Le risposte alle domande del Sinodo dei cristiani omosessuali de Il Guado
Le risposte alle domande del Sinodo del Il Guado, gruppo di cristiani omosessuali di Milano
Il nostro, Il Guado, è un gruppo di omosessuali credenti che opera a Milano dal 1980. Nei trentacinque anni di esperienza che abbiamo sulle spalle abbiamo capito che noi omosessuali credenti siamo colpevoli di non aver aiutato la chiesa a “comprendere” la nostra omosessualità: vivendola nell’ipocrisia e evitando, quasi sempre, di condividerla all’interno delle comunità cristiane di cui facciamo parte.
L’invito alla “parresia” che papa Franceso ha fatto in occasione dell’apertura del sinodo dello scorso anno ci spinge a dare un contributo (alle domande poste dal Sinodo dei Vescovi) che parta dalla nostra esperienza. Ci siamo limitati a rispondere alle domande n. 8, n. 20, n. 38 e n. 40.
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8. Quali valori del matrimonio e della famiglia vedono realizzati nella loro vita i giovani e i coniugi? E in quale forma? Ci sono valori che possono essere messi in luce? (cf. n. 13) Quali le dimensioni di peccato da evitare e superare?
Il testo da cui si dovrebbe partire è il punto 49 della Gaudium et Spes riportato di seguito.
“Anche molti nostri contemporanei annettono un grande valore al vero amore tra marito e moglie, che si manifesta in espressioni diverse a seconda dei sani costumi dei popoli e dei tempi. Proprio perché atto eminentemente umano, essendo diretto da persona a persona con un sentimento che nasce dalla volontà, quell’amore abbraccia il bene di tutta la persona; perciò ha la possibilità di arricchire di particolare dignità le espressioni del corpo e della vita psichica e di nobilitarle come elementi e segni speciali dell’amicizia coniugale.
Il Signore si è degnato di sanare, perfezionare ed elevare questo amore con uno speciale dono di grazia e carità. Un tale amore, unendo assieme valori umani e divini, conduce gli sposi al libero e mutuo dono di se stessi, che si esprime mediante sentimenti e gesti di tenerezza e pervade tutta quanta la vita dei coniugi (116) anzi, diventa più perfetto e cresce proprio mediante il generoso suo esercizio. È ben superiore, perciò, alla pura attrattiva erotica che, egoisticamente coltivata, presto e miseramente svanisce“.
Come si vede, viene affermato con grande forza il valore della mutua donazione che si stabilisce tra due persone all’interno di una coppia e questo valore viene affermato indipendentemente dalla possibilità che la coppia ha di procreare o meno. L’esperienza di molti cattolici che vivono delle relazioni di coppia ci dice che dove c’è una relazione di amore aperta al servizio e caratterizzata dal rispetto, dalla fedeltà, dall’impegno e dalla responsabilità non c’è motivo di considerare i momenti di intimità sessuale, che sono parte integrante di quel rapporto, come qualcosa di disordinato. Piuttosto essi rispettano un ‘ordine diverso’ (ma non negativo), proprio della condizione esistenziale delle due persone che decidono (conformemente alla loro situazione) di formare una coppia e di vivere un rapporto di donazione reciproca.
Il valore della fecondità, che lo stesso documento del Concilio sottolinea con forza, va depurato dalle ambiguità e dalle restrizioni ideologiche con cui è spesso proposto. Nella storia della spiritualità cristiana, la fecondità non coincide con la sola procreazione e le affermazioni di chi sostiene che l’immagine di Dio nell’uomo si realizza solo nella coppia eterosessuale che procrea crea dei cortocircuiti logici che rendono indifendibili altri stati di vita cristiani che non possono sfociare nella procreazione.
Occorre quindi superare tutte le argomentazioni che fanno della procreazione un idolo senza il quale perde qualunque significato cristiano una relazione di coppia e si deve invece sottolineare il reale significato che ha la virtù della castità in una coppia
cristiana. Vivere con castità una relazione d’amore significa mettere la sessualità al servizio del bene e dell’amore, vivendo nella coppia quella mutua donazione, quella fedeltà, quella responsabilità e quella fecondità (intesa nel suo significato più ampio di un rapporto che non diventa una “solitudine a due” ma che si apre al servizio e all’accoglienza dell’altro).
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20. Come aiutare a capire che nessuno è escluso dalla misericordia di Dio e come esprimere questa verità nell’azione pastorale della Chiesa verso le famiglie, in particolare quelle ferite e fragili? (cf. n. 28)
Fondamentale è l’acceso all’Eucarestia che, quando viviamo una ferita o una situazione di fragilità, secondo la Chiesa, è la vera medicina che ci aiuta a percorrere il retto cammino. Citando Sant’Ambrogio, il Catechismo della Chiesa cattolica, al punto 1393, si esprime così: “Ogni volta che lo riceviamo, annunziamo la morte del Signore. Se annunziamo la morte, annunziamo la remissione dei peccati. Se, ogni volta che il suo sangue viene sparso, viene sparso per la remissione dei peccati, devo riceverlo sempre, perché sempre mi rimetta i peccati. Io che pecco sempre, devo sempre disporre della medicina”.
Per quanto un’azione pastorale possa essere efficace e “vicina” alle persone che vivono in situazione irregolare (come i divorziati risposati) resta l’enorme contraddizione per cui tali persone sono escluse dall’incontro sacramentale più intimo con Dio, cioè l’Eucaristia che, per Ambrogio, deve essere ricevuta “sempre”, perché è la medicina che rimette i nostri peccati. Davvero la situazione che si viene a creare è paradossale, perché la misericordia di Dio viene negata nell’atto supremo del suo dono, dimenticando che è Cristo stesso ad aver affermato: “Prendetene e mangiatene tutti”. Se il centro della vita cristiana è l’Eucarestia come si può sentire un cristiano che ne viene allontanato? Si sentirà rifiutato da Dio e rischierà di allontanarsi in maniera definitiva dalla Chiesa.
Riguardo all’Eucaristia, dunque, sarebbe opportuno non dimenticare mai il suo essere una medicina che ci è stata donata in maniera gratuita perché agisca dentro di noi in maniera efficace. Tutto sta nel decidere se l’Eucaristia debba essere la manifestazione di una coerenza di vita morale e di fede (perché il fedele partecipa al sacrificio di Cristo con il sacrificio della sua vita) oppure ciò che accompagna il fedele verso quella coerenza e gli dà la forza per raggiungerla. A ben vedere, infatti, la nostra vita cristiana è sempre imperfetta, ed è solo per la Grazia di Dio che può avvicinarsi alla perfezione. Una persona che dimostra di possedere la fede, la speranza e la carità – per esempio con una caritatevole partecipazione alle attività della comunità cristiana – anche quando si trova in una situazione che è oggettivamente materia grave di peccato, non è detto che non sia in comunione con la chiesa stessa. Sono centinaia le esortazioni del magistero in cui si invitano le persone che vivono una situazione di difficoltà a non troncare i rapporti con la comunità ecclesiale, se non ci fosse nessuna relazione che senso avrebbero queste esortazioni?
Ma se c’è comunione con la chiesa (anche se ferita da situazioni che la chiesa non può approvare), perché negare al fedele l’accesso all’Eucarestia che è sempre stata indicata come una sorgente di grazia che guarisce le ferite della nostra anima? Come non ricordare qui le parole di papa Francesco: Noi arriviamo spesso alla Messa con le nostre preoccupazioni, le nostre difficoltà e delusioni. La vita a volte ci ferisce e noi ce ne andiamo tristi. Ricordatelo bene! Quando sei triste, quando sei giù, vai alla Messa della domenica a fare la Comunione. L’Eucaristia non è un premio per i perfetti e i puri ma una medicina per i malati e un alimento per i deboli”.
Ed è la liturgia stessa che ci ricorda questo, quando, poco prima della comunione eucaristica, affida al celebrante questa preghiera: “Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli: ‘Vi lascio la pace, vi do la mia pace’ non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa”. Di fronte al dono della grazia sacramentale siamo tutti peccatori ed è solo in ragione della fede della chiesa che diventiamo degni di riceverli. Non permettere la comunione eucaristica a una persona che con la sua vita sacramentale dimostra di essere in comunione con la chiesa, solo perché vive in una situazione in cui si manifesta un disordine morale, significa non fidarsi fino in fondo della grazia di Dio. Ed è proprio nella condivisione con tutti (anche con i peccatori) dell’evento culmine della vita spirituale della comunità cristiana (l’Eucaristia) che la Chiesa può rendere manifesta la sua vocazione alla comunione «con tutto il genere umano», il suo essere davvero “cattolica”, il suo essere «segno e strumento» dell’intima unione con Dio (Lumen Gentium, n.1). Ammettere al sacramento le persone ferite che vivono una situazione di fragilità, quindi, non contraddice l’amore tra Cristo e la Chiesa, ma anzi lo rende più visibile, perché lo rende manifesto come amore di Cristo che è stato mandato per annunciare ai poveri la lieta novella, per proclamare la liberazione dei prigionieri, per ridare la vista ai ciechi, per rimettere in libertà gli oppressi e per predicare la grazia del Signore (Lc 4,18).
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38. La pastorale sacramentale nei riguardi dei divorziati risposati necessita di un ulteriore approfondimento, valutando anche la prassi ortodossa e tenendo presente «la distinzione tra situazione oggettiva di peccato e circostanze attenuanti» (n. 52). Quali le prospettive in cui muoversi? Quali i passi possibili? Quali suggerimenti per ovviare a forme di impedimenti non dovute o non necessarie?
La domanda da porsi, in questo caso, è una sola: “Conta di più il Codice di Diritto canonico o conta di più la Scrittura con l’invito pressante a lasciar agire lo Spirito di Dio che, come dice Pietro nella casa del centurione Cornelio: “non fa preferenze di persone” (At 10,34). Anche le parole che spesso vengono citate per sostenere che Gesù stesso abbia affidato alla chiesa il compito di difendere in tutti i modi l’indissolubilità del matrimonio, si applicano a una situazione completamente diversa da quella in cui si trova una persona divorziata che vive un secondo matrimonio. I farisei che si rivolgono a Gesù gli chiedono se sia giusta la legge mosaica che permette al marito di ripudiare la moglie: un atto di violenza in cui qualcuno impone, in nome dei suoi privilegi, le sue decisioni a qualcun altro, senza curarsi della sua volontà.
La risposta di Gesù è molto chiara, ma può essere applicata a una situazione completamente diversa come quella che vivono le persone che, al giorno d’oggi, divorziano? Comprese all’interno del contesto in cui si collocano, le parole di Gesù (Mc 10,2-12) sono un invito a superare la legge (il diritto canonico) e a seguire l’annuncio cristiano (la libertà dei figli di Dio). E quel “non osi separare l’uomo ciò che Dio ha unito” c’è un ammonimento pesante a quanti, in nome di norme giuridiche puramente umane, pretendono di separare due persone che si amano di un amore vero.
E due persone che, dopo un primo matrimonio, decidono di intraprendere con serietà una nuova relazione basata sul rispetto, sulla responsabilità, sulla fedeltà e aperta al servizio, non sono persone che si amano di un amore vero? Con che autorità un uomo può pretendere di rompere la loro relazione in nome di un diritto canonico rigido e incapace di superare gli errori che ciascuno può commettere?
Si tratta in sostanza di accogliere ciò che di buono c’è nelle nuove nozze, incoraggiando i coniugi a viverle in un’ottica evangelica, aiutandoli, nello stesso tempo, a compiere un adeguato percorso penitenziale che li porti a confessare gli errori che hanno portato allo scioglimento del precedente matrimonio e a sanare le eventuali situazioni di conflitto ancora presenti.
Crea scandalo agli occhi dei fedeli la prassi di ammettere al sacramento del matrimonio chi ha alle spalle un matrimonio civile con cui ha chiuso senza magari farsi carico delle responsabilità che quel matrimonio comporta, mentre nello stesso tempo si esclude da quello stesso sacramento chi dimostra di essersi pentito degli errori commessi in passato, facendo di tutto per sanare le ferite che hanno creato.
Per superare questo scandalo si potrebbe riconoscere la possibilità di celebrare delle seconde nozze dopo un adeguato percorso penitenziale, riprendendo la prassi in uso nelle chiese ortodosse.
Pur affermando la verità dell’indissolubilità, definita anche nella Gaudium et Spes (n.48) e mai messa in discussione da alcun padre sinodale, si possono quindi cercare delle strade che permettano di non allontanare dalla chiesa chi vive un secondo matrimonio. E’ vero che, così facendo, si abbandona la mistica nuziale che spesso viene richiamata nella celebrazione del matrimonio, ma quella stessa mistica viene richiamata quando con l’ordine si accede al sacerdozio ministeriale e in quel caso, viene tranquillamente sciolta quando il sacerdote è ridotto allo stato laicale. Nell’antichità quella stessa mistica era richiamata durante la consacrazione episcopale (il vescovo sposava la sua chiesa e con lei si impegnava in un legame che era indissolubile), ma anche in quel caso, con il tempo, le norme sono cambiate e un processo come quello a cui fu sottoposto il cadavere di papa Formoso (reo di aver accettato la cattedra romana pur essendo lui già impegnato a Ravenna da quello che allora veniva considerato un vincolo nuziale indissolubile tra il vescovo e la sua chiesa).
D’altra parte la stessa teologia che sta dietro al sacramento del matrimonio apre grandi possibilità: la celebrazione del consenso non implica infatti la validità automatica, ma è un atto necessario che apre la strada a quella dimensione in fieri che si realizza nella vita matrimoniale, una dimensione che diventa perfetta solo al termine della vita terrena, quando la coppia ha portato a termine il suo munus, la sua promessa. Prima di quel termine il matrimonio non è mai perfetto e quindi, possono presentarsi delle situazioni che lo rendono nullo (nella tradizione ortodossa, ad esempio, una mancanza di fedeltà rende nullo in matrimonio).
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40. Come la comunità cristiana rivolge la sua attenzione pastorale alle famiglie che hanno al loro interno persone con tendenza omosessuale? Evitando ogni ingiusta discriminazione, in che modo prendersi cura delle persone in tali situazioni alla luce del Vangelo? Come proporre loro le esigenze della volontà di Dio sulla loro situazione?
Sul tema dell’omosessualità esiste nella chiesa una distanza grave tra la dottrina così come è enunciata nei documenti del magistero e la prassi di moltissime comunità. Questa distanza ha implicazioni molto gravi sia sulla vita delle persone omosessuali che nella vita delle loro famiglie.
La dottrina enunciata dalla chiesa negli ultimi decenni del XX secolo, riassunta in maniera sintetica dal Catechismo della Chiesa cattolica, sostiene che la condizione omosessuale non è di per sé una colpa e che le persone omosessuali vanno accolte con “rispetto, compassione e delicatezza” (CCC 2358). Tale dottrina afferma che le persone omosessuali “sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita” (CCC 2358), che sono “chiamate alla castità” (CCC 2359) e che “possono e debbono avvicinarsi alla perfezione cristiana” (CCC 2359) attraverso un percorso i cui ingredienti sono la gradualità, la decisione, un’intensa vita di preghiera, la grazia sacramentale e dei rapporti di amicizia capaci di supportare la persona omosessuale nel suo percorso. Altrove si incoraggiano i vescovi “a promuovere, nella loro diocesi, una pastorale verso le persone omosessuali” (Homosexualitatis Problema, 15) nella certezza (che deriva dall’universalità dell’annuncio cristiano, che non è cattolico se esclude apriori alcuni gruppi di persone indipendentemente dalla loro volontà) che anche le persone omosessuali sono chiamate alla santità.
E la necessità di un’azione pastorale specifica verso le persone omosessuali emerge proprio da quanto il magistero stesso dice: la castità, quali che siano le modalità con cui si realizza nella vita di ciascuno, presuppone una solida maturità affettiva. Quali sono i percorsi con cui la chiesa accompagna le persone omosessuali verso la maturità affettiva?
Quando si afferma che l’inclinazione omosessuale, pur non costituendo in se stessa un peccato (HP 3) è “oggettivamente disordinata” (CCC 2358), anche se si usa un linguaggio che desta qualche perplessità, si riconoscono comunque le difficoltà maggiori che le persone omosessuali incontrano nel realizzare la volontà di Dio nella loro vita. Questa osservazione dovrebbe impegnare la chiesa a seguire con particolare attenzione le persone omosessuali, approfondendo le conoscenze a cui sono approdate le scienze umane e cercando, appoggiandosi a quelle conoscenze, gli strumenti più adatti per aiutare le persone omosessuali a vivere il Vangelo.
E invece cosa succede? Che l’omosessualità nelle nostre comunità è quasi sempre un tabù, che una persona che condivide, all’interno della comunità cristiana la propria omosessualità, viene quasi sempre emarginata e allontanata, che nel tentativo di ostacolare il percorso di riconoscimento e di valorizzazione delle relazioni omosessuali che molti Stati portano avanti si usano espressioni, nei confronti delle persone omosessuali, che non sono affatto delicate e rispettose.
Invece di affrontare il tema dell’omosessualità con “studio attento, impegno concreto e riflessione onesta” (HP 2), si dà spazio a gruppi di ciarlatani che, contro qualunque evidenza scientifica, elaborano le ipotesi più strampalate sull’origine dell’omosessualità, confondono l’orientamento sessuale (che ha a che fare con l’omosessualità) con l’identità di genere (che riguarda invece la transessualità e con l’omosessualità non ha niente a che fare), parlano di possibili terapie riparative dell’omosessualità (che quando non sono inutili sono addirittura dannose, con effetti gravi sull’equilibrio psichico di chi le subisce che in alcuni casi hanno portato addirittura al suicidio) e si inventano “ideologie del gender” che nessun autore serio definirebbe tali.
Dietro a questo atteggiamento c’è una sostanziale sfiducia nell’azione della grazia di Dio che si ritiene incapace di ricavare dalla vita delle persone omosessuali dei percorsi concreti verso la santità. A pensarci bene si tratta di un peccato grave di cui si macchiano molte comunità ecclesiali e molti pastori che sono chiamati a guidarle. Un peccato che nasce da un sentimento di paura che condiziona l’atteggiamento di tutta la chiesa quando si parla di omosessualità.
I genitori delle persone omosessuali vengono lasciati da soli e spesso vengono accusati (contro ogni evidenza scientifica) di essere causa dell’omosessualità dei figli. Nessun gruppo di supporto, nessuna pastorale specifica, nessun cammino di accompagnamento specifico viene previsto per loro.
I mariti e le mogli delle persone omosessuali, dopo essere stati spesso la vittima di tentativi di riconversione in senso eterosessuale della vita del loro coniuge, non vengono aiutati in alcun modo a salvare comunque un matrimonio che, per loro, rappresenta tantissimo.
I figli delle persone omosessuali, contro la prassi millenaria della chiesa, che ha sempre accolto le persone, indipendentemente dalle loro origini, si vedono talvolta rifiutati i sacramenti e vengono guardati con sospetto nelle parrocchie, negli oratori e, più in generale, nelle strutture educative gestite da enti ecclesiastici.
Gli omosessuali vengono spinti a vivere nell’ipocrisia la loro condizione, dimenticandosi che, nel Vangelo, mentre non parla mai di omosessualità, Gesù parla molto spesso di ipocrisia, condannandola sempre con grande decisione. Quale sequela di Gesù può essere vissuta se si viene spinti a vivere nell’ipocrisia il proprio orientamento sessuale?
La chiesa, se davvero intende prendere sul serio quanto il suo magistero ha affermato sull’omosessualità, deve innanzi tutto superare la paura e incoraggiare le persone omosessuali che ci sono al suo interno, perché offrano ai fratelli la loro esperienza, condividano le loro difficoltà, mettano a disposizione le loro capacità.
Si tratta di aiutare le persone omosessuali a iniziare quel percorso che, partendo dall’accettazione di sé, attraverso una sana autostima (che sola può fornire le energie per iniziare un cambiamento importante nella propria vita), con il supporto e la vicinanza della comunità e di chi vive nei loro confronti un’autentica amicizia, pregando regolarmente e accostandosi ai sacramenti, decide di fare proprio quell’invito alla castità che la chiesa rivolge a tutti i credenti, non solo agli omosessuali.