Perché andare al Pride?
Riflessioni di Viola Valentini tratte da gaytoday del 6 giugno 2008
Pochi giorni fa ho avuto la solita, eterna discussione con una collega che ha prevalentemente relazioni con donne, ma non si vuole rinchiudere nella definizione di lesbica o bisessuale, che mi spiegava che non verrà al Pride perché non crede nelle parate, non le piace l’ostentazione e non sente il bisogno di rivendicare dei diritti, sostenendo che uno la propria libertà ce l’ha dentro.
Questo discorso, che abbiamo sentito tante volte, può suonare più o meno convincente, ma si basa su un errore. Sarebbe un discorso sostenibile se vivessimo in una società in cui l’orientamento sessuale non fosse un motivo di discriminazione, in cui potessimo arrivare al lavoro e raccontare con leggerezza del week end passato con la nostra compagna, senza che questo significhi aver trovato il coraggio di fare coming out.
Allora si che potremmo scegliere liberamente se e quando parlare. Ma non saremo davvero liberi finché vivremo in una società omofoba e discriminatoria.
“Ma a me non va di raccontare i fatti miei ai colleghi, non lo farei nemmeno se si trattasse di uomini: scelgo le mie maschere e vivo la mia vita fuori di qui”, mi dice lei.
Le spiego che questo io non sono capace di farlo, non so indossare e togliere maschere a seconda dell’ambiente in cui mi trovo restando me stessa, è uno dei miei limiti. E quindi, se non posso mostrare una parte di me stessa mi sento amputata, compressa e sto male.
Lei capisce, e mi risponde “Si, ma questo è un tuo problema!”. È vero, tanto vero che so che il disagio che provo sarà la spinta per affrontarlo, questo mio problema.
Però non è del tutto vero, non è solo un mio problema, è un problema che si pone a me e a tante altre persone perché la società in cui viviamo non ci sostiene, non ci riconosce, non ci aiuta a crescere serenamente, ci mette nella condizione di dover superare ostacoli interiori ed esterni infinitamente maggiori rispetto a quelli che devono affrontare le persone eterosessuali.
Tutto questo deve cambiare e siamo noi a doverlo cambiare. C’è un solo modo: usare la nostra consapevolezza, le nostre esperienze, la forza e il coraggio che abbiamo messo insieme per farci vedere, farci sentire, farci conoscere, venire allo scoperto, alla luce del sole. E dobbiamo essere in tanti a farlo, darci forza l’un l’altro, essere uniti.
Il Pride serve anche a questo. Serve a guardarci negli occhi, a fare i conti con noi stessi, a confrontarci con le nostre differenze, con quello che ci unisce.
A sorridere a chi viene con le tette di fuori perché le sue tette meritano lo stesso rispetto del mio filo di perle, perché soltanto se lui sarà libero di andare in giro con tacchi a spillo e boa di struzzo io potrò dire che non farlo è una mia libera scelta.
Perché non sta scritto da nessuna parte come dobbiamo essere e se questa cosa non la capiamo noi per primi non c’è verso che la capiscano gli altri. Perché non dobbiamo piacere ad altri che a noi stessi, non dobbiamo essere altro che noi stessi e abbiamo tutti il diritto di esserlo.
Perché esserci ritagliati uno spazietto in cui come equilibristi dosiamo parole e gesti, in cui ci poniamo da soli limiti e paletti, non si può certo definire libertà.