Un uomo come Dio comanda. Scoprirsi gay nell’Opus Dei
Lettera-testimonianza di Fernando pubblicata sul sito Dosmanzanas (Spagna) il 18 aprile 2009, liberamente tradotta da Dino
Dio era una presenza costante nel focolare nel quale ho passato la mia infanzia e l’adolescenza. Sono cresciuto molto isolato dalla società. Tutte le attività extrascolastiche alle quali ho partecipato erano organizzate da gruppi collegati all’Opus Dei. Noi bambini non potevamo guardare la televisione e nemmeno giocare con videogiochi.
A molti potrà sembrare molto inconsueto, ma siccome quasi tutti i bambini con i quali avevo relazione vivevano nelle medesime condizioni, a me sembrava normale.
A partire dall’età di otto anni mio cugino Jesus ed io iniziammo ad andare ad un campo estivo organizzato dall’Opus. Mio cugino era il mio miglior amico e, per entrambi, il campo era uno dei momenti più attesi dell’anno. A 13 anni mio cugino ed io iniziammo a masturbarci insieme. Tutti e due ci sentivamo colpevoli e dicevamo che non lo avremmo più fatto, ma abbiamo continuato a farci seghe tutte le notti.
Cinque giorni prima che terminasse il campo mio padre e mio zio vennero a riprenderci. Non sapevo che cos’era successo, ma vedendo la faccia di mio padre mi resi conto che si trattava di qualcosa di grave. Non scorderò mai la freddezza di mio padre mentre mi diceva “Raccogli le tue cose che andiamo”. Io gli chiesi preoccupato se fosse successo qualcosa ed egli mi rispose: “Lo saprai tu se hai fatto qualcosa di male”.
Mi raggelai. Entrai con mio cugino nella tenda per raccogliere le nostre cose e lui mi disse che aveva confessato ad uno dei sacerdoti quello che avevamo fatto. Il mondo mi crollò addosso.. Mi messi a piangere come non avevo fatto mai. Non riuscivo a controllarmi e mi feci anche la pipì addosso.
Vedendomi in questo stato di disperazione mio cugino uscì a cercare mio padre. Quando mio padre entrò nella tenda io stavo gettato a terra e piangevo. Mio padre con tono serio mi disse di alzarmi. Così mi sono alzai piangendo e chiedendogli perdono. Lui mi disse di smettere di piangere e che avremmo parlato una volta a casa.
Ero distrutto e subito dopo esser salito sull’auto mi addormentai. Tornando a casa, appena aperta la porta, vidi mia madre che ci stava aspettando. Vedendola scoppiai in pianto e le chiesi perdono per quello che avevo fatto. Mia madre mi abbracciò e mi disse cose affettuose per cercare di consolarmi. Mio padre interruppe questo abbraccio con mia madre pronunciando una frase che non scorderò mai: “Continua a trattarlo così e ne uscirà finocchio come tuo fratello”. Mi raggelai. Mio padre mi ordinò di andare a letto e mi disse che avevamo già detto tutto. Andai a letto e l’unica cosa che riuscivo a pensare era che mio zio Miguel, che in tutta la mia vita avevo visto solo un paio di volte, era un finocchio.
Benché a quell’epoca della mia vita non avessi in alcun modo saputo di essere omosessuale, mi sono immediatamente identificato con mio zio Miguel. La rivelazione dell’omosessualità di mio zio risvegliò in me una grande curiosità riguardo a questo parente che viveva in Inghilterra e del quale nella nostra famiglia si evitava di parlare.
Trascorsi quasi tutta la notte pensando a lui e riuscii a dormire solo molto tardi. In quella notte non potevo immaginare come sarei stato male nei successivi quattro anni e come sarebbe stato importante nella mia vita mio zio Miguel. Il mattino seguente stavo da cani. Non avevo dormito quasi niente e prevedevo che quel giorno sarebbe stato molto duro.
Mio padre, come tutte le mattine, uscì a far colazione e a leggere il giornale al solito bar. Mia madre ed io stavamo finendo di far colazione quando mio padre arrivò. Entrò nel salotto e mi disse di affrettarmi perché dovevamo andare, dato che avevamo da parlare di molte cose “tra uomini”. Ricordo che era la cosa che desideravo meno a questo mondo. Mi sentivo privo di forze e, francamente, ero rimasto di merda. Mia madre doveva essersene resa conto poiché, prima che uscissimo dalla porta mi abbracciò e mi sussurrò all’orecchio di tranquillizzarmi dato che lo facevano per il mio bene.
Quel che è certo è che il rapporto tra mio padre e me non è stato più lo stesso. Per quanto pregassi e giurassi che non lo avrei più fatto, ogni volta mi sentivo ancora più attratto dagli uomini.Quando restavo solo mi facevo seghe come un dannato. Quanto più cercavo di reprimermi, tanto più lo facevo. Non smettevo di guardare i sederi e i pacchi dei compagni di classe. Diventavo matto nello spogliatoio vedendoli in mutande e dopo mi ammazzavo di seghe. Immagino che la maggir parte dei ragazzi della mia classe facessero lo stesso pensando alle ragazze, ma la differenza era che io mi sentivo sporco e colpevole.
Man mano che passava il tempo mi sentivo ogni volta più solo. Sapevo di non poter contare sull’aiuto dei miei genitori e in collegio la situazione divenne insopportabile. Qualcuno sparse la voce che ero un finocchio i compagni di classe iniziarono a farmi dei soprusi.All’inizio erano insulti durante la ricreazione e scritte sui muri “Fernando finocchio”. Sapevo che se avessi detto qualcosa ai miei genitori essi avrebbero potuto sospettare e non dissi loro nulla. Ma un gruppo di ragazzi decise di rendermi la vita impossibile. Passarono dagli insulti agli scappellotti e ai calci. Un giorno, entrando in classe mi accorsi di come tutti mi guardavano e ridevano. Andando a sedermi vidi che avevano disegnato un cazzo sulla mia sedia.
Mi comportai come se non lo avessi visto e mi sedetti mentre loro ridevano. Stando in classe sentivo i commenti omofobi e le risate. Ero un ragazzo molto timido e represso.
L’unica visione che avevo della vita era quella che mi avevano insegnato in casa ed in collegio. Ricordo per esempio che quando cominciarono a crescermi i peli alle ascelle e ai genitali mi sentivo sporco e mi vergognavo molto. In fondo mi sembrava normale essere umiliato dai miei compagni per il fatto di essere omosessuale.
Furono anni orribili che distrussero la mia autostima. Un giorno alcuni ragazzi mi circondarono durante la ricreazione e mi dissero che dovevo azzuffarmi con uno di loro. Dato che mi rifiutai di farlo, tutti mi vennero addosso e mi diedero un sacco di botte. Ero disperato ed avevo bisogno di parlare con qualcuno. Tornando a casa, ho trovato nell’agenda di mia madre il numero di telefono di mio zio Miguel.
Presi i soldi ed andai in una cabina per chiamarlo. Entrai nella cabina e feci fatica a formare il numero poiché mi tremavano le dita. Tra le lacrime riuscii a parlare con mio zio e a raccontargli quello che mi stava succedendo. Mio zio si preoccupò molto e mi disse che il sabato sarebbe venuto a Santander per incontrarmi. Il giorno seguente mi chiamò a casa quando i miei genitori non c’erano e potemmo parlare più tranquillamente. Rimanemmo che ci saremmo visti in un bar, senza che i miei genitori potessero sospettarlo.
Arrivò il sabato ed andai all’appuntamento con mio zio. Arrivando al bar lo vidi che aspettava sulla porta. Mi avvicinai timidamente e gli diedi la mano, ma lui disse: “Dammi un abbraccio, cazzo, che siamo della famiglia. Cazzo come sei cresciuto!”.
Mi sono sentito subito a mio agio con lui. Gli raccontai quello che mi stava succedendo e notai come il sorriso spariva dalle sue labbra ed ogni volta sembrava più indignato. Gli raccontai che mio padre mi aveva detto che i suoi pazienti omosessuali non erano felici. Egli mi disse che non era stupito, dato che essere omosessuale e paziente di mio padre era come spararsi un colpo.
Ma mi disse anche che ci sono molti omosessuali felici e che quelli che davvero sono infelici sono quelli che non si accettano. Mi raccontò molte cose sulla sua casa a Brighton, sul suo compagno Jim, sul suo lavoro, ecc.
Mio zio mi disse che avrei potuto parlare con lui per qualsiasi necessità. Trascorsi con lui alcune ore indimenticabili. Tornai a casa verso le otto e mio padre mi chiese dove fossi stato per tanto tempo. Risposi: “Da qualche parte!”. E lui disse: “Ah furbetto, con una ragazza, eh?”. Il mondo di mio padre e il mio erano ogni volta più distanti.
Il fatto di aver potuto condividere con mio zio ciò che stavo vivendo, il sentire che lui mi capiva e mi approvava, mi diede molta forza. Durante le settimane successive al nostro primo incontro parlammo molto al telefono e venne a trovarmi in due occasioni, in una con Jim.
Vedendo come me la passavo male, mi dissero che se mi avesse fatto piacere avrei potuto andare a vivere con loro a Brighton. Mio zio mi spiegò che, avendo io ormai 17 anni, i miei genitori non potevano obbligarmi a vivere in casa.
Per me, l’offerta di Jim e Miguel significava l’opportunità di abbandonare una realtà opprimente e iniziare una nuova vita. Io avrei voluto andarmene subito, ma mi convinsero che era meglio parlare con i miei genitori e cercare di far le cose con le buone.
Così decidemmo che il sabato 24 marzo 2001 (non dimenticherò mai questa data), approfittando dei festeggiamenti del mio diciassettesimo compleanno, mio zio sarebbe venuto a pranzo a casa dei miei genitori ed avremmo parlato con loro.
Affinché la cosa fosse più facile, decisi di scrivere una lettera ai miei genitori nella quale dicevo di essere omosessuale, raccontavo loro del male che stavo sopportando in collegio e dicevo che sarei andato a vivere a Brighton con Miguel. Dicevo anche che li amavo molto e che speravo che saremmo rimasti uniti nonostante la distanza. Mi costò molto scrivere questa lettera. Versai molte lacrime e la scrissi varie volte per cercare di trovare le parole più appropriate per dir loro quello che provavo.
Finalmente arrivò il giorno tanto sperato e temuto. Passai la notte quasi insonne a causa del mio stato di nervosismo. Mio zio arrivò alle 12. Ricordo che mi colpì la gioia di mia madre nel rivedere suo fratello e la freddezza, per non dire il disprezzo, del saluto di mio padre. Come avevamo programmato, mio zio si comportò come se non mi avesse visto da anni. Soltanto leggendo il mio scritto avrebbero conosciuto la verità.
Una volta in salotto, mia madre propose di aprire i miei regali, ma le dissi che prima avevo io una cosa per loro. Mentre andavo in camera mia a prendere le lettere, vidi la faccia di sorpresa di mio zio.
Avevamo convenuto che le avremmo consegnate dopo il pranzo, ma non potevo più controllare la situazione e decisi di far precipitare gli avvenimenti. Tutto avvenne rapidamente. Tolsi le lettere dalla tasca della mia giacca e le diedi una a mia madre e l’altra a mio padre. Cominciarono a leggerla e mia madre scoppiò a piangere. Mio padre la leggeva con espressione seria e non diceva niente.
Quando finì di leggerla mia madre venne ad abbracciarmi piangendo. Non smetteva di dirmi “topino mio, topino mio” (mi chiama così fin da piccolo). Senza dire nulla mio padre si alzò dalla poltrona ed andò nella sua stanza. Mia madre ed io stavamo abbracciati e in lacrime da alcuni minuti quando vidi arrivare mio padre con il mio passaporto in mano.
Si rivolse a me con tono molto freddo e distante per dirmi che non mi avrebbe trattenuto, ma che prima di andarmene dovevo ascoltarlo. Mi disse che Dio ci mette tutti quanti alla prova e che la tentazione omosessuale era la mia prova.
Si avvicinò a me e mi disse, guardandomi negli occhi, che sapeva che resistere alla tentazione sarebbe stato difficile, ma che era l’unica possibilità che avevo di essere un uomo di Dio. Aggiunse che se avessi scelto di sacrificarmi mi avrebbe aiutato e mi avrebbe dato tutto il necessario, ma che se avessi ceduto alla tentazione avrei smesso di essere suo figlio.
Mia madre gli chiese di non dire queste cose. E lui rispose: “L’omosessualità non è la strada di Dio ed io non lo accompagnerò se prenderà questa strada”. Ricordo perfettamente questa frase dato che sono state le ultime parole che ho ascoltato da mio padre.
Lasciò il passaporto sul tavolo e si chiuse nella sua stanza. Mia madre mi chiese piangendo di rimanere. Mio zio ed io le spiegammo che era necessario per me andarmene per poter ricostruire la mia vita ed essere felice. Mio zio promise a mia madre che si sarebbe occupato di me nel modo migliore ed io le promisi che ogni giorno l’avrei chiamata al telefono, cosa che faccio da quel giorno.
Non scorderò mai l’immagine straziante di mia madre che piangeva mentre mi diceva addio. Quando fui sulla macchina che mio zio aveva noleggiato scoppiai in pianto.
Miguel mi abbracciò e mi disse che dovevo essere orgoglioso perché ero stato coraggioso. Andammo a mangiare e mio zio ne approfittò per darmi un regalo da parte sua e di Jim: era una videocassetta del film “Beautiful thing”. Il giorno seguente siamo andati a Brighton. Sull’aereo Miguel mi disse che Jim era entusiasta che andassi a vivere con loro e che stava preparando minuziosamente la mia camera perché potessi star comodo.
In effetti, arrivando a casa, Jim ci stava aspettando pazzo di gioia. Mi mostrarono la casa e la mia stanza. Durante gli anni nei quali vissi con i miei zii, Jim si occupò di me come di un figlio. Aveva una capacità di comprendere il mio stato d’animo che non avevo mai trovato nel mio vero padre. Quando si accorgeva che non stavo bene mi appoggiava la mano sulla spalla e mi diceva: “Are you alright?”.
Ricordo con particolare affetto quando guardavamo insieme “Il grande fratello”, mangiando il gelato. Ridevamo tanto vedendo il programma e quando mio zio Miguel si arrabbiava perché guardavamo queste stronzate. L’affetto di Jim fu essenziale perché mi sentissi bene e mi lasciassi dietro le passate sofferenze.
Subito dopo averlo visto mi innamorai di lui. Era molto bello, ma ciò che maggiormente mi attrasse fu il sorriso che aveva e la fiducia con la quale procedeva nella vita. Era la prova vivente che era possibile essere giovane, gay e felice. Con Dale feci l’amore per la prima volta ed imparai ad procedere nella vita senza paura.Con lui imparai anche come fa male una rottura in amore. Durante quegli anni compresi quanto fosse stata opprimente la mia educazione e approfittai al massimo della libertà che avevo vivendo in casa dei miei zii. Dopo la rottura con Dale ebbi un periodo in cui scopavo più di un coniglio. I miei zii si divertivano ad assistere alla trasformazione del ragazzo timido e represso in uno scopatore insaziabile.
Questo calore durò qualche mese, dopo di che tornai ad innamorarmi. L’unico momento difficile che vissi durante il mio soggiorno in Brighton fu quando venni a sapere che a mio padre era stato diagnosticato un cancro. Avvenne qualche mese dopo che me ne ero andato da casa e la famiglia di mio padre mi accusava di essere il responsabile del suo stato di salute. Mio padre accettava di parlare con me solo a condizione di chiedergli perdono e di promettergli che sarei cambiato.
Non lo feci. Mio padre morì nel 2003. Non ho assistito al suo funerale e non sono andato a visitare la sua tomba. Anche se a qualcuno può sembrare una brutta cosa, non sento la mancanza di mio padre. Non provo nemmeno rancore nei suoi confronti, ma non sento la sua assenza nella mia vita quotidiana.
Dopo la morte di mio padre i rapporti con mia madre sono migliorati molto. Ho potuto farle visita in varie occasioni e mio zio Miguel ed io l’abbiamo convinta a venire a Brighton a passare qualche giorno con noi.
La mia omosessualità e la morte di mio padre hanno permesso a mia madre di cambiare e, da allora, andiamo molto bene. Nel 2006 decisi di andare a Parigi per perfezionare il mio francese e conobbi Alain, il mio ragazzo. Ha 16 anni più di me e, benché fisicamente non corrisponda all’immagine che avevo in testa quando pensavo al mio principe azzurro, siamo tanto felici.
Ci divertiamo molto facendo la spesa insieme, guardando un film vicini vicini sul divano di casa, passeggiando o semplicemente restandocene a letto la domenica mattina.
La relazione con Alain mi ha portato molta serenità e pace interiore. E’ difficile credere che questo adolescente che ha tanto sofferto l’omofobia del suo ambiente circostante, che pregava di notte di non più svegliarsi vivo il mattino successivo, possa essere un uomo felice.
Ma, per quanto felice sia, non dimenticherò mai il bambino di 13 anni che piangeva sconsolato e si faceva la pipì addosso perché era omosessuale e suo padre non lo accettava. Non voglio dimenticarmi di lui, né dei ragazzi che attualmente se la stanno passando male.
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Testo originale: Un hombre como Dios manda