I gruppi di gay cristiani, le chiese e le Veglie per “riconoscersi creature di Dio”
Articolo di Fabrizio Oppo tratto da Riforma del 15 maggio 2009
Gli incontri, le veglie di preghiera e le celebrazioni, organizzati da gruppi di cristiani in occasione della Giornata mondiale contro l’omofobia (17 maggio), sono un segno positivo di speranza e di profezia.
Sono momenti in cui si respira la gioia della fede in un Dio che «sconfina» e abbatte argini consolidati d’incomprensione.
Allarga il petto, sentire ancora quel che abbiamo provato quando abbiamo accettato di diventare credenti e di seguire le strade aperte da una notizia nuova.
La testimonianza di chiese e di gruppi ecclesiali che accolgono le persone omosessuali al loro interno, e lo fanno con gioia, è davvero un forte momento di evangelizzazione, che rafforza la nostra fede, la riporta al desiderio del coraggio dello spirito, sempre necessario quando dobbiamo testimoniare l’amore.
Accogliamo il messaggio di questi gruppi di credenti con gratitudine. Certo, il fatto che esista una Giornata di lotta contro l’omofobia significa che purtroppo dobbiamo ancora parlarne perché dobbiamo ancora combatterla. Perciò vorrei richiamare l’attenzione sui preoccupanti sentimenti di omofobia ancora presenti in ambito cristiano.
Perché in questo caso chi esprime la volontà di esclusione e del non riconoscimento di fratelli e sorelle omosessuali, crede, anche in buona fede, di rendere onore a Dio. Convinzione che è spia dei crampi religiosi che con i loro affanni impediscono la libera crescita di una fede serena, responsabile e matura.
Perché tanta accigliata preoccupazione di fronte all’omosessualità? Perché l’automatico avvicinamento dell’omosessualità alla violenza, al disordine morale, all’impoverimento dei rapporti umani?
Perché la difficoltà a riconoscere nelle espressioni dell’omosessualità gesti liberi e gioiosi che arricchiscono di senso i legami umani, che creano e fanno maturare vincoli nella bellezza, promesse di vicinanza, aiuto reciproco e comprensione? Perché la paura di questa libertà?
Indubbiamente questa paura ha motivazioni antropologiche e psicologiche nel timore del diverso e nella ricerca di un’identità stabile. Ma a noi evangelici spetta il compito di interrogarci sul fatto che la nostra Bibbia è usata per giustificare queste paure. Il problema è vasto, e qui può essere solo riassunto accettando il rischio della semplificazione.
La Bibbia contiene messaggi profetici di liberazione e di speranza. E contiene anche una grande costruzione del sacro, del divino come potenza alta, del mondo di simboli profondi e misteriosi che possono dare un significato intenso ai momenti della nostra vita.
La sessualità, assieme ad altri momenti forti dell’esistenza come la nascita e la morte, ha un enorme valore simbolico. Apre a misteri e a veri abissi per la comprensione. Nel suo aspetto misterioso e sacrale la sessualità richiede premure e attenzioni, ma anche controlli e divieti come la separazione tra puro e impuro e le conseguenti minacce.
Il sacro ha un fascino indubitabile. Si può anche essere d’accordo con chi lo interpreta come l’essenza del fenomeno religioso. Purtroppo, però, sembra c’entrare poco con il vangelo. I segni di vita nuova che i vangeli ci presentano stupiscono e aprono il cuore perché chiedono una fuoriuscita dal mondo del sacro e dai suoi recinti di separazione tra puro e impuro.
Le parole sacrali sono: identità, conservazione di sé; le parole del messaggio evangelico sono: farsi prossimo, dono di sé fino alla perdita della propria vita. Grande è il fascino del sacro, ma con tutto il suo fascino e le sue sublimi altezze esso non ci dice com’è fatto Dio, ma come siamo fatti noi.
I desideri di purezza e d’identità sono tutti nostri. Non credo che Dio abbia bisogno di sicurezze cintate o di un’identità forte. Nemmeno credo che la sua rivelazione debba assumere necessariamente le forme di una mistica indicibile. A noi è stata data una Parola. Non è diverso?
Le prescrizioni bibliche che riguardano la sessualità possono essere comprese e giustificate da quell’orizzonte di sacralità con i suoi meccanismi d’identità, conservazione ed esclusione. Come facciamo a dire con sicurezza che sono parola di Dio? Che si voglia far passare per parola di Dio quel che è frutto dei nostri pur sublimi bisogni di santità è già un fatto preoccupante.
Che si usi questa «santità» per ferire ed escludere il nostro prossimo è intollerabile. E uno spirito profetico dovrebbe fremere quando per onorare prescrizioni religiose dall’origine divina quantomeno dubbia e problematica ci si dimentica quel che è fortissimo, indubbio e non problematico nell’annuncio evangelico: l’amore, la vicinanza e la solidarietà.
È quindi un impegno molto ampio quello che i gruppi di credenti e le chiese che ricordavo all’inizio si sono assunti. È un serio lavoro di evangelizzazione che lottando contro la discriminazione degli omosessuali, e individuandone i legami con molto pensiero religioso, rendono testimonianza a qualcosa che nel cristianesimo è primo ed essenziale.
Il compito dei cristiani in questa specifica circostanza è di indicare che, purtroppo, la tensione verso l’identità religiosa fa da sfondo e sostiene il bisogno d’identità sessuale.
E qui identità significa proprio ciò che è identico, privo di differenze. Se invece che al Dio altissimo, frutto di aspirazioni religiose troppo umane, si guardasse al Dio di Gesù Cristo, a quel Gesù finito sulla croce dopo aver attraversato i margini del suo mondo e della sua cultura, non si farebbe un’operazione riduzionista, ma si accoglierebbe un dato profondo della rivelazione: la parola di un Dio che ci rivela che siamo creature, e che la nostra dispersione nel mondo è un evento fecondo.
Ci insegna la fedeltà alla terra, a questa vita e alle sue innumerevoli e diverse manifestazioni. Quest’accettazione della creaturalità è indispensabile per il sentimento di filiazione per cui chiamiamo il nostro Dio non «Mistero altissimo» ma Padre.