Mio figlio è gay. Sarò custode del suo segreto (finché lui lo vorrà)
Riflessioni di M.*, semplicemente una madre
Stamattina quando ho aperto Gionata ho visto che il mio primo intervento è stato pubblicato con il mio nome. Innocenzo me l’aveva detto che lo avrebbe pubblicato oggi. Giorno di Pasqua. Giorno delle pietre che rotolano. La cosa mi ha fatto piacere. L’ho scritto per questo, no? Ma vederlo con il mio nome in chiaro mi ha fatto l’effetto di un pugno nello stomaco. Non per me. No. Ma per lui. Per mio figlio.
In quei giorni, in quelle sere di sette mesi fa, quando ce lo disse, gli chiesi se lo sapesse qualcun altro. E lui mi disse di sì. Mi fece il nome di due sue amiche. E basta. Poi magari le amiche lo avranno detto ad altri, ma è affare suo. Quando gli chiesi se potevo parlarne con altri, mi disse di no, che lo avrebbe fatto lui, a sua decisione. Gli dissi che aveva ragione, e mi sarei impegnata per rispettare la sua volontà.
Poi ovviamente un macigno così ha bisogno di essere condiviso, perchè sono creatura anche io, con le mie fragilità. Ma ne parlai solo a due amici: la mia amica, e collega, più fidata, e l’altro, il mio amico che avrebbe potuto capire, per esperienza personale. Nessun altro, e tanto meno nonni, zii, cugini, o altri vicini di casa. Nessuno. Fin che lui lo vorrà.
Chiedo pertanto che il mio nome non appaia, e, se volete, scrivete pure “M.”, come mi firmavo anni fa, quando ho conosciuto Gionata.org, perchè c’è pur bisogno di riconoscere i fili per intessere trame e tessuti. Ma voglio continuare la narrazione, che è anche il mio modo per capire: raccontare per trovare il filo, il senso. Raccontare per capire, e per pacificarsi. Raccontare per imparare. E, se possibile, per condividere.
L’altro giorno Marco mi è venuto incontro, e ho riconosciuto in lui, forse per la prima volta, le movenze degli omosessuali. Una parte di me gioì. Un’altra si trafisse. Il fatto che lui non ne parlasse più mi stava convincendo che non fosse vero. Che fosse stato davvero un film. Anche se so che no, non scherzava. Non so se voi gay vi guardate mai allo specchio, quando vi muovete e parlate. Avete delle movenze particolari, ai nostri occhi eterorientati. Non saprei neppure descriverle bene, le vostre movenze, ma le riconosco. Non sono i movimenti sguaiati che vengono riprodotti da attori eterosessuali, quando si vuole far ridere recitando un “finocchio”, no. Non sono quelli i gesti con cui io vi riconosco. Quelli nei film sono costruiti per estorcere risate. I vostri sono spontanei, e non capisco se siano magari geneticamente determinati, o se abbiano una componente di comunicabilità appresa per farvi riconoscere a noi e a voi. Quasi che madre natura volesse aiutarci e aiutarvi a non confonderci, a decodificare facilmente. È un modo di muovere la bocca e di camminare, quasi un modo diverso di coordinare i movimenti, tra gambe e braccia. Se vi controllate non lo fate, ma se vi lasciate andare, risulta evidente. Almeno ai miei occhi.
Fu per questi movimenti che avete voi, che riconobbi subito, dieci anni fa, in Marco il suo essere omosessuale. Ma poi mi ingannai, o lui mi ingannò.
Se vi controllate no, non lo fate. E Marco, mio figlio, si controlla. Di solito. Non so se si controlli coscientemente o inconsapevolmente e spontaneamente. Non conosco i percorsi delle sue riflessioni. Non me ne ha mai parlato. Ma vedo che si controlla.
E’ la prima cosa che ha imparato a fare nella vita, controllarsi. Lui.
Se fosse stato primogenito, credo che avrei definito l’allattamento come una disgrazia. Invece avevo l’esperienza del fratello che si abbandonava a riempirsi di latte, del mio latte, tra le mie braccia. E poi tutto faceva spontaneamente, lasciandosi andare alle questioni della vita, nei primi mesi della vita. Non aveva paura di mostrarsi? Non aveva bisogno di controllarsi?
Marco no. Lui no. Fin dai primi giorni di vita sentivo che era un altro figliolo. Mangiava “quel tanto” che gli bastava per rompere i morsi della fame, e poi si girava a guardare il mondo forse a tenere tutto sotto controllo? Aveva un mese e mezzo quando ha iniziato a sorridere ai volti, anzi, direi proprio a ridere ai volti delle persone. Ma soprattutto si controllava.
Capii subito, per istinto materno, che con lui sarebbe stato in qualche modo diverso. Che con lui i modi educativi dovevano essere diversi, e tenere conto che non dovevo incentivare quella sua tendenza all’autocontrollo. Che però era innata. Lo so che non c’entra nulla. Lo so. Sto parlando solo di mio figlio, e di come era da piccolo. Nulla di più.
Marco lo desiderammo almeno quando il fratello. Ci mise qualche mese per decidere di iniziare il suo cammino nel mondo. Io ero già un po’ in là negli anni, per l’epoca. E accettai di fare l’amniocentesi per trascorrere serenamente gli altri mesi prima di poterlo stringere tra le mani. Per cui il suo “XY” non aveva dubbi. Scientificamente testato, “Cariotipo normale, XY”. C’era scritto. E ne fui felice. “Peccato che non è una bambina”, mi dissero in molti. Ma per me no. Non mi importava. Mi andava benissimo qualsiasi versione dell’accoppiamento. Due maschi, due femmine, prima un maschio e poi una femmina, oppure prima la femmina e poi il maschio. Non mi interessava, con tutta me stessa sono sicura che non mi interessava.
Sarebbero stati due maschi, dunque. E mi piaceva l’idea dei due figli maschi che potessero essere anche amici, e li sognavo da grandi, uscire assieme, ed avviarsi alla vita imparando a sostenersi, a camminare almeno un poco anche assieme.
Sono sicura: nulla in me desiderava una femmina più di quanto desiderassi un maschio. Volevo un figlio, un altro figlio, affinché il primo non fosse l’unico. Ma che fosse femmina o maschio non mi importava. Amai quel “XY” che stava crescendo dentro di me, appena seppi che c’era. E anche prima. Ma, si sa, ogni persona è diversa. E così anche i miei due maschietti erano diversi sin da piccoli. Come qualunque altro fratello da suo fratello.
Marco è sempre stato molto attento a ciò che accadeva a se stesso e al suo corpo. Per controllarsi, si sa, si deve avere una visione completa di ciò che accade a se stessi innanzitutto.
Aveva due anni e mezzo quando iniziò a dire che “gli batteva il cuore”. Non si capiva che cosa significasse, per questo piccolo bimbo “Battere il cuore”. Per cui il pediatra mi consigliò di fargli fare un elettrocardiogramma, per escludere che ci fossero problemi. E i problemi furono esclusi. Era sano. Sanissimo. Semplicemente molto attento a se stesso. Imparava il suo corpo. Imparava dal suo corpo. Controllava il suo corpo. Aveva una sensibilità incredibile. E una capacità anche di controllare se stesso.
Qualcosa però gli sfuggiva: la sua pelle parlava per lui. Le sofferenze, lo stress gli uscivano attraverso la pelle. Tendeva alla pelle stressata. Dermatite atopica, disse lo specialista. Nessun problema particolare. Bastava tenerne conto.
E così feci. Iniziò con lui fin da molto piccolo una danza tra il potere e il non potere, dove fosse esclusa la possibilità che la sua tendenza al braccio di ferro lo vedesse vincitore impegnandosi in lunghe battaglie. Non doveva imparare che l’avrebbe vinta a forza di dai e dai, non volevo che mettesse in atto un controllo su se stesso “per vincere”, dove l’unico perdente sarebbe stato lui, e la sua serenità. Per cui, ad ogni sua richiesta di un qualche permesso, io sapevo che dovevo decidere in un nanosecondo se rispondere SI o NO. E se era SI, lo era subito. Se era NO, dovevo prepararmi ad una lotta lunghissima nella quale lui non doveva uscirne vincitore. Furono molti i SI, e pochi i NO, solo per le cose davvero importanti. Ma all’inizio fu capace di battaglie che avrebbero sfiancato chiunque. Riusciva ad insistere per ore ed ore. Con una tenacia ammirevole e rara.
La sua pelle tutt’ora è un canale di comunicazione, e si vedono alcune zone esprimersi con dolore, quando c’è qualcosa che non va. Ma sono piccole zone, più un sobrio segnale di disagio che un grido di dolore. C’entra? Non c’entra? Non lo so. Io ho cercato di fare il possibile per la sua serenità. Ho interpretato da subito che, oltre al significato strettamente dermatologico, per il quale mi sono rivolta ai medici addetti, c’era anche un significato in qualche modo “comunicativo” che proveniva dalla sua pelle: il controllo che lui faceva su di sé.
Su questo nel periodo della scuola elementare ci furono periodi tremendi. Ma lì non potevo proteggerlo. A casa sì. E facevo attenzione che ci fosse almeno un rifugio dalla sua necessità di controllare e di controllarsi. Almeno un luogo dove questo non fosse necessario, oppure fosse inutile. Anzi. Come madre so di aver cercato di sostenere i suoi tentativi di comunicare con parole e gesti, e non con sofferenza. E lui aveva sempre tanto da raccontare, da dire, al punto che da piccolino balbettava. Lo specialista disse che non c’erano problemi, semplicemente che i suoi pensieri correvano più veloci della sua abilità di parlare: i pensieri gli si inciampavano in bocca. Si sarebbe tutto risolto con il tempo, e così fu, mantenendo con lui la serenità necessaria e consueta.
Quindi avevo a che fare con un figlio molto attento a se stesso, con molta capacità di riflettere, di pensare, e con la tendenza a controllarsi, a non lasciarsi andare. Ma era anche un bambino dolcissimo, capace di tenerezza ed attenzione verso gli altri. Io lo chiamavo il “mio cioccolatino”, per la dolcezza che trasudava da tutto se stesso: dal sorriso, dalla voce, dai gesti. Mai violento, sempre disponibile e paziente. Ma grande osservatore, riflessivo, capace di capire sin da piccolo le regole del mondo. “Mamma, mi disse una volta, Sai che a casa di quell’amichetto comanda la nonna?”. “E tu come lo sai?”, gli chiesi. “Basta vedere come si comportano”, mi rispose.
Mi accorsi qualche anno dopo di quanta capacità di osservazione avesse. Quando mi separai da suo padre, lui mi descrisse per filo e per segno che cosa accadeva tra noi due, quali fossero i rapporti di potere tra di noi. Aveva otto anni. “Non aver più paura di papà”, mi disse, “adesso papà è piccolo così!”. Gli chiesi perchè mi dicesse queste cose, se pensava che io avessi paura di suo padre. “Oh, sì!, esclamò, “fai sempre tutto quello che vuole lui!”.
Compresi così quanto ero nuda. Nuda davanti ai figli. Siamo nudi davanti ai figli. Troppo spesso non ce ne rendiamo conto. Loro ci guardano, ci conoscono, sanno. Possiamo cercare di nascondere, ma non ci riusciamo. Se insistiamo a nasconderci, gli insegniamo la menzogna. Se ci scoprono nudi, tanto vale che ne parliamo, e li aiutiamo, aiutiamo loro e noi stessi, a dare parole a ciò che proviamo. A dare parole alle emozioni che viviamo.
Non so se Marco si sia accorto, l’altro giorno, della mia sorpresa nel vederlo muoversi come un omosessuale. Non ne ero abituata. Probabilmente lui si era sempre controllato. O forse io ero cieca. Chissà se si è accorto? Peccato che su questo argomento adesso lui abbia steso il silenzio. Spero un giorno di poterne parlare, per capire, per tenere il filo, la traccia del percorso.
Certo che deve essere una fatica, la sua!
Qualche giorno dopo.
Stasera è uscito. Non esce spesso. Ma stasera è uscito. Non mi ha detto con chi. E io non chiedo ai miei figli con chi escono. Escono così poco, che non voglio disincentivarli con i miei interrogatori, rendendo loro le cose difficili. Ma soprattutto li conosco, e so che sanno scegliersi le compagnie. Ma non posso esimermi di pensare con chi potrebbe essere in questo momento. Nulla di male. Ma vorrei saperlo. Ma so anche che non lo saprò, e non glielo chiederò.
Parlando con un parente, oggi, gli dicevo che qualche volta lui va a scuola in macchina. “Eh, già!, risponde il parente, “ Per farsi bello con le ragazzine. A quell’età lì è tipico”. “Già. E’ così.”, ho risposto. Con le ragazzine. Come si può spiegare? Ma poi, ha senso spiegare?
Sapete che vi dico? Sono anche io vittima dell’omofobia, perchè mi sento impedita nel condividere le mie gioie di madre con amici e parenti. Per ora non posso dire nulla a nessuno. Marco mi ha chiesto di non dire. E io non dico, e non dirò. Sarò custode del suo segreto, fin che lui lo vorrà. Ma speriamo che non lo voglia troppo a lungo. Perchè non è giusto, tacere l’amore.
.
* Conosco Gionata.org ormai da anni. È stato il luogo che più ho frequentato in internet per cercare di capire un’altra vicenda fondamentale nella mia vita. Qui ho conosciuto persone molto belle. E ho avuto modo di conoscere di persona anche i webmaster.
Giorni fa, parlando con Innocenzo, gli ho detto che mi piacerebbe scrivere di queste mie vicende su Gionata, ma che non so neppure da dove cominciare, tanto è un groviglio, che non è facile dipanare.
“Fallo a puntate”, mi ha risposto. E allora, se volete, questa può essere una puntata, un po’ diario, un po’ ricordo. Un racconto in itinere. Che un po’ va avanti, e un po’ torna indietro, per cercare di capire, e trovare il filo di una vicenda normale, perchè normale è innamorarsi e amare, anche se l’orientamento non è quello normalmente considerato normale.
Non ho idea di come andrà a finire, perchè si sta ancora svolgendo. E io non ho ancora compreso tutto. Anzi, a volte mi pare di non aver capito niente.