra dimensione che non è subito evidente. L’amore tra le persone è molto particolare, ma le sue origini e il suo valore sono da ricercarsi in Dio. Dio è la sorgente prima del vero amore e quando si sperimenta l’amore a livello umano si sta assorbendo qualcosa dell’amore divino. Un autentico amore, dato che proviene da Dio, riporterà, a sua volta, le persone che si amano a Dio. Ogni amore umano è un riflesso dell’amore in Dio che è la vita della Trinità”.
Tuttavia diverse concezioni di teologia morale si confrontano sul trattamento pastorale di omosessuali caratterizzati da amicizie a preponderanza erotica o più o meno erotica, ruotando attorno a due questioni: questa amicizia non è una tentazione e un incitamento imperativo ai disordini sessuali? Si può ricercare quella grande soddisfazione che è l’amicizia, così necessaria alle persone sole, allorché le condizioni esistenti comportano dei rischi certi sul piano morale?
Già la Nota informativa edita dall’Ufficio cattolico olandese per l’assistenza pastorale “La cura pastorale degli omofili” riconosceva che “un esame approfondito delle difficoltà incontrate dagli omofili rivela che, effettivamente, essi soffrono di una grande solitudine. Questa pesa enormemente sul loro sviluppo spirituale e, perciò, sulla loro maturazione etica e religiosa. Comunque le amicizie tra omofili che si rivelano durature favoriscono certamente la loro evoluzione, li stornano dalle forme di promiscuità o prostituzione, esercitano un’influenza equilibratrice sulle loro passioni sessuali e li stimolano nella crescita spirituale e religiosa”.
D’altro canto nel vivere l’amicizia l’omosessuale incontra difficoltà particolari: rifiutato dalla società se manifesta la sua situazione o incapace di esprimersi profondamente se la vive nell’anonimato, si trova spesso in una solitudine estremamente pericolosa. Può derivarne l’idea di essere rifiutato anche da Dio, l’incapacità di sperare, l’angoscia che può trasformarsi in presunzione e sterile idealizzazione. In questo quadro l’amicizia tra omosessuali, anche qualora la si giudicasse negativa, è di solito via obbligata della crescita personale e affettiva.
Per ridurre al minimo l’ambiguità possibile, essa dovrebbe essere fondata su valori che aiutano a crescere, ad ampliare gli interessi, a relativizzare la stessa omosessualità. Perciò il prete dovrebbe evitare di chiedere a priori a un omosessuale di interrompere un’amicizia perché “occasione prossima di peccato” senza aver prima esplorato quali ne sono gli aspetti positivi in ordine all’equilibrio psicoaffettivo e al benessere spirituale che essa può dare alla persona, e senza aver calcolato quali sono i rischi cui va incontro un omosessuale ricacciato, in nome della morale, in una solitudine per cui non ha la vocazione.
Va inoltre ricordato che, pur conservando i principi morali scolastici si può andare assai lontano nella ricerca di una giustificazione. L’ignoranza, la passione e l’abitudine, il bisogno irresistibile di amicizia, eventualmente con le manifestazioni sessuali che questa può provocare, una coscienza invincibilmente erronea, possono condurre a una casistica che lascia sufficiente libertà a una direzione pastorale.
Anche se ciò che si considera un male come tale deve essere respinto, lo si può tollerare se permette di evitare un male maggiore, per esempio la promiscuità o un’insopportabile solitudine. Seguendo questa linea, qualora il sacerdote ritenesse di trovarsi di fronte a una coscienza erronea, nel caso in cui, dopo matura riflessione, pensi che non c’è soggettivamente peccato grave, egli non sarà obbligato, in linea di massima, ad assolvere prima di ammettere l’omosessuale alla comunione.
Per il resto il sacerdote non trascurerà di osservare accuratamente se l’errore non può lasciare il posto a una prospettiva migliore né dovrà decidere sconsideratamente di trovarsi di fronte a una coscienza erronea.
La Nota informativa edita dall’Ufficio cattolico olandese per l’assistenza pastorale “La cura pastorale degli omofili” arrivava a concludere: “Dal punto di vista della teologia morale tale atteggiamento trova la sua giustificazione nel fatto che, ormai, è impossibile considerare le amicizie tra omofili come delle occasioni prossime di peccato o come un minor male invece che un bene positivo, anche se, per molti aspetti, esse non costituiscono spesso che un bene relativo”.
È interessante osservare pure come sia avvenuto il processo di avvicinamento alla questione nei Paesi Bassi, che per primi lo hanno affrontato: “Si possono assolvere gli omosessuali che non hanno intenzione di rompere un’amicizia che riveli una certa continuità e possa sfociare, sia regolarmente che accidentalmente, in contatti genitali? Si è allora riflettuto più profondamente sulla natura dell’amicizia. Il tipo solitario cerca dei contatti con gli altri.
L’amicizia lo aiuta a costruirsi la vita. L’assenza di amicizia rovina la vita. L’omofilo, dunque, non avrebbe diritto all’amicizia come ogni altro essere umano? Non abbiamo forse perso di vista il carattere di amicizia di un legame sessuale tra due persone e la visione che antichità e medioevo avevano dell’amore coniugale? Se ciò è vero dovremmo parlare dell’amicizia omosessuale come di un bene positivo e come di un male minore, ammissibile solo nel timore di un male più grande: promiscuità, progressivo isolamento, ecc.
È possibile che il bene positivo presenti alcuni aspetti dubbi che si debbano tollerare. Detto questo non si può definire semplicemente l’amicizia un’occasione di peccato. Ma si deve dunque consigliare positivamente il ricorso a una tale amicizia?
Si devono tollerare gli aspetti sessuali che l’accompagnano o, andando oltre, si deve pensare che l’amicizia non potrebbe sussistere senza elementi corporali? È tanto sorprendente che questi possano manifestarsi negli omosessuali sotto la forma un po’ difettosa di contatto genitale? Il progressivo affermarsi della convinzione che si possa adottare un atteggiamento più equo nei confronti di un’amicizia seria ha permesso di sentirsi abbastanza solidali con gli omofili da pensare di poter venire in aiuto a coloro che si presenteranno”.
Direttive pastorali
Può essere a questo punto utile richiamare, a titolo di documentazione, a modo di sintesi e come spunto di discussione, le indicazioni concrete suggerite all’inizio degli anni ’60 dal gruppo di lavoro formato grazie alla Commissione pastorale dell’Associazione cattolica di salute mentale per il popolo nei Paesi Bassi:
“1) Il pastore d’anime che entra in contatto con un omosessuale deve rendersi conto che tale intervento può facilmente essere nocivo se intrapreso senza informazioni. Presentandosi l’occasione, bisogna dunque mettersi in contatto con uno psichiatra, meglio se appartenente a un organismo appositamente costituito. Sarebbe preferibile che fossero gli uffici cattolici incaricati dei problemi coniugali (uffici famiglia) ad assumersi questo compito, riservando eventualmente ore fisse per le consultazioni o ricevendo su appuntamento. I responsabili di questi uffici finiscono per farsi una buona esperienza di questi problemi vitali;
2) allorché il pastore d’anime si rende conto, dopo una consultazione, di aver a che fare con una persona per la quale non si può prevedere un’evoluzione in direzione eterosessuale, gli rimane il compito di sostenerlo moralmente per aiutare l’omosessuale ad accettare la propria situazione;
3) la via della continenza sessuale deve essere chiamata per l’omosessuale la ‘via regina’, ma solo pochissime persone sono in grado di seguirla. Se il pastore d’anime non deve dimenticare la soluzione attraverso la continenza, ciò non significa che abbia il dovere di ricorrervi a ogni costo, né che debba aver sempre il pensiero rivolto all’ideale della continenza. Ascoltare senza aver fretta di decidere, ricorrere ai consigli di uno specialista è il miglior modo, per il pastore d’anime, di imparare a conoscere la situazione della persona che sollecita il suo aiuto;
4) la ricerca spontanea di amicizia da parte degli omosessuali non deve, generalmente, essere respinta a ragione della possibilità o della probabilità di contatti genitali risultanti da tale amicizia. Si può spesso vedere con favore una tale ricerca, se con essa si apre una nuova dimensione a un’espressione pienamente umana, o se si può evitare una deludente promiscuità. In eventuali casi di fissazione nella solitudine, la ricerca di una buona amicizia può essere decisamente consigliata:
5) la coabitazione tra omofili non è da escludersi in tutti i casi. Capita però che venga sconsigliata a causa dell’avversione sociale esistente. Si trovano però anche dei casi in cui la coabitazione di due amici o di due amiche costituisce la basi di un’esistenza equilibrata di alto livello. In questo caso ci sono motivi per valorizzarla positivamente;
6) benché il centro di cultura e di ricreazione sia l’associazione di omosessuali che ha il maggiore uditorio, esso non ha però l’esclusiva. Conviene dunque essere prudenti nell’indirizzare qualcuno a questa associazione. Se i contatti esistono già, non bisogna troncarli;
7) l’ammissione ai sacramenti può a volte scatenare delle ripercussioni sociali che invitano alla prudenza. Ciò non significa però che sia necessario allinearsi coi punti di vista più ristretti, l’avversione o l’opposizione, e ancora meno con la cattiveria della comunità. Si sono già fatte troppe vittime individuali per soddisfare il cosiddetto ‘bene comune’”.
Pure la Nota informativa dell’Ufficio cattolico olandese per l’assistenza pastorale “La cura pastorale degli omofili”, muovendosi sulla linea dell’impegno per favorire in primis l’accettazione di sé dell’omosessuale, offriva alcune regole pratiche:
“Quando si è insegnato all’omofilo ad accettarsi come tale, e ciò implica che il consigliere spirituale lo abbia accettato come tale, una base solida è stata posta per un trattamento pastorale efficace. Questo trattamento deve mirare a che l’omofilo, liberamente, raggiunga la propria maturità nel suo rapporto con Dio, e con il prossimo, secondo un modo che corrisponda alla sua costituzione.
Non si tratta, per il consigliere spirituale, di adottare un atteggiamento tipo ‘lasciar correre’, ma di creare un clima disteso che parta dai limiti concreti che ostacolano, certo, il paziente, ma all’interno dei quali costui si sa accettato per quel che è.
Nei Paesi Bassi si è affermata la convinzione che è compito di tutti coloro che hanno cura d’anime venire in aiuto agli omosessuali.
Sembra opportuno completare questa breve esposizione indicando alcuni principi di condotta necessari a coloro che hanno l’incarico del trattamento pastorale degli omofili: a) non bisogna mai e con nessun pretesto distruggere un’amicizia già esistente; b) bisogna assolutamente scartare il matrimonio come possibile soluzione curativa; c) non bisogna perdere di vista che la continenza, la strada migliore, non è per l’omofilo una cosa semplice. Essa, infatti, è solo un’eccezione; d) sembra dunque opportuno aiutare l’omofilo a costituire un’amicizia stabile; e) è importante, per chi abbia la responsabilità di seguire l’evoluzione di tale amicizia, prestare una particolare attenzione alla fedeltà”.
Lo stesso tentativo si trova nell’opuscolo della Commissione cattolica per l’assistenza sociale dell’Inghilterra “Cura pastorale degli omosessuali”, il quale parte dall’ammissione che “ci sono ancora molte domande senza risposta per una appropriata cura pastorale degli omosessuali.
Sulla scia delle ricerche delle scienze teologiche e sociali e dell’esperienza di quanti già operano nella cura pastorale degli omosessuali, si potrebbero tracciare le seguenti linee di condotta:
1) la Chiesa, nel suo sforzo pastorale, è interessata prima di tutto alla persona. Il pastore e consigliere deve vedere tutti, indipendentemente dalla loro sessualità, come figli di Dio e destinati alla vita eterna;
2) prima di cercare di dare una guida spirituale o un consiglio morale a una persona omosessuale, i pastori devono conoscere la condizione omosessuale in sé ed essere consapevoli dei propri limiti, specie ‘dei pregiudizi inconsci risultanti da una tradizione sociale piena di prevenzioni’. In una società che li considera come oggetti di scherzi crudeli e di disprezzo, gli omosessuali soffrono comunemente di una mancanza di stima di sé e di una solitudine che per gli eterosessuali è difficile, se non impossibile, capire. Il giudizio di molte persone, inclusi i cristiani, si basa su una conoscenza limitata che non è al corrente delle profonde e dolorose tensioni che assalgono la persona omosessuale;
3) è compito del pastore offrire incoraggiamento e sostegno. Molte buone persone che sono omosessuali lottano costantemente contro le esigenze della loro condizione e devono essere aiutate a non disperare. Non è degno del pastore offrire solo consigli superficiali per un problema così difficile da affrontare;
4) i pastori possono essere di aiuto in modo particolare nel processo di ‘autoaccettazione’ (coming out). Questo è il momento in cui la persona omosessuale riconosce apertamente la propria omosessualità e molto spesso è il primo stadio in cui si può cominciare ad affrontare il problema. Il pastore sembra essere la persona giusta con cui condividere queste confidenze e la sua risposta deve essere delicata e comprensiva. Può essere necessaria una chiara riaffermazione delle norme morali, ma non deve essere un brusco rifiuto basato sul pregiudizio e sull’ignoranza. Il rifiuto può spingere l’omosessuale a fare affidamento solo sull’amicizia dei compagni omosessuali, dove almeno troverà la comprensione che gli è stata negata dal pastore;
5) alcuni sostengono che delle associazioni specifiche per omosessuali sono l’ambiente ideale per permettere alle persone aventi le stesse tendenze di capire e affrontare le stesse ansie. Il pastore deve mettere in guardia contro quelle che abbiano come scopo principale l’incontro con persone al fine di incoraggiare attività omosessuali.
D’altra parte l’esistenza di società per omosessuali, anche cristiani, implica il riconoscimento di certe norme morali. Esistono gruppi di cristiani creati appositamente per incoraggiare gli omosessuali ad affrontare le loro difficoltà. La buona volontà di queste società non deve essere subito messa in discussione.
Condannare un raggruppamento sociale solo a causa di eventuali pericoli morali potrebbe portare a restrizioni ridicole. Si potrebbe condannare una festa parrocchiale o un club di giovani. O si potrebbe proibire di dividere un appartamento con qualcuno;
6) il matrimonio per la maggior parte degli omosessuali non è stato una soluzione positiva;
7) il trattamento psichiatrico professionale o la consulenza psicologica non si sono dimostrati un rimedio valido per la condizione omosessuale. Molto spesso si dimostra un’esperienza frustrante che ha il solo risultato di aumentare l’ansia;
8) un aiuto positivo all’omosessuale può essere dato incanalando le sue energie verso una serie di interessi, ma questa sublimazione deve essere positiva e autentica;
9) la Chiesa ha una seria responsabilità nell’eliminazione di tutte le ingiustizie perpetrate ai danni degli omosessuali da parte della società. Come gruppo che ha sofferto molto più del dovuto oppressione e disprezzo, la comunità omosessuale ha un posto speciale nella preoccupazione della Chiesa. Gli omosessuali hanno diritto a una cura pastorale efficace e priva di pregiudizi con ministri pastorali che siano preparati a rispondere alle loro esigenze pastorali;
10) gli omosessuali hanno lo stesso bisogno di sacramenti degli eterosessuali. E hanno anche lo stesso diritto di riceverli. Nel decidere se impartire o meno l’assoluzione o dare la comunione a un omosessuale, un pastore deve essere guidato dai principi generali della teologia fondamentale secondo cui si può imporre solo un certo obbligo morale. Un dubbio invincibile, di diritto o di fatto, permette di seguire una vera e solida ‘probabile opinione’ a favore di un’interpretazione più liberale;
11) compito dei cristiani è capire gli omosessuali e ristabilire il rispetto per essi come persone. Essi possono sentire anche che la chiesa esige delle norme impossibili;
12) il pastore aiuterà le anime se le introdurrà nella conoscenza di quell’amore che è molto più completo della sessualità. Il suo compito è quello di far conoscere alle persone la vita cristiana nella sua pienezza”.
A ciò vale la pena di aggiungere le sollecitazioni contenute nel documento del Gruppo del Guado al Convegno ecclesiale di Loreto: “Ci permettiamo di suggerire alcune possibili linee di azione:
a) ci sia un ascolto più serio della realtà che vivono gli omosessuali, e prima ancora si creino delle condizioni di aperta simpatia che li aiutino a parlare senza timori;
b) si lavori con decisione e chiarezza per demolire pregiudizi e prevenzioni che offendono la dignità degli omosessuali: il silenzio non basta, bisogna parlare;
c) si riveda a livello scientifico e pastorale una morale fatta solo di divieti e di condanne, e si proponga un itinerario rispettoso della reale situazione delle persone e delle loro effettive possibilità;
d) si provi a cercare una riconciliazione tra amicizia e sessualità in una visione integrale e non settoriale della persona: la morale che condanna l’omosessuale alla totale continenza è un vicolo cieco. La strada che secondo noi si dovrebbe percorrere è quella di proporre la relazione amicale come luogo in cui assumere la pulsione erotico-sessuale dandole il necessario contesto affettivo”.
PROPOSTE CONCRETE
La domanda-compito che ci siamo posti al termine del nostro primo incontro – “Che cosa si può realisticamente chiedere alla Chiesa e a noi stessi in ordine a una pastorale e a una sensibilità diverse nei confronti delle persone omosessuali?” – esige l’individuazione di alcuni suggerimenti pratici e in grado di tradursi in iniziative ecclesiali destinate, prima di tutto, a creare un “clima” e condizioni concrete “in ordine a una pastorale e a una sensibilità diverse nei confronti delle persone omosessuali”.
Di seguito si è provato a riassumere idee e richieste formulate negli anni scorsi, ricordate qui per essere esaminate in modo da stabilire quali siano oggi “realistiche”.
L’atteggiamento di fondo dovrebbe essere, per dirla con la Lettera aperta alla Chiesa italiana uscita dal Convegno “Le persone omosessuali nella Chiesa. Problemi, percorsi, prospettive”, quello di “assumere l’impegno ad aprirsi ‘alle gioie e alle speranze, alle tristezze e alle angosce’ (GS 1) delle persone omosessuali, che, quando soffrono per la loro diversità, diventano un’immagine viva di Cristo sofferente sulla croce”.
Ciò dovrebbe avere conseguenze nell’intervento della Chiesa in ambito sociale e nell’azione pastorale, traducendosi prima di tutto nell’“operare perché le persone omosessuali non siano emarginate né nella comunità ecclesiale né nella società”.
Ripartire da Loreto
Nel 1985 il Gruppo del Guado inviò un documento al Convegno ecclesiale di Loreto. Gli Atti del Convegno mostrano di averne recepito la sostanza, là dove si dice che “per coloro che si trovano in situazioni ‘particolari’ (omosessuali, transessuali)… venga messa in atto un’approfondita riflessione che positivamente li sostenga e valorizzi, in positivo, gli aspetti complessi della loro realtà anche nella comunità ecclesiale. Si eviti ogni forma di ulteriore emarginazione” (Atti, pag. 321-322: Ambito C – Commissione 14).
Si scrive anche, nella sezione Ambito D – Commissione 20 (“Il servizio agli ultimi”), sotto il titolo “Riconciliarsi con le situazioni più complesse”: “Opportunità di approfondire la problematica dell’omosessualità, come già hanno fatto comunità cristiane ed episcopati stranieri. Sono stati presentati documenti ed esperienze in proposito. Si vorrebbe evitare la situazione dell’intervento di un nuovo samaritano, mentre si auspica la presa di coscienza da parte di tutta la comunità” (Atti, pag. 369).
Questi auspici e questi impegni, finora rimasti obiettivamente lettera morta, ma che in qualche modo dovrebbero vincolare la Chiesa italiana, potrebbe già offrire un valido quadro di riferimento e indicare la direzione in cui procedere.
Ribadire che i gay sono chiamati alla salvezza
Nell’attuale contesto sociale ed ecclesiale, non sarebbe poi inutile, come richiesto dalla Lettera aperta alla Chiesa italiana uscita dal Convegno “Le persone omosessuali nella Chiesa. Problemi, percorsi, prospettive”, che “la Chiesa cattolica ribadisca con chiarezza che, in Gesù Cristo, tutti gli uomini e tutte le donne, gay e lesbiche compresi, sono chiamati da Dio alla salvezza e riconosca il diritto-dovere degli omosessuali di manifestare senza ipocrisie la propria identità”.
Non si può, infatti, ignorare quanto siano diffusi, tra i battezzati e gli stessi praticanti, pregiudizi e visioni distorte che considerano gli omosessuali “maledetti da Dio”, “condannati all’Inferno”, o “scomunicati”, né quanto sia presente nella Chiesa cattolica, anche a livello d’insegnamento autorevole (cfr. “Alcune considerazioni concernenti la risposta a proposte di legge sulla non discriminazione delle persone omosessuali” della Congregazione per la dottrina della fede là dove si afferma che “la maggioranza delle persone a tendenza omosessuale che cercano di condurre una vita casta non rende pubblica la sua tendenza sessuale.
Le persone omosessuali che dichiarano la loro omosessualità sono in genere proprio quelle che ritengono il comportamento e lo stile di vita omosessuale ‘indifferente o addirittura buono’, e quindi degno di approvazione pubblica”), l’idea che l’omosessuale “buono” e “vero” sia quello che cela la propria inclinazione e che il nascondimento, più o meno ipocrita, sia la strada maestra per evitare discriminazioni.
Condannare pubblicamente le violenze contro gay, lesbiche e transessuali
La lettera della Congregazione per la dottrina della fede ai vescovi della Chiesa cattolica su “Cura pastorale delle persone omosessuali”, deplorando che “le persone omosessuali siano state, e siano ancora, oggetto di azioni violente”, afferma che “simili comportamenti meritano la condanna dei pastori della Chiesa, ovunque si verifichino”.
Tuttavia, almeno in Italia, mai la Conferenza episcopale o singoli vescovi sono intervenuti pubblicamente quando sono accaduti episodi di questo tipo. Pur non trattandosi di un intervento strettamente pastorale, non passerebbe certo inosservato se la gerarchia, come chiesto dalla Lettera aperta alla Chiesa italiana uscita dal Convegno “Le persone omosessuali nella Chiesa. Problemi, percorsi, prospettive”, facesse “udire chiaramente e con forza la propria voce per difendere le persone omosessuali quando vengono aggredite” o qualche suo autorevole esponente condannasse pubblicamente le violenze contro gay, lesbiche e transessuali.
Per esempio, se i vescovi locali avessero stigmatizzato nell’agosto del 2003 il pestaggio di Michele Bellomo, presidente dell’Arcigay di Bari, e l’omicidio di Enrico T., transessuale bruciato vivo a Napoli e morto dopo 13 giorni di agonia, questi gesti, a ben vedere doverosi, sarebbero certamente stati accolti come una positiva novità dalla comunità glbt.
Appoggiare normative non discriminatorie sul lavoro
Il Documento base elaborato dal Gruppo di lavoro sulla pastorale delle persone omosessuali della diocesi di Innsbruck traduce: “Poiché certi problemi delle persone omosessuali derivano essenzialmente dal loro ambiente sociale occorre un impegno politico attivo nella società e nella Chiesa.Perciò, la presa di posizione a favore delle persone omosessuali, comunque esse vengano stigmatizzate ed emarginate, l’impegno a favore dei loro diritti e l’eliminazione della discriminazione fanno parte integrante di una pastorale con le persone omosessuali”.
Come riconosce la Commissione cattolica inglese per l’assistenza sociale, “la disapprovazione sociale e il rifiuto della persona omosessuale solo perché ha queste tendenze è un penoso problema per l’omosessuale. Sfortunatamente, l’incomprensione viene molto spesso da persone ‘religiose’ e l’ostracismo e la discriminazione nei confronti degli omosessuali sono presenti spesso in molti cristiani praticanti che non vogliono ammettere di essere omosessuali”.
Tuttavia la concezione di “discriminazione” applicabile alle persone omosessuali sostenuta dalla Congregazione per la dottrina della fede nella Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su “Cura pastorale delle persone omosessuali” e in “Alcune considerazioni concernenti la risposta a proposte di legge sulla non discriminazione delle persone omosessuali” ha fatto sì che finora la Chiesa italiana abbia più o meno esplicitamente osteggiato l’adozione di una legislazione che persegua le discriminazioni contro gay e lesbiche sul lavoro, in particolare contrastando le iniziative di sensibilizzazione in tale senso e le proposte di legge depositate in Parlamento in anni recenti.
Una posizione diversa, che certo contribuirebbe all’eliminazione dei pregiudizi contro l’omosessualità in Italia, potrebbe essere assunta senza mettere in discussione la tradizionale dottrina della Chiesa e costituirebbe un gesto di grande significato per le persone coinvolte.
Rendere pubblica la notizia che c’è un dialogo in corso tra gerarchia e omosessuali credenti
Pur senza mettere in discussione l’impegno a mantenere il riserbo sui nostri incontri, non si può fare a meno di sottolineare che la notizia di un dialogo in corso tra gerarchia e omosessuali credenti sarebbe accolta, in quanto tale, con grande gioia e speranza da molte persone omosessuali e modificherebbe l’immagine della Chiesa cattolica, contribuendo a creare un “clima” diverso.
Avviare un approfondimento teologico
Già nel 1985 il documento preparatorio al Convegno ecclesiale di Loreto sottolineava la necessità di “verificare la capacità della teologia morale cristiana, come di fatto coltivata nelle scuole cattoliche, e rispettivamente dell’istruzione morale, come di fatto proposta a livello pastorale, a illuminare oggi la complessa esperienza morale del cristiano e in genere la problematica morale dell’uomo del nostro tempo, riportandola all’evidenza centrale dell’unico comandamento dell’amore…
Occorrerà approfondire l’impegno della teologia morale sul fronte della comprensione dell’esperienza del singolo, del suo ‘smarrimento’ nel quadro sociale contemporaneo e dei nessi di tal esperienza con la qualità complessiva della convivenza civile, a cominciare dall’attenzione (o dalla ‘disattenzione’?) agli ultimi e agli esclusi” (2.3.3.c).
La Lettera aperta alla Chiesa italiana uscita dal Convegno “Le persone omosessuali nella Chiesa. Problemi, percorsi, prospettive” domandava, tra l’altro, ai vescovi e alla Cei di “promuovere un’iniziativa per approfondire l’argomento”, tenendo conto, come avvenuto nella diocesi di Innsbruck, “anche delle più recenti acquisizioni della ricerca nel campo delle scienze umane e delle discussioni in atto in sede di teologia morale”.
Creare un Ufficio pastorale nazionale ad hoc
Esiste ad Amsterdam dal 1958 un “Ufficio pastorale” fondato dall’Associazione cattolica di salute mentale per il popolo. Esso si propone, tra l’altro, di studiare l’omosessualità, per creare centri analoghi e pervenire, attraverso una ricerca comune, a formulare una dottrina e a stabilire delle direttive pastorali in questo campo.
Costituire un “luogo” analogo presso la Cei sarebbe un grande segno di attenzione, toglierebbe l’argomento della semiclandestinità in cui è avvolto nella Chiesa e creerebbe una sede di riflessione per l’elaborazione di una pastorale non improvvisata o lasciata alla buona volontà dei singoli. Esso potrebbe inoltre essere quello “spazio di confronto tra e con le esperienze dei gruppi di gay credenti italiani” chiesto dalla Lettera aperta alla Chiesa italiana uscita dal Convegno “Le persone omosessuali nella Chiesa. Problemi, percorsi, prospettive”.
Creare organismi diocesani
Analogo significato e fine, oltre che consentire un lavoro organico sul territorio con gli individui, le famiglie e le comunità cristiane direttamente coinvolte, avrebbe la costituzione di organismi diocesani di pastorale con le persone omosessuali. La Lettera aperta alla Chiesa italiana uscita dal Convegno “Le persone omosessuali nella Chiesa. Problemi, percorsi, prospettive” domandava ai vescovi di “dar seguito, anche attingendo a esperienze straniere come l’organismo appositamente istituito (Arbeitskreis Homosexuellenpastoral) dalla diocesi di Innsbruck, alle indicazioni della lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede ‘Homosexualitatis problema’, che dal 1986 sollecita ‘lo sviluppo di forme specializzate di cura pastorale per persone omosessuali’ (n. 17)”.
In quella Chiesa locale, il Forum diocesano (1993-1995) aveva approvato alcune risoluzioni sul tema “Persone omosessuali e fede” per favorire “l’avvio di un dialogo sull’omosessualità” e “l’elaborazione di nuove forme pastorali, che prendessero sul serio le persone omosessuali e accogliessero con rispetto e tolleranza il loro stile di vita”: costituzione di un gruppo di riflessione e programmazione per l’elaborazione di un documento base comprendente anche direttive pastorali; organizzazione di corsi di formazione; nomina di un agente o di una agente pastorale per la pastorale delle persone omosessuali.
In applicazione di queste decisioni, il vescovo, mons. Alois Kothgasser, ha affidato ufficialmente la pastorale diocesana delle persone omosessuali a un Gruppo di lavoro sulla pastorale delle persone omosessuali composto da otto persone, cui appartengono, oltre agli agenti pastorali, anche gay e lesbiche, teologi e teologhe interessati al problema, nonché i rappresentanti dei movimenti cattolici femminili e maschili; i contatti a livello diocesano sono tenuti dal direttore dell’Ufficio della pastorale. Uno dei compiti del gruppo è l’organizzazione di iniziative formative e possibilità di incontro per favorire l’eliminazione dei pregiudizi e della discriminazione.
Un frutto del Gruppo di lavoro sulla pastorale delle persone omosessuali è un Documento base, che “cerca di compendiare la discussione in atto a livello delle scienze umane e della teologia, ma anche di assumere una posizione responsabile, pur sapendo di porsi così in una certa tensione nei confronti delle dichiarazioni ufficiali del magistero della Chiesa. Il documento vuole essere una base su cui fondare la pastorale delle persone omosessuali”.
Riconoscere valore dell’affettività omotropica
Il fatto che due persone dello stesso sesso si amino è positivo? La risposta a questo interrogativo è forse “il” nodo decisivo. Ma qui serve probabilmente un approfondimento antropologico, vista la distanza, per esemplificare, tra una visione come quella sottesa alle “Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali” della Congregazione per la dottrina della fede, che considera le unioni omosessuali semplicemente un “male” (la cui “tolleranza è qualcosa di molto diverso dall’approvazione o dalla legalizzazione”), giudicandole “nocive per il retto sviluppo della società umana”, e quella espressa dal card. Basil Hume nel 1995, quando scriveva: “L’amore tra due persone, siano dello stesso sesso o di sesso diverso, va apprezzato e rispettato.
Quando due persone amano sperimentano in modo limitato in questo mondo ciò che sarà la loro gioia infinita quando saranno uno con Dio nel mondo futuro. Amare un altro significa in realtà raggiungere Dio che è presente con la sua amabilità in colui che amiamo. Essere amato significa ricevere un segno, o una parte, dell’amore incondizionato di Dio.
Amare un altro, sia dello stesso sesso sia di sesso diverso, significa entrare nell’area della più ricca esperienza umana”. Naturalmente un approccio simile sarebbe apprezzato dalle persone omosessuali.
Discutere possibilità e limiti del riconoscimento delle unioni gay
Le “Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali” della Congregazione per la dottrina della fede hanno apparentemente chiuso, almeno per il momento, qualsiasi discussione in materia. Tuttavia, secondo il teologo Javeri Gafo, “le prese di posizione ecclesiali si aprono al riconoscimenti di alcuni diritti di tali coppie, ma si oppongono alla loro equiparazione al matrimonio eterosessuale e alla famiglia, e rifiutano l’adozione, basandosi sul benessere del bambino”.
È evidente che se la Chiesa si esprimesse favorevolmente rispetto a una legislazione che garantisse alle coppie omosessuali diritti civili in materia di eredità, pensione, proprietà di appartamenti, ecc., ciò sarebbe vissuto da gay e lesbiche come un segno di “rispetto”.
Formare operatori pastorali competenti
Come scriveva l’opuscolo della Commissione cattolica per l’assistenza sociale dell’Inghilterra “Cura pastorale degli omosessuali”, “gli omosessuali hanno diritto a una cura pastorale efficace e priva di pregiudizi con ministri che siano preparati in modo adeguato a rispondere alle loro esigenze pastorali”.
Infatti, ricorda il Documento base elaborato dal Gruppo di lavoro sulla pastorale delle persone omosessuali della diocesi di Innsbruck, “anche se la responsabilità pastorale viene condivisa da tutte le cristiane e da tutti i cristiani, occorrono comunque interlocutori competenti e consulenti e accompagnatori qualificati”. E “questo suppone da parte dell’agente pastorale non solo una grande sensibilità, ma anche una (certa) competenza nel campo della psicologia umana, della teologia e della spiritualità”.
La Chiesa dovrebbe quindi avviare percorsi formativi specifici per gli operatori pastorali (preti e laici) in modo da metterli in condizione di svolgere un servizio adeguato.
Parlare dell’omosessualità nella catechesi
Sarebbe opportuno che quando si affronta il discorso sulla sessualità nella catechesi dei ragazzi ci fosse spazio anche per parlare dell’omosessualità, perché è una condizione che esiste, ha una sua dignità e un suo percorso vocazionale. Inoltre è del tutto probabile che i giovani e le giovani dell’oratorio ci sia qualcuno che è omosessuale e non deve essere ferito, costretto a nascondersi o andare via dall’ottusità del prete o dalle barzellette sciocche dei compagni.
Creare aggregazioni
Non meno importante è l’esigenza di creare ambienti in cui l’omosessuale si senta accolto, messo in grado di cogliere la dimensione comunitaria della fede, aiutato a crescere nei valori (sociali, religiosi) e, in particolare, a vivere l’amicizia nell’apertura a un gruppo più vasto che, superati alcuni pregiudizi, potrebbe comprendere anche eterosessuali.
Per qualunque persona, l’esperienza di gruppo ha un’imprescindibile valenza educativa, favorendo una sua maturazione umana e cristiana. In quanto appartenenti a una minoranza, è poi naturale che gli omosessuali sentano il bisogno di incontrarsi e stare insieme tra loro, trovando un ambito in cui potersi esprimere più liberamente e fare un’esperienza di Chiesa senza sentirsi condannati in un angolino, ma partecipando a pieno titolo. Il gruppo può essere un luogo dove nascono coppie di amici, ma è per chiunque prima di tutto una grande opportunità di conoscere e sviluppare le proprie capacità relazionali.
Sostenere i genitori
Un’azione pastorale integrale comporta anche la consulenza e l’accompagnamento dei genitori di gay e lesbiche. Come sottolinea il Documento base elaborato dal Gruppo di lavoro sulla pastorale delle persone omosessuali della diocesi di Innsbruck, “è particolarmente importante sostenere i genitori di figli omosessuali, accompagnarli nel loro cammino e aiutarli soprattutto a liberarsi da infondati sensi di vergogna e di colpa”.
A tale scopo nella diocesi austriaca è sorto un gruppo di genitori di figli e figlie omosessuali, i quali si incontrano ogni 15 giorni, avendo così la possibilità di parlare delle loro esperienze, esporre le difficoltà che incontrano e ottenere un aiuto concreto.
Su questo piano si può ricordare il documento del Comitato sul matrimonio e la famiglia della Conferenza nazionale dei vescovi cattolici degli Stati Uniti “Sempre nostri figli”, il quale vuole “pronunciare parole di fede, speranza e carità per i genitori che hanno bisogno dell’amorevole presenza della Chiesa in un momento che potrebbe essere uno dei più difficili della loro vita”, parlando “dell’accettare voi stessi, le vostre credenze e valori, i vostri problemi e tutto ciò con cui state lottando in questo momento: dell’accettare e amare vostro figlio come un dono di Dio; e di accettare nella sua pienezza la verità della rivelazione di Dio sulla dignità della persona umana e sul significato della sessualità umana”.
Perciò offre alcune raccomandazione pastorali “ai genitori:
1) accettate e amate voi stessi come genitori, per accettare e amare vostro figlio o vostra figlia. Non condannatevi per la tendenza sessuale di vostro figlio;
2) fate il possibile per continuare a mostrare amore per vostro figlio. Accettarne la tendenza sessuale, tuttavia, non significa approvarne tutti gli atteggiamenti e le scelte comportamentali associate. È in effetti possibile che dobbiate contestare aspetti di uno stile di vita che trovate riprovevoli;
3) sollecitate vostro figlio o figlia a restare uniti alla comunità di fede della Chiesa. Se hanno lasciato la Chiesa, sollecitateli a tornarvi e a riconciliarsi con la comunità, in particolare nel sacramento della penitenza;
4) preoccupatevi che vostro figlio (o vostra figlia) abbia un direttore spirituale che lo guidi nella preghiera e in una condotta di vita casta e virtuosa;
5) cercate aiuto per voi stessi, eventualmente nella forma della consulenza o della direzione spirituale, per trovare comprensione, accettazione e pace interiore. Pensate anche a unirvi a gruppi di sostegno dei genitori o a partecipare a un ritiro specificamente dedicato ai genitori cattolici con figli omosessuali.
Altri hanno percorso la vostra stessa strada, ma possono essere arrivati più lontano. Essi possono mettere a disposizione modi efficaci per affrontare situazioni familiari delicate, come parlare di vostro figlio a familiari e amici, spiegare l’omosessualità a un figlio più piccolo, relazionarvi agli amici di vostri figlio o di vostra figlia in modo cristiano;
6) unitevi nell’amore e nel servizio ad altri genitori che forse stanno lottando con l’omosessualità di un figlio o una figlia. Contattate la vostra parrocchia per organizzare un gruppo di sostegno ai genitori. L’ufficio diocesano per la pastorale familiare, la Caritas diocesana o uno specifico operatore pastorale per gay e lesbiche possono essere in grado di offrirvi assistenza;
7) per quanto traiate beneficio dalle opportunità di educazione e sostegno, ricordate che potete cambiare solo voi stessi; potete essere responsabili per le vostre convinzioni e le vostre azioni, non per quelle di vostri figlio adulto;
8) ponete tutta la vostra fede in Dio, che è più potente, compassionevole e misericordioso di quanto siamo o potremmo essere noi”.
E “ai ministri della Chiesa: 1) siate disponibili con genitori e famiglie che chiedono il vostro aiuto pastorale, la vostra guida spirituale, la vostra preghiera;
2) accogliete volentieri persone omosessuali nella comunità di fede. Andate a cercarle ai suoi margini. Evitate stereotipi e condanne. Cercate innanzitutto di ascoltare. Non date per scontato che tutti gli omosessuali siano sessualmente attivi;
3) imparate quel che c’è da sapere sull’omosessualità e l’insegnamento della Chiesa, così che la vostra predicazione, il vostro insegnamento e le vostre raccomandazioni siano bene informate ed efficaci;
4) usate le parole ‘omosessuale’, ‘gay’ e ‘lesbica’ in modo onesto e accurato, soprattutto dal pulpito. In vari modi e sottilmente potete ‘autorizzare’ le persone a parlare dei problemi dell’omosessualità e far sapere loro che desiderereste partecipare anche voi a queste discussioni;
5) cercate di procurarvi un elenco di centri, comunità e consulenti o altri esperti cui indirizzare persone omosessuali o i loro genitori e familiari, nel caso questi si rivolgano a voi per un’assistenza specializzata. Raccomandate centri che operano secondo metodi compatibili con l’insegnamento cattolico;
6) aiutate la nascita o promuovete l’esistenza di gruppi di sostegno per genitori e familiari;
7) documentatevi sul virus Hiv e sull’Aids per essere più informati e compassionevoli nel vostri ministero. Inserite nella liturgia preghiere per i sieropositivi e i malati di Aids, per quanti li assistono, per quanti sono morti e per le loro famiglie, compagni e amici.
In occasione della giornata mondiale di lotta all’Aids (1 dicembre) o di una campagna locale di informazione sull’Aids si potrebbe celebrare una Messa speciale per la guarigione o amministrare l’unzione degli infermi”.
Possibili linee d’azione
Per riassumere si può citare le “possibili linee di azione” suggerite nel documento inviato dal Gruppo del Guado al Convegno ecclesiale di Loreto:
a) ci sia un ascolto più serio della realtà che vivono gli omosessuali, e prima ancora si creino delle condizioni di aperta simpatia che li aiutino a parlare senza timori;
b) si lavori con decisione e chiarezza per demolire pregiudizi e prevenzioni che offendono la dignità degli omosessuali: il silenzio non basta, bisogna parlare;
c) si riveda a livello scientifico e pastorale una morale fatta solo di divieti e di condanne, e si proponga un itinerario rispettoso della reale situazione delle persone e delle loro effettive possibilità;
d) si provi a cercare una riconciliazione tra amicizia e sessualità in una visione integrale e non settoriale della persona: la morale che condanna l’omosessuale alla totale continenza è un vicolo cieco. La strada che secondo noi si dovrebbe percorrere è quella di proporre la relazione amicale come luogo in cui assumere la pulsione erotico-sessuale dandole il necessario contesto affettivo”.
Aprire con franchezza e semplicità nelle comunità cristiane un settore della pastorale con le persone omosessuali potrebbe concretizzarsi in tre modi: avere persone di riferimento, note e pubblicizzate, cui un omosessuale possa rivolgersi per consiglio e aiuto; prevedere gruppi di riflessione e incontro sul modello di quelli già esistenti in Italia; offrire nelle case religiose spazi per ritiri e convivenze dove i gruppi possano ritrovarsi senza doversi mascherare
ESPERIENZA DEI GRUPPI
Sarebbe privo di senso che l’elaborazione di una pastorale con le persone omosessuali ignorasse le esperienze dei gruppi di omosessuali credenti già operanti da tempo. Anzi, secondo il Documento base elaborato dal Gruppo di lavoro sulla pastorale delle persone omosessuali della diocesi di Innsbruck, “finché le donne e gli uomini omosessuali sono discriminati nella società e nella Chiesa, i gruppi di solidarietà, dialogo e lavoro delle persone omosessuali hanno importanti compiti da assolvere. (Questi gruppi hanno lo scopo di facilitare il coming out, promuovere la solidarietà fra le persone omosessuali, rafforzare l’auto-accettazione e l’auto-coscienza, attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sui loro problemi, eliminare i pregiudizi e migliorare la loro condizione giuridica). Essi sono partner importanti per il dialogo e la collaborazione”. Perciò sintetizzo qui alcuni elementi della loro storia, degli obiettivi che si sono proposti, dei problemi che si sono trovati ad affrontare, secondo l’autorappresentazione che essi danno di loro stessi.
I tentativi di pastorale dell’omosessualità in forma di gruppo di accoglienza e incontro sono iniziative spontanee sorte da preti e laici, in risposta a bisogni sentiti come importanti e all’insoddisfazione per l’atteggiamento della Chiesa a livello di organismi ufficiali o pastorale spicciola: ai cristiani omosessuali non va bene la condanna senza spiragli né il silenzio e il vuoto di proposte.
All’inizio si trattava quindi di mettere in piedi qualche struttura che desse ai cristiani omosessuali un luogo d’incontro, un punto di riferimento, un’occasione di riflessione sulla propria condizione alla luce della fede, e in prospettiva la possibilità di intrecciare con la Chiesa in senso largo un dialogo fruttuoso e fecondo.
Tre obiettivi quindi: essere
1) un luogo di accoglienza per le persone, dove poter superare, nell’amicizia schietta e nella fraternità serena, l’emarginazione e la solitudine;
2) un luogo di riflessione culturale e spirituale, dove poter prendere coscienza di se stessi e delle possibilità di crescita umana e cristiana che derivano dalla propria psicologia e sensibilità;
3) un luogo di dialogo con le Chiese e con gli uomini di buona volontà, perché nel reciproco ascolto si possono superare steccati e pregiudizi secolari. L’accoglienza veniva, ovviamente, al primo posto, perché solitamente la persona omosessuale ha bisogno in prima istanza di uscire da una situazione di clandestinità ed emarginazione.
La riflessione è partita dalla Bibbia, per estendersi poi al giudizio da dare sui propri bisogni e comportamenti. Il dialogo era la cosa più difficile, anche perché c’era l’impressione che dall’altra parte ci fosse un muro che rifiutava semplicemente l’ascolto.
Col tempo, quelle tre prospettive hanno mostrato anche i loro rischi: l’accoglienza intesa come apertura generica agli altri solo perché omosessuali, anche se non condividevano gli obiettivi; la riflessione e lo scambio come autocommiserazione sterile e lamentosa; il dialogo con la Chiesa interpretato in termini puramente rivendicativi e aggressivi.
Questi ingredienti comuni vengono declinati dai gruppi secondo sottolineature non uniformi. L’accoglienza per alcuni significa un luogo dove tutti possono venire, con riunioni aperte e una linea telefonica cui chiunque può rivolgersi, per altri il contatto è più graduale, filtrato attraverso incontri preliminari di conoscenza, così che chi decide di aggregarsi al gruppo sa che cosa trova e ci arriva con una certa disponibilità al coinvolgimento personale.
Nel primo caso c’è la massima apertura, ma anche il rischio di rapporti interpersonali poco significativi; nel secondo il tasso di coinvolgimento interpersonale è alto e il senso di amicizia forte, ma c’è il rischio che il gruppo si chiuda su se stesso eliminando chi non sa integrarsi.
La riflessione per alcuni si traduce nell’organizzare incontri e conferenze in cui un esperto espone un tema, solitamente connesso al problema omosessuale, e alla sua relazione segue un dibattito, per altri significa soprattutto uno scambio interpersonale dei membri del gruppo in una sorta di processo di autoformazione, dove l’omosessualità è solo un elemento del discorso e si dà attenzione anche ad altri aspetti della persona.
Riappare qui un’altra polarità, riferibile all’aspetto del dialogo, cioè la tensione tra privato e pubblico, tra attenzione al vissuto delle persone coinvolte e “militanza” sociale ed ecclesiale: i gruppi attenti primariamente a costruire rapporti di amicizia e solidarietà tendono a prendere le distanze da un presenzialismo non sempre gradito, mentre chi è sensibile all’impegno pubblico accusi i primi di atteggiamenti pavidi e catacombali. Dimensione personale e sociale sono entrambe importanti e devono in qualche modo essere riconciliate.
Quanti formano questi gruppi percepiscono comunque, in modo più o meno consapevole, che il fatto stesso di dare alla gente la possibilità di essere accolti, di uscire dalla tristezza di una solitudine insopportabile e a volte drammatica, sia già un valore cristiano. In ordine alla riconciliazione con se stessi e al superamento di lacerazioni interiori che inducono sfiducia e pessimismo, il gruppo può esercitare una funzione terapeutica di notevole importanza.
Il trovarsi con persone che vivono una condizione socialmente minoritaria e marginalizzata, oltre che spesso giudicata negativamente, riduce la distanza tra il modello dominante e il proprio, e quindi la conflittualità e il disagio. Nel gruppo si può dare spazio a una comunicazione che altrove è difficile, se non impossibile: questo riconcilia con gli altri, che rischiano di essere percepiti come ostili o indifferenti.
Infine il fatto che si tratti di un gruppo di cristiani aggiunge un elemento in più di riconoscimento e può sciogliere conflitti con la propria vita di credenti: la fede nel Dio-Amore può diventare una forza che aiuta ad accettarsi e riconciliarsi. L’esistenza di gruppi di cristiani omosessuali ha aiutato molti a riconciliarsi con la vita di fede e a riprendere il dialogo con Dio. Quello che il gruppo offre in più rispetto all’incontro con il singolo sacerdote è la possibilità di confrontarsi, da omosessuali, sulla propria vita e sulla propria esperienza di fede.
Il gruppo non è però privo di rischi: il trovarsi tra “uguali” può incoraggiare un comportamento schizofrenico, offrendo uno spazio in cui si ha l’illusione di aver risolto tutti i propri conflitti, che però si ritrovano fuori in modo drammatico, con le frustrazioni che ne conseguono; il gruppo può far scattare meccanismi di “identità” che portano ad azzerare il rispetto per la diversità dell’altro, il sentirsi forti e uniti in un ambiente che si presume omogeneo può indurre atteggiamenti di aggressività che rendono difficile il dialogo con chi non è del gruppo.
Infine il ritrovarsi tra omosessuali può alimentare una sottolineatura eccessiva del proprio problema, facendo dimenticare che nella più larga comunità civile ed ecclesiale ci sono situazioni oggettivamente più gravi. Sono malanni fisiologici in ogni gruppo, ma non tali da portare a concludere che esso, come struttura di azione pastorale, sia inutile o dannoso.
Un percorso esemplare è quello de La fonte, così descritto nel documento “Coscienza, libertà, comunione: l’omosessualità e le chiese” inviato al Convegno ecclesiale di Palermo (1995) dal gruppo: “L’intenzione iniziale e continua del gruppo è stato l’ascolto rivolto a persone omosessuali desiderose di comprendere e vivere la loro condizione esistenziale in armonia con la propria fede cristiana. Ognuno è invitato riflettere su se stesso e a esprimersi a partire dalle sue esperienze e dalle sue convinzioni.
Non ci si confronta su temi astratti né si sta ad ascoltare esperti conferenzieri, ma, in un sincero lavoro interiore e nel dialogo, si parte da se stessi per conoscere, capire, correggere, maturare il senso che uno ha di sé e della propria vita, col risultato spesso di migliorare nel contempo la propria capacità di attenzione di ascolto degli altri. In questi anni le piste di riflessione che abbiamo scelto ci hanno richiesto di scandagliare la nostra coscienza di fronte al senso che diamo alla nostra ricerca di affetto, amicizia, amore reciproco nel contesto della nostra identità sessuale.
Il frutto più evidente è stato una maggiore consapevolezza della nostra persona e della nostra omosessualità, che ci ha fatto uscire da posizioni talvolta negative, dubbiose o ipercritiche, e ci ha fatto scoprire nuovi percorsi di relazioni amicali sincere e disponibili al confronto e all’accettazione delle differenze: questo avviene a partire dal racconto del proprio vissuto e dalla risonanza che la pagina biblica suscita in ciascuno.
Se l’attenzione alla coscienza personale rimane il punto di partenza, non rinunciamo a farci guidare, oltre che dal Vangelo, dalle indicazioni del sacerdote presente tra noi e dal riferimento a tutto quanto la Chiesa, nei suoi vari livelli (magistero del papa e dei vescovi, teologi, autori spirituali, testimonianze di santi e di persone significative) e, nella misura del possibile, anche nelle sue varie confessioni, produce in termini di orientamento e riflessioni soprattutto riguardo all’etica sessuale in genere e all’omosessualità in particolare.
Nel gruppo impariamo a liberarci dalla nostra fragilità e dall’eccesso di protagonismo, impariamo a saper rischiare la nostra vita nella relazione interpersonale fatta di dono e di abbandono, a maturare la convinzione che la libertà non è anarchico fare quello che si vuole, ma è al fondo capacità dio amare con responsabilità e generosità. Stare nel gruppo ci ha portato a vivere molteplici rapporti di amicizia in una comunione di persone che si ritrovano unite nel desiderio di un cammino condiviso fatto di dialogo, di attenzioni, di solidarietà, di gioiosa convivialità, di accoglienza”.
Queste note possono essere così integrate citando don Domenico Pezzini: “La fonte è sorto con l’intento di mettere in primo piano l’attenzione alla crescita umana e spirituale delle persone ed essere una vera e propria ‘scuola di relazioni’. Io ho cercato di tracciare alcune piste di una spiritualità per la persona omosessuale e di suggerire un cammino di crescita realistico a partire da ciò che si è e mettendosi in confronto con il Vangelo, estraendo dalle situazioni esaminate i rischi di degenerazione e le possibilità di positivo.
Per questo ho provato in un primo momento a prendere in considerazione alcuni aspetti abbastanza rilevanti per la psicologia omosessuale, anche se, ovviamente, non esclusive di essa: il rifiuto e l’accettazione di sé, il bisogno di assoluto e lo scontro con il limite, il bisogno di bellezza, per cercare un modo cristiano di vivere queste situazioni.
Il secondo passaggio affronta il tema della relazione, che parte dalla scoperta della diversità/sintonia, da tenere insieme per superare i rischi derivanti dal senso della solitudine e dall’istinto di assorbire l’altro come prolungamento di sé; passa dall’incontro/scontro, dove la relazione oscilla tra la voglia di dominare e il bisogno di affidarsi e abbandonarsi; giunge infine al culmine e in un certo senso si scioglie nel rapporto vissuto come servizio e dono di sé per la gioia dell’amico, anche solo in quel morire che è l’accettare e l’accogliere la diversità dell’altro.
A questo punto è stato logico affrontare il problema di come l’omosessualità possa essere integrata in un progetto cristiano di vita: nella dottrina cristiana dell’amore come luogo in cui ci è dato di conoscere, oltre che noi stessi, Dio, e di fare esperienza di lui, della sua natura, della sua presenza.
Il punto cardine del discorso è la vita di relazione: è qui che può avvenire l’incontro decisivo tra la condizione omosessuale e il progetto evangelico della vita come dono di sé nell’amore.
Nei gruppi, soprattutto in quanto luoghi di accoglienza, si cerca di fare l’esperienza della Chiesa come comunità di amici. Essi possono diventare i luoghi dove si fa quell’apprendistato all’amicizia e all’amore che è il cuore stesso della vita cristiana.
Gli incontri occupano mediamente un pomeriggio al mese e comprendono anche un momento di preghiera. Tre volte all’anno l’incontro assume l’intensità della convivenza-ritiro di fine-settimana, dove arrivano anche altre persone, in particolare membri di gruppi simili”.
Un’altra esperienza è quella de Il guado, così commentata da Gianni Geraci: “Il confronto con il magistero della Chiesa, con la cultura teologica e col dibattito in corso sull’omosessualità nelle varie confessioni cristiane è indispensabile in vista di favorire, in quanti frequentano i nostri gruppi, la maturazione di una fede adulta, capace di ispirare cristianamente le scelte etiche.
Si tratta, in sostanza, di ribadire i due criteri ispiratori cui fa riferimento il Concilio, quando parla della libertà di coscienza: il dovere di seguire la propria coscienza e, quindi, l’obbligo di considerarla criterio ultimo di valutazione delle nostre scelte morali, l’impegno di formare questa stessa coscienza attraverso l’ascolto orante della Parola di Dio e l’accoglienza rispettosa del magistero della Chiesa nei suoi vari livelli di autorevolezza.
Un’esperienza importante è stata quella che ha visto nascere nei nostri gruppi vere e proprie ‘scuole di preghiera’: trovarsi insieme per pregare, ascoltare insieme la Parola di Dio che ci interpella, vivere insieme momenti di adorazione sono state per noi esperienze importanti, che ci hanno fatto scoprire come l’appartenenza alla comunità dei credenti non è un problema in più per l’omosessuale, ma una risorsa cui attingere per approdare più speditamente a un’effettiva liberazione. In questo senso i nostri si considerano veri gruppi ‘ecclesiali’, anche se non sono nati per iniziativa di nessun organismo ecclesiastico”.
Le attese di questi gruppi sono così sintetizzate da don Pezzini: “Mi piacerebbe che questi gruppi si moltiplicassero e avessero sostegno dei pastori, senza mettere come pre-condizione parametri spesso impossibili. Ma d’altra parte non vedo l’ora che non ce ne sia più bisogno e possano trasformarsi in gruppi dove omosessuali ed eterosessuali si accolgano reciprocamente per crescere insieme. L’ideale è che essi lascino in eredità un’immagine di Chiesa dove la fragilità condivisa sia la base di partenza, e la cura delle relazioni tra le persone l’obiettivo principale”.
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1 Con un particolare riguardo alla Nota informativa edita dall’Ufficio cattolico olandese per l’assistenza pastorale “La cura pastorale degli omofili” (tradotta in Italia nel 1967), alla Dichiarazione della Congregazione per la dottrina della Fede “Alcune questioni di etica sessuale” (1975), all’opuscolo della Commissione cattolica per l’assistenza sociale dell’Inghilterra “Cura pastorale degli omosessuali” (1979), al documento del Gruppo del Guado al Convegno ecclesiale di Loreto (1985), alla Lettera della Congregazione per la dottrina della fede ai vescovi della Chiesa cattolica “La cura pastorale delle persone omosessuali” (1986), con le sue “applicazioni” contenute in “Alcune considerazioni concernenti la risposta a proposte di legge sulla non discriminazione delle persone omosessuali” della Congregazione per la dottrina della fede (1992), al Catechismo della Chiesa cattolica (1992), al Documento del gruppo La fonte al Convegno ecclesiale di Palermo (1994), al Documento base elaborato dal Gruppo di lavoro sulla pastorale delle persone omosessuali della diocesi di Innsbruck (1998), alla Lettera aperta alla Chiesa italiana uscita dal Convegno “Le persone omosessuali nella Chiesa. Problemi, percorsi, prospettive” (1999) e alle “Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali” della Congregazione per la dottrina della fede (2003). Non ho invece considerato, perché non disponibili – almeno a mia conoscenza – in italiano, altri testi del magistero di alcune nazioni, in particolare quelli del Consiglio cattolico per la Chiesa e la società dell’episcopato olandese “Homosexual people in society” (1979) e della Conferenza dei vescovi cattolici della Nuova Zelanda “Dignity, love, life: statement on homosexuality” (1986), oltre ad alcuni pronunciamenti statunitensi a livello di Conferenza episcopale nazionale (“Principles to guide confessors in questions of homosexuality” – 1973; “To live in Christ Jesus” – 1976; “Sharing the light of faith: United States catechetical directory for catholics of the United States” – 1979; “Education in human sexuality for christians” – 1981; “The many faces of Aids: a gospel response” – 1987; “Called to compassion and responsability: a response to the Hiv/Aids crisis” – 1989; “Human sexuality: a catholic perspective for education and lifelong learning” – 1991), conferenze episcopali regionali (per es.: Washington State Catholic conference “The pregjudice against homosexuals and the ministry of the Church” – 1983) e singole diocesi (p. es.: Diocesi di San Josè “Pastoral guidelines for ministry to homosexuals” – 1986). Potrebbe non essere inutile la raccolta e l’esame di questi testi.
* Mauro Castagnaro, giornalista è membro della redazione di Missione Oggi e collabora con altre testate cattoliche (Jesus, Il Regno, Popoli, ecc.). Si occupa anche di ecumenismo ed ha curato per “Noi siamo Chiesa” i volumi editi dalle edizioni La Meridiana “Il posto dell’altro” (2001), “Dopo il matrimonio” (2002), “Confessione addio?” (2005) ed ha realizzato recentemente il dossier su “Diversità sessuale e teologia in America Latina” (Confronti, 2008).