Quel cuore che batte sotto l’abito da suora. Sandra, lesbica e cattolica
Articolo di Pedro Ramírez pubblicato sul blog Católico y Gay (Messico) il 4 dicembre 2010, liberamente tradotto da Maria Stella Iaria
Tre anni fa René Aguilera, allora vicario dell’Educazione a San Bernardo, propose alla professoressa di religione Sandra Pavez di continuare a fare lezione ma di tenere segreta la sua relazione lesbica. La docente non accettò e il sacerdote – che un mese fa si è suicidato dopo essere stato accusato di abusi su un minore – le impedì di continuare a lavorare come maestra. Questa è la storia che racconta la professoressa Sandra Pavez la quale, 22 anni prima della condanna del vicario, aveva già subito discriminazioni di tipo religioso. Nel 1978 entrò in convento con la speranza di sublimare il proprio orientamento sessuale e vi rimase 8 anni, finché non fu espulsa quando confessò di sentirsi attratta da una novizia.
Sandra Pavez sfiora i 50 anni ma sembra più giovane. È una donna minuta e dall’aspetto fragile, ma questa prima impressione svanisce non appena inizia a parlare. Il suo tono di voce, sereno ma tassativo, la fa apparire una persona energica e sicura di sé. Non si confonde con le parole, al contrario si prende tutto il tempo per pensare a cosa rispondere. Afferma di non voler fare uno scandalo, di volere solo che la gente conosca la sua storia di “doppia discriminazione” per mano della gerarchia cattolica. E, in linea con ciò, dà forma al suo racconto spogliandolo di qualunque asprezza. Questa è la sua testimonianza:
“Erano 22 anni che lavoravo nella stessa scuola come professoressa di religione. Non ho mai avuto alcun problema a scuola. Ero una professoressa ben voluta e rispettata. All’improvviso, nel 2007, padre René Aguilera Colinier, vicario dell’Educazione, mi chiese di andare a parlare con lui. Sapevo già, più o meno, di cosa voleva parlarmi perché non avevano fatto altro che chiamare per telefono la mia scuola e la Corporazione Municipale dell’Educazione. Ovviamente, avrebbero chiamato tutti i posti collegati al mio lavoro per dire loro del mio orientamento sessuale.
“Non mi sono mai presa il disturbo di cercare di scoprire chi offendeva con le accuse. La mia situazione la conoscevano soltanto le amicizie più care e alcune persone della mia famiglia. Convivevo con una persona e tutta la sua famiglia lo sapeva. Quando padre René me lo chiese, io vivevo già da 10 anni con quella persona.
“Quando arrivai nel suo ufficio la segretaria del vicario mi disse “Non hanno fatto altro che chiamare e Lei sa che non c’è fumo senza arrosto”. Aspettai il vicario, e quando arrivò mi ricevette in modo gentile. Mi disse: “Signorina Sandra, abbiamo ricevuto delle chiamate in Vicariato in cui ci hanno detto che Lei è lesbica e vorrei che mi dicesse se è un pettegolezzo per arrecarle danno”. Avrei potuto inventare una frottola, dire che mi stavano solo infastidendo per telefono ma, guardandolo negli occhi, gli dissi: “Si, sono lesbica”. Lo feci perché ritenni di non avere motivo di nascondere ciò che sono..
– Ma, come? Se Lei è professoressa di religione…
Si, sono 22 anni che sono professoressa di religione e sono stata lesbica per tutta la mia vita. Quando sono entrata all’Università Cattolica per studiare religione mi hanno fatto tutti i test psicologici che si fanno ai professori e ho superato tutti i colloqui – risposi.
-Lei non può insegnare religione! Con quale morale predica Cristo? Come parla ai bambini di Dio e di Cristo se è lesbica?
Il mio orientamento sessuale non ha niente a che vedere con ciò che il mio cuore prova con la mia fede. Il mio principio di vita è la verità e mostrare un Gesù Cristo vivo, che ci ama così come siamo – gli risposi.
“Mi chiese se qualche volta ne avessi parlato con i miei alunni. Gli dissi che gli alunni nella mia classe, poiché sono professoressa di religione in una scuola elementare, non parlano né fanno domande sul sesso. I loro dubbi sono del tipo: “Veramente proveniamo da Adamo ed Eva?”, “Veramente è esistito il Big Bang?”, “Cosa pensa di Darwin?”.
Gli raccontai che erano 10 anni che avevo una compagna e che convivevo con lei; che era la prima compagna di tutta la mia vita. Ma lui insistette: “Fa lo stesso, Lei non può essere professoressa di religione essendo lesbica. Tantomeno se convive con una compagna”. Mi propose di lasciare la mia compagna per poter trovare un accordo. Però gli dissi che la mia compagna non era un oggetto, che non potevo arrivare a casa e dirle “Vattene, perché ho bisogno di continuare a lavorare come professoressa di religione”. Fu allora che mi disse che non potevo continuare a fare lezioni di religione, che me lo proibiva. lo ascoltai dire: “Ad ogni modo, figlia mia, vado a pregare, vado a chiedere per Lei, affinché tutto questo le esca dalla testa, affinché abbia la forza di lasciare la sua compagna. Può giungere a un accordo con la sua compagna, può dire che vive con una zia o che se ne vada a vivere con un parente, con sua madre”.
“È che io voglio vivere con la mia compagna”, gli dissi.
“Ciò che potete fare è incontrarvi i fine settimana ma davanti al quartiere dove vive, davanti alle persone, in modo che non vedano che vive con quella donna”mi disse.
“Ma se ho bisogno di stare con lei intimamente?” – gli chiesi.
“- Non importa! Se fa qualcosa con lei, poi va a confessarsi”.
È stata questa la sua risposta. Lo guardai e gli dissi: “Padre, Lei è un vicario della Chiesa. Come può dire questo? Cioè, Cristo serve per togliersi le colpe”. E continuo a crederci perché il sacramento (della confessione) non serve a togliersi le colpe e poi continuare a peccare. Per questo insistetti: “Non cambierò la relazione con la mia compagna, non smetterò di amarla e ritengo che Cristo non sia un gioco. Se Lei o il Vescovo mi chiederete, dirò la verità”.
Quando cominciai a fare lezioni di religione, padre Andrés Theunissen, che è stato vicario dell’Educazione di San Bernardo, mi aiutò e sapeva che ero lesbica. Sono stata religiosa della Congregazione Immacolata Concezione di San Bernardo delle suore tedesche. Vi rimasi 8 anni. E lui sapeva che hanno voluto mandarmi via dal convento perché avevo confessato di essere lesbica.”
Sguardi nel giardino del convento
I 22 anni in cui ha potuto esercitare l’insegnamento in aula hanno lasciato il segno in Sandra Pevez. E si nota! Non solo perché, anche quando veste in modo informale, la sobrietà è la caratteristica principale del suo aspetto; ma anche perché organizza le proprie idee in modo didattico e sta dando corpo al suo racconto così come se lo stesse redigendo.
Nella seconda parte della sua storia emerge il segno di un primo amore che ha avuto luogo nel posto sbagliato e che è risultato essere impossibile ma che ha segnato la sua vita fino ad oggi, come si può capire dal tono dei suoi ricordi: “Entrai nella congregazione perché, quando mi sentii attratta da una compagna in terza media, mi disperai. Da giovani è difficile capire. Non è che non mi ammassi o mi rifiutassi: era per la paura. La mia famiglia è cattolica. Mia madre è stata catechista per 20 anni. A casa mia c’era una cappella e tutte le domeniche si diceva la messa lì. Allora, pensavo che non mi avrebbero capita. Avevo molte paure. Non mi sentivo una peccatrice. Non mi sono mai sentita una peccatrice di fronte a Dio, ma spaventata di fronte alla società. Andai a raccontare alla consigliera della scuola che ero innamorata di una compagna. Questa compagna mi vedeva come un’amica. In fondo mi stavo innamorando della mia amica.
– Ascolta figliola” – mi disse la consigliera – la tua famiglia è molto cattolica e tu sei molto cattolica; il modo migliore per sublimare il tuo orientamento sessuale è entrare in convento – . Questo mi rimase quando mi girai. La consigliera non continuò a parlare con me e il sentimento per la mia compagna a lungo andare me lo tolsi da sola. Mi allontanai dalla mia amica e da un giorno all’altro non le parlai più. Non le dissi neanche “Non ti parlo perché provo qualcosa per te”.
Ci diedi un taglio e nessuno mi aiutò a farlo. Finito l’ultimo anno di scuola superiore, nel 1978, feci il test attitudinale affinché i miei genitori stessero tranquilli. Rimasi a Giornalismo ma fuori Santiago, perché non volevo andarmene. Nei mesi successivi entrai nella Congregazione. Sbrigai tutte le pratiche di nascosto, senza dire niente alla mia famiglia. La congregazione non sapeva. Mi fecero tutti quanti gli esami, i test psicologici e i colloqui. E rimasi. Ad ogni modo, preferisco essere stata una religiosa anziché essermi sposata, perché da sposate si sopporta il peso di un marito e dei figli, che vengono ingannati. Forse il cammino che ho preso non era il migliore, ma era un cammino in cui non si danneggiava nessun altro essere umano.
I primi anni li passai bene. Di fatto, pensavo “È probabile che ciò mi sia servito veramente”, perché mi consegnai a Cristo e lavorai abbastanza per Lui. Forse è stato perché nessuna delle religiose mi richiamava l’attenzione. Ma poi qualcuno arrivò al convento e iniziai a sentire un’altra volta che il mio cuore batteva forte. In convento non si parla con gli altri, ci si relaziona poco, ma io volevo vederla. Anche l’altra persona sentiva qualcosa per me. Me ne rendevo conto dai suoi sguardi, dai gesti.
Un giorno questa persona mi fermò nei giardini del convento e mi disse: – Provo qualcosa per te – . Io le risposi: – No, sorella. Lei è venuta qui per essere una religiosa; non può essere. Io sono venuta qui per l’amore che ho per Cristo – . Preferii non dirle che in fondo stavo scappando da ciò che ero veramente. Le ripetei le stesse parole della consigliera: – Cerchi di ovviare a tutto questo, di sublimarlo – . Ma lei mi rispose: – So che anch’io ti piaccio – .
A volte questa persona mi passava dei foglietti: “Ti amo”, “Ho bisogno di stare con te”, mi scriveva. Tra me e questa persona ci furono solo sguardi e foglietti, niente di più. Ma iniziò ad essere tanto forte che allora sì che mi sentii colpevole. Non colpevole di fronte a Dio, ma perché portavo un abito, per aver fatto voto di castità e anche per provare ciò che provavo. Lì mi sentii in colpa: non davanti all’entità divina, bensì davanti alla gente, davanti alle alunne, ai procuratori, che mi vedevano con un abito, come una religiosa; e mi sentii in colpa davanti a me stessa, perché sentivo che non stavo vivendo i miei voti, non perché avessi una relazione fisica con un’altra persona, cosa che non avevo, bensì per quello che il mio cuore provava. Perché per me la castità non riguarda l’avere rapporti sessuali ma ciò che si prova qui [si mette la mano sul petto].
“Ero lì da sei anni quando arrivò questa novizia. E passai i due anni successivi in lotta contro i miei sentimenti. Dopo circa un anno che lottavo con tutto ciò, avevo preso i voti temporanei ma si avvicinava il momento in cui dovevo prendere i voti perpetui. E mi dicevo “Come faccio a prendere i voti perpetui, visto quello che sto provando?”. Avevo bisogno di aiuto, avevo bisogno di dire quello che pensavo.
Decisi di parlare con la mia insegnante. Quel giorno mi unii a quella ragazza nel sotterraneo; la abbracciai, niente di più, e le dissi: Tra di noi non può esserci niente; innanzitutto perché tu vuoi essere una religiosa e prenderai i tuoi voti e poi perché io li ho già presi. C’è qualcosa di forte tra di noi ma deve finire qui, niente più sguardi né foglietti”.
La strinsi fortissimo, le diedi un bacio sulla fronte e salii a parlare con la mia insegnante. Anche lei parlò con la sua. La mia insegnante era tedesca, molto severa. Le dissi “Le voglio confessare che sono lesbica e che in questo momento mi sento molto innamorata di una giovane ragazza”.
Anche l’altra ragazza parlò con la sua insegnante, ma questa era cilena e la risposta fu molto diversa. La sua insegnante la accolse, la ascoltò. La mia, invece, mi condannò alle pene dell’inferno: “Lei ha il demonio dentro. Satana è dentro di Lei”.
“Voglio ritirarmi, voglio lasciare l’abito perché sono entrata qui sapendo di essere lesbica – le confessai.
“Ma… non lo ha mai detto” – mi rispose.
“Non me lo hanno mai chiesto, mi hanno fatto i test e in nessun posto mi hanno chiesto quale fosse il mio orientamento sessuale.
“Questa è una malattia” – mi disse.
“Se fosse una malattia non avrei superato i test psicologici. Prima di entrare al noviziato mi hanno portato tre volte da uno psichiatra e da una psicologa”.
“È malata e il demonio si è impossessato di Lei. Questa è opera del demonio. Andrà all’inferno. Sarà dannata. Da oggi, se la ragazza viene da questa scala, Lei va dall’altra. E non la guardi. Se lei la guarda, deve venire a confessarsi con me e da oggi si confessi un giorno sì e uno no con il padre. Da oggi mi racconti persino i sogni. Se la sogna, deve dirmelo”. “Sentii che stava iniziando una persecuzione”.
Dovevo trascorrere ogni giorno a raccontarle tutto quello che sognavo. Alla fine fecero andar via l’altra ragazza. Dovevano mandare via una delle due e lei era una novizia, mentre io già avevo preso i voti. E ovviamente tutto doveva rimanere nascosto perché la Chiesa custodisce queste cose sotto chiave, affinché non si sappia che all’interno ci sono degli omosessuali.
Mi confessai con padre Andrés (Theunissen) e gli raccontai tutto. Dopo che uscii dalla Congregazione, lui mi aiutò molto. È morto parecchi anni fa, era dell’Istituto Sacro Cuore di San Bernardo. Mi disse di cercare di calmarmi, di non agitarmi, che non avevo colpe. Mi accolse: “Dio non ti odia per questo. Io ti aiuterò con la mia preghiera. Fai in modo che queste monachelle non ti provochino un collasso. Parlerò con la tua insegnante affinché ti aiuti”.
“Però la persecuzione durò un anno. L’anno successivo lo passai malata; persi la memoria a causa di tutto questo. Stavo studiando per diventare professoressa di religione, quando successe tutto. E quell’estate mi mandarono a studiare a Curicó. Avevo già compiuto due anni di studio per diventare catechista.”
“Vogliamo guarirla da questa malattia”
Oggi Sandra Pavez si vede sicura e fiduciosa. Ma non è sempre stata così. Nel 1984 subì un collasso. “Ci ho messo un anno tornare a sorridere” – racconta. Dice che la fissazione della sua insegnante tedesca, che effettivamente la obbligò persino a raccontarle ogni mattina i suoi sogni, – era malsana e mi fece ammalare. Finì in una clinica e quando, una volta ristabilitasi, decise di rimanere in convento, la mandarono via. In questa terza parte del suo racconto parla del modo in cui fu spogliata degli abiti religiosi e come arrivò ad essere professoressa di religione.
“Mi mandarono a Curicó per allontanarmi da quella ragazza. Era l’estate dell’83. Nell’84 uscii dal convento e già nell’85 non avevo più i voti. Nel febbraio dell’84 arrivai a prendere i voti temporanei. Non mi chieda cosa sia successo dopo, perché per un po’ di tempo persi la memoria. Mi svegliai in una clinica. I medici mi dissero che avevo subito un collasso, un blocco mentale a causa della situazione di stress che avevo vissuto, a causa della persecuzione, perché stavo studiando e dovevo prendere bei voti, per i sensi di colpa che provavo, perché avevano fatto andar via l’altra ragazza.
L’insegnante mi disse – Sei tu quella che dobbiamo proteggere, perché lei era una novizia e sembra che fosse lei la lesbica, non tu. Lei ti ha circuita -. “Quando la ragazza uscì dal convento, era così forte il bisogno di vederla che mentii. A me non piace mentire, ma dissi che andavo a trovare un fratello malato. Mi diedero il permesso e andai a vederla. Viveva lontano da San Bernardo, a Las Condes. Andai a dirle che la amavo e che, se lei voleva, mi sarei ritirata e avremmo vissuto insieme”.
Mi disse: “Anch’io ti amo, ma non vivrò con te perché mio padre è un diacono, mio fratello è sacerdote e mia sorella è una religiosa. Io rimarrò qui in silenzio a casa mia e tu rimani pure una suora. Che il nostro amore rimanga nei nostri cuori”.
Anche lei aveva una famiglia cattolica, apostolica e romana, ancor più della mia. Me ne andai al convento, chiesi di parlare con la Superiora, sorella Ana Maria Rosende, cugina dell’ammiraglio José Toribio Merino. Le dissi che ero andata a parlare con lei perché le avevo mentito: non ero andata a trovare mio fratello ma quella ragazza. La Superiora, che era la Provinciale, non mi trattò male: “Noi vogliamo aiutarla, vogliamo guarirla da questa malattia, vogliamo curarla. Quella ragazza le ha messo il demonio, Lei era una religiosa eccellente e può dare molto perché ha carisma” -.
Ma io le dissi che ero lesbica, che non era una malattia e che un giorno mi sarei innamorata di nuovo. Lei mi aiutava e l’altra suora mi perseguitava. Tutti i giorni dovevo andare a trovare l’insegnante tedesca in camera sua e raccontarle i miei sogni. Ovviamente sognavo la ragazza e se non glielo raccontavo, stavo male. Lì mi sentii in colpa perché portavo un abito e perché provavo quello che provavo.
– Lei non è lesbica, Lei è malata – mi diceva, ma non mi portavano da uno psicologo. Finché non subii un collasso e mi ammalai. Poi mi allontanarono con due comunicati ecclesiastici per “salute non compatibile con la vita religiosa”, non perché ero lesbica.
“Quando persi la memoria mi curò un dottore schoenstattiano, uno psichiatra e uno psicologo anche lui cattolico, sebbene non religioso. Gli raccontai che ero lesbica e mi sostennero abbastanza. Camminavo appena. Ero entrata in convento come una bambina sana e ne ero uscita distrutta, piena di colpe, rifiutando me stessa. Ci ho messo una anno per tornare a sorridere.
Quando mi ristabilii, lo psichiatra mi disse: “Sorella, Lei può tornare in convento. Le suore hanno chiesto che vada a casa sua per stare con la sua famiglia fino a quando non compirà il suo anno di voti temporanei, e lì dovrebbe prendere quelli perpetui. Ho detto alla Superiora che Lei può essere una suora, se lo vuole. Ma loro le diranno che la sua salute non è compatibile e che è meglio se va via. Ma non è quello che dico io, è quello che dicono loro”.
Il dottore mi disse che la cosa importante era che io fossi disposta a compiere i voti. Quando il dottore mi disse ciò pensai che, forse, avendo avuto l’esperienza di essere finita così (malata), potevo essere più forte nella mia fede. Pensavo: “Io amo Cristo e voglio insegnare ai bambini affinché sentano vivo questo Cristo”. E pensai che, se non mi avessero mandato via, sarei rimasta in convento.
Ma la suora venne a cercarmi in clinica e mi disse: “Lei se ne va a casa sua”. E quando mancavano pochi giorni per terminare i voti temporanei, l’insegnante mi disse le stesse cose di cui mi aveva avvertito il dottore: “Non lo facciamo per noi, lo facciamo per Lei, figlia mia, affinché stia bene e la sua salute non ne risenta di nuovo. La sua salute non è compatibile con la vita religiosa e non può tornare in convento”. Non furono in grado di dirmi “Non vogliamo che torni, perché non vogliamo una lesbica tra noi”.
“Rimasi a casa mia. Ripresi i miei studi perché volevo diventare professoressa di religione. Non ho mai messo in dubbio il mio insegnare la fede ed essere catechista, senza abito. Inoltre, vissi il celibato fuori dal convento perché quando uscii non avevo nessuno, visto che per molto tempo non mi tolsi dal cuore quella ragazza. Non feci niente con lei. La rividi solo una volta, quando andai a messa delle religiose alla Cattedrale. Ci salutammo e non volle parlare con me. La sua paura è stata più forte, forse, dell’affetto e della passione che provava. La ricordai per molti anni.
“Quando conclusi i miei studi, nel 1986, entrai nella Corporazione Municipale dell’Educazione di San Bernardo. Iniziai a fare lezione nella Scuola F776 a bambini che venivano da un centro per minori. Quella scuola oggi è la Cardenal Samoré, dove lavoro ancora. Mi dedicai ai bambini, alla loro povertà, alle loro necessità. Le mie colleghe ed i procuratori mi sostennero molto perché ho sempre detto ai bambini che si deve andare avanti con la verità. E le mamme mi dicevano – Non ci aspettavamo di meno da Lei, che ci ha messo la faccia e ha difeso la verità -.
Se continuo a lavorare lì è per il sostegno dei procuratori, dei colleghi, della direttrice, dell’ex sindaco di San Bernardo, Orfelina Bustos, che conosceva mia madre, e del direttore dell’Educazione, che mi hanno dato l’incarico di ispettrice generale, poiché non potevo fare lezione di religione.”.
La proposta del Vescovo
Quando venne a sapere della morte dell’uomo che l’aveva privata della sua condizione di maestra, la professoressa Pavez provò pena. Quando si riferisce alle circostanze del suicidio del presbitero René Aguilera, accusato di abusi sessuali su un minore, abbassa la testa e un ciuffo della sua corta chioma bionda le nasconde gli occhi. Le sue parole trasmettono un dolore che sembra come genuino: “Lo psichiatra che offrirono a me, avrebbero potuto offrirlo a lui perché deve essere stato molto male”.
Non gli serba rancore, dice: “Da parte sua non ricevetti alcuna condanna, la ricevetti dal Vescovo”. Nell’ultima parte del racconto la professoressa affronta la proposta che le fece il Vescovo per assicurarsi il suo silenzio. L’unica cosa che il prelato si era assicurato era che Sandra Pavez rinunciasse a considerarsi cattolica.
“Il decreto emesso da Monica Madariaga durante la dittatura dà alla Chiesa la potestà per consegnare il certificato di idoneità [per abilitare i professori di religione] e quello che fece il vicario [Aguilera] fu abrogare il mio certificato, sospenderlo.
Il certificato si rinnovava ogni due anni. Bisogna portare la lettera di un sacerdote e quella del direttore della scuola, che garantiscono che sono conformi con me e che partecipo alla vita parrocchiale. Il vicario prese la decisione di sospendere il mio certificato perché io decisi di non lasciare la mia compagna. Quindi arrivai fino al Vescovo, che mi disse: “Lei deve rimanere in silenzio e quanto successo non si deve sapere. Non faccia scandalo. Se una professoressa di religione, che per di più è stata religiosa, dice di essere lesbica ci crolla il mondo addosso. Questa è opera di Satana”.
Il Vescovo mi condannò e mi disse qualcosa che mi fece molto male: “Lei non si incontrerà mai con sua madre in cielo, perché è lesbica”.
Mi ha toccato quello che si ha di più sacro: la madre. Lì mi resi conto che era abbastanza. Sapevo che mi avrebbero tolto il diritto a esercitare. Non sapevo a chi avvicinarmi. Cercai in Internet e trovai il Movilh [Movimento di Integrazione e Liberazione Omosessuale]. Mi avvicinai a Rolando Jiménez [Presidente del Movilh], che mi accolse molto bene e mi accompagnò a parlare con il Vescovo. Ma fu peggio. Mi disse che mi negava il diritto di parlare di Dio e di predicare la fede. Nel frattempo, il vicario mi diceva: “Bene, le do questa settimana [per separarsi dalla sua compagna], altrimenti abrogherò il suo certificato” .
Il Vescovo propose di pagarmi gli studi per diventare professoressa di scuola elementare di qualunque materia volessi, basta che non fosse religione, se rinunciavo ad avviare un’azione giudiziaria. Mi portarono a casa del Vescovo, in seminario.
Mi mise in mano un foglio scritto [con la proposta] e mi disse che dovevo già firmarlo perché non voleva che il mio avvocato [Alfredo Morgado] lo vedesse. Io lo consegnai all’avvocato. Il Vescovo mandò a casa mia un sacerdote che già conoscevo a chiedermi se volevo soldi. Gli dissi che avevo dei principii e che non volevo soldi, bensì difendere il mio diritto davanti ad una gerarchia della Chiesa che già mi aveva discriminato e che mi discriminava di nuovo.
“Sebbene, come risultato di questa crisi, alla fine la relazione con la mia compagna finì, dal momento in cui riconobbi pubblicamente ciò che ero, mi sono sentita l’essere più libero sulla terra. Adesso, quando sono venuta a sapere del suicidio di padre René Aguilera e dell’accusa di abuso contro di lui, ho provato pena. È drammatico. Credo in Dio e nell’aldilà e l’anima di una persona che si suicida non finisce molto bene.
Lo psichiatra che offrirono a me avrebbero potuto offrirlo a lui perché deve essere stato molto male se si è tolto la vita pur essendo sacerdote. Questo la dice lunga sul sostegno della gerarchia alle persone quando stanno male, quando hanno delle colpe. Come deve essere stata la sua anima per essere arrivato a questo? Adesso capisco perché mi disse – “Vada e dopo si confessi” -. Penso gli pesasse molto il suo incarico. Non si dimentichi che Pilato mandò ad uccidere Gesù per il peso dell’incarico.
Quando mi dava l’ultimatum per lasciare la mia compagna, vedevo anche nei suoi occhi che non era ciò che avrebbe voluto fare, che dietro di lui c’era un Vescovo che gli faceva pressione. Credo che per questo motivo mi disse, in fondo, – Salvi le apparenze -.
Non ricevetti alcuna condanna da parte sua, la ricevetti da parte del Vescovo. Non ho mai saputo di comportamenti impropri da parte sua. Ciò che so è che quando presentai il ricorso, gli tolsero l’incarico di vicario. Oggi prego Dio per la sua anima, perché deve essere stato un cattolico con una pressione molto grande: approfittare di un bambino è patologico.
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Testo originale: El testimonio de la ex monja obligada a dejar los hábitos tras asumir su lesbianismo