Insulta un compagno: sei gay! L’insegnante lo punisce e rischia il carcere
A Palermo uno studente insulta a scuola un compagno: "sei gay!". L’insegnante lo punisce facendogli scrivere per cento volte: "sono deficiente". denunciata la prof. rischia il carcere per "abuso dei mezzi di correzione". Ma al processo …
Il fatto
« Lo sa che rischia due mesi di carcere per avere fatto scrivere cento volte "Sono un deficiente" a un suo alunno, ma anche se il processo va avanti da un anno e si concluderà mercoledì con il rito abbreviato, questa professoressa di 56 anni, da trenta in servizio alle medie, giura che da due mesi è certa che qualcosa di incisivo andava fatto: "L’ho capito il 5 aprile, quando quel povero ragazzo di Torino si è suicidato perché i bulletti della scuola lo sfottevano indicandolo come gay".
Il tragico epilogo di Torino e la storia emersa adesso in un quartiere popolare di Palermo hanno più di un’assonanza. Nessuno difese però lo studente ossessionato da chi gli faceva il verso chiamandolo Jonathan, come il personaggio di un reality.
Mentre a Palermo una protezione l’ha trovata quel bimbo additato a 12 anni come "gay e femminuccia" da un compagno di classe pronto a bloccargli l’accesso nel gabinetto dei maschietti, spalleggiato da altri bulli più grandi.
Appunto, la protezione dell’insegnate che ha rimproverato il "colpevole" condannandolo alla pena delle cento frasi al centro della denuncia con cui il padre dell’irrequieto scolaro chiede pure un risarcimento di 25 mila euro per le presunte turbe psichiche provocate nel figlio.
"Dopo tanti anni di servizio e madre di ragazzi adesso grandi, ho solo cercato di tutelare la vittima di un’ingiustizia, ragionando con tutti gli alunni sull’arroganza di quel comportamento e sul concetto di deficienza…", spiega l’ insegnante che si danna di essere stata interrogata dal pubblico ministero Laura Vaccaro prima di quel cinque aprile, giorno in cui chiamò il suo legale, Sergio Visconti. "Gliel’ho detto all’avvocato che la terribile storia di Torino mi ha dato amara conferma di quel che andava fatto.
Comunque vada, mi assumo le responsabilità per la scelta fatta. Perché anche nella mia storia, da una parte, c’è il ragazzino che fa combriccola con altri più grandi e, dall’altra, un bimbo indifeso, succube di chi si arroga il diritto di sbatterti addosso ogni marchio".
La professoressa ripercorre con un certo sgomento le tappe di una escalation cominciata il 28 gennaio dell’anno scorso, quando da quel bagno un bimbo torna in lacrime, lei istruisce un piccolo processo e intima all’altro ragazzino di scrivere nel diario quelle cento frasi precedute da due righe di suo pugno per invitare i genitori a presentarsi a scuola.
Perché non una nota sul registro? E’ la domanda del pm agli atti del processo. E la risposta è un invito a leggere quel registro: "Nei giorni precedenti c’erano state sette, otto note siglate dai miei colleghi, non da me, proprio su quel ragazzo.
Una perché disturbava, un’altra perché si alzava dai banchi, un’altra ancora perché aveva danneggiato un portone… Non serviva l’ennesima nota. Occorreva una riflessione su quanto accaduto e un confronto con i genitori". Ma il giorno dopo il ragazzo torna nella scuola a due passi dal Policlinico di Palermo senza diario. "E fino al tre febbraio non c’è traccia del padre o della madre. Dal 4 all’8 io sono in malattia. Torno il 9 e l’alunno mi presenta il diario con due righe firmate dal padre: "Mio figlio sarà deficiente, ma lei è c…"".
L’offesa brucia. La professoressa capisce che quella parolaccia è nota agli altri scolari. E teme: "Non si può affidare a un figlio quel tipo di schiaffo al docente. Una scelta devastante nell’equilibrio dei ruoli. Così salta tutto.
Con serenità mi rivolgo allo studente. ‘Perché tuo padre ha scritto questo? Io vi ho spiegato cosa significa deficiente’. E lui: ‘Mio padre dice che non significa mancanza, ma è parola di offesa, l’ha cercato su Internet…’". Il pm insiste: "Non poteva seguire altre vie?".
E la professoressa: "Sulla parola ‘deficienza’ abbiamo discusso a lungo cercandone l’etimologia. Ecco il compito che infine più mi ha colpito, quello di un alunno estraneo ai fatti: "Ha sbagliato la maestra a dire quella parola, a fare scrivere la parola al compagno, ma forse ha ragione lei, siamo tutti un po’ deficienti’…" », dal Corriere della sera del 09 giugno 2007.
L'epilogo
« Assolta … perché il fatto non sussiste. Si conclude così, con una sentenza di assoluzione pronunciata dal gup di Palermo Piergiorgio Morosini, l’avventura dell’insegnante di scuola media accusata di abuso di mezzi di correzione ai danni di un alunno reo di bullismo.
Ricordiamo che la professoressa aveva punito il dodicenne per avere impedito l’ ingresso al bagno dei maschi a un compagno dicendogli “Sei gay, devi andare nel bagno delle femmine”.
Lo aveva castigato imponendogli di scrivere cento volte sul quaderno la frase “Sono un deficiente”. Un purgante molto blando rispetto alle umiliazioni reiterate che questi aveva somministrato alla sua vittima. Ma si sa, chi sceglie di non tacere davanti ad atti di prevaricazione fa di se stesso un bersaglio. Così l’insegnante s’era vista denunciare da una famiglia che ha fatto la discutibile scelta di sostenere la condotta violenta del figlio piuttosto che educarlo al vivere civile.
Oggi, la sentenza del gup ci sembra magari ovvia. Diciamolo, una condanna sarebbe stata inconcepibile oltre ogni dire. Rimane grave la scelta del pm Ambrogio Cartosio di aver chiesto due mesi di reclusione per la condotta (in realtà legittima) della docente. Una scelta che, se convalidata dalla sentenza, sarebbe stata di supporto alla mentalità mafiosa ancora oggi (come questo episodio insegna) dilagante nelle nostre scuole.
Che segnale avrebbe mai dato la magistratura al paese condannando la professoressa per avere punito l’indegno comportamento di un bullo? Con quali occhi avremmo guardato, in seguito, alle successive campagne contro il bullismo, una volta che l’arroganza fosse stata tutelata dalla giustizia con maggiore puntualità delle vittime?
La solidarietà raccolta dall’insegnante in queste settimane ci fa pensare che i cittadini italiani, in netta maggioranza, vogliano una scuola diversa da un parcheggio dove i figli possano sfrenarsi senza nessun controllo. Il sit in dell’ Associazione Omosessuale Articolo 3, davanti al tribunale in attesa della sentenza, deve farci pensare che dare del “frocio” e delle “femminuccia”, anche solo tra bambini in età scolare, non dovrà più essere considerata una cosa da niente. Uno dei loro cartelli recitava “Meglio un figlio mafioso che gay?”.
Al di là delle risposte personali (tutti conoscono, ormai, l’opinione della famiglia del piccolo bullo palermitano), saggiamente, la magistratura ha detto “NO”. Se per una volta questa brutta storia non si è conclusa con il suicidio del ragazzo perseguitato, se per una volta un’ insegnante ha deciso di non chiudere gli occhi davanti alla vigliaccheria e alla crudeltà, la sentenza di Palermo rappresenterà senz’altro un precedente.
Una piccola vittoria significativa, una speranza che i tempi possano presto cambiare. Che anche la scuola, e l’aria che vi si respira, possa rinnovarsi.
E che la famiglia tradizionale, tanto decantata da qualcuno come unico modello possibile, possa diventare altro piuttosto che una fucina di bulli senza alcuna coscienza civile », tratto perdido63.blogspot.com del 28 giugno 2007