Senza chiedere permesso. Ciò che Dio scioglie, l’uomo non unisca
Riflessioni di Marta*, semplicemente una madre
Non sono sparita. Ho avuto altro da fare, ma questo racconto mi va di continuare a condividerlo qui, con Gionata, affinché nella condivisione possa avere un senso. Mi piacerebbe continuare a farlo, completando l’intero racconto, anche se non riuscirò a rispettare tempi regolari. Perché farlo? Io non sono “dei vostri”. E con l’omosessualità ho avuto molto poco a che fare fino ad una decina di anni fa. Mi sentivo comunque “aperta e rispettosa”. Ma non è la stessa cosa che entrare profondamente in relazione con questo mondo tenuto così escluso, relegato, o relegatosi, in spazi di vita che solo occasionalmente, e con stupore, si sono intrecciati alle vite che sino a qualche decennio fa erano considerate “normali”.
Per conoscersi davvero bisogna intrecciarsi vicendevolmente. Anche a costo di incastrarsi, o di scottarsi, di bruciarsi. Che non è la stessa cosa che essere “tollerante” con il mondo omosessuale, e magari anche difendere i ragazzi vittime di violenza omofobica. Perché abbracciarli fin da piccoli, per scoprire poi quanto ti sono stati un poco sconosciuti, è faccenda diversa.
Dopo tanto tempo, io sogno un mondo che ancora non c’è, un mondo dove non ci sia differenza, ma non ci sia davvero differenza tra le persone con orientamenti del desiderio diversi. Perché siamo davvero tutti figli dello stesso Dio. Sogno un mondo dove non ci sia bisogno per nessuno di raggrupparsi per difendersi. Perché nessuno aggredisce, e nessuno rischia di essere ferito.
E allora riprendo il racconto, che non è facile raccontare.
Quella sera in cui mio figlio “uscì dal suo armadio”, c’era solo una persona che avevo voglia di sentire, e che avrebbe saputo capirmi. Un caro amico. Anzi. Un po’ più di un caro amico.
Adesso è un po’ di tempo che non ho occasione di riprendere profondamente il dialogo con lui. E volontariamente non lo cerco. Ho già fatto mille volte questo gioco: nascondermi per vedere che cosa fa. É un gioco stupido, infantile, lo so. Ma non riesco a non giocarlo.
Non sono ancora riuscita a capire che rapporto ci sia adesso tra di noi. A volte molto amici, a volte ho l’impressione che un po’ ci detestiamo, e comunque il dialogo profondo di un tempo si è, a mio avviso, interrotto. Ma va bene così. C’è un tempo per ogni cosa. E forse il tempo è davvero diverso, oggi.
Forse questa volta riuscirò a sentirlo come uno dei tanti amici, pur sempre veri amici, che ho collezionato nella mia vita, e che quando ci incontriamo ci diciamo: “Ti ricordi? Come era bello, quella volta che… Ma adesso che fai? Come stai?”…
Ma, sì, dai! Questa volta forse ce la faccio. Forse riesco a guardare la realtà in faccia. E la realtà è che è impossibile coltivare con eguale intensità ed impegno due amori. Vincerà sempre quello passionale, quello che coinvolge il corpo, e i desideri del corpo.
Io non ho un corpo per lui. Io non ho la barba, come lui ha quasi gridato, quel giorno, quei giorni, quando finalmente, dopo alcuni anni di intensa ed intima amicizia, si è svelato.
Ci abbiamo provato. Ci abbiamo provato a mantenere il dialogo, a nutrirlo di nuovi motivi, ci abbiamo provato. E quando gli dicevo che non era possibile, che lo sentivo allontanarsi, lui si arrabbiava, trattandomi da bambina capricciosa, quasi. Mentre oggi penso che il bambino era lui, perché voleva questo e quello. Voleva il mio amore gratuito, camuffato di amicizia, e la passione del suo compagno.
Con i miei vuoti non ha fatto i conti. Io li ho sopportati. Lui non ha sopportato i miei giorni solitari e grigi.
Chissà se si ricorda di come erano quei giorni dei primi anni! No, credo che non si ricordi. Fra lui e me il compito del ricordo appartiene a me. A me appartiene tenere il filo, il percorso del racconto. A me, Arianna perduta in questo labirinto.
Io non conosco il suo racconto della nostra storia. Lui non me lo ha mai voluto raccontare. E allora racconterò io la mia versione. Incompleta e falsa, come sono tutti i racconti dei vissuti comuni, raccontati da una voce sola. Leggerà? Forse. Si riconoscerà? Chissà!
Sapeva che un giorno lo avrei fatto. Ma non gli ho detto mai quale sarebbe stato il giorno del racconto. E non gli ho detto neppure che adesso stavo incominciando.
Così scrivo senza chiedere il suo permesso.
Quando lo ho conosciuto il mio matrimonio era già finito. Io mi illudevo che si sarebbe potuto salvare. Ma dentro di me il legame era già spezzato. Si può perdonare, sì, si può. Ma quando tutto di lui ti ricorda ferite, quella volta perdoni e speri che se ne vada, ma non se ne va. E allora sopporti e stringi i denti, fino a quando giunge quel giorno in cui perdoni, ma fai in modo che se ne vada.
Quando ho conosciuto Paolo stavo restando sola con due figli, piccoli ancora.
Che stavo davvero male con mio marito incominciai ad accorgermene qualche anno prima di incontrare Paolo. Quella volta lui stette via per due settimane, per lavoro, e rimasi a casa da sola con i bambini. Era estate, io presi ferie, e noi tre, io e i bambini, ci godemmo quelle due settimane di pace, come se fossimo in villeggiatura. Villeggiatura ancora più serena, senza lo stress delle valigie.
Non poteva andare bene: essere felice che lui non ci fosse. E ricominciare a stringere i denti, e tendere i muscoli, appena lui ritornò. Era stato via anche altre volte, da solo. E le altre volte non vedevo l’ora di riabbracciarlo. Ma questa volta era diverso. Non me ne ero mai accorta prima: stavo meglio senza di lui. Molto meglio.
Con questo marito, compagno di quasi tutta la vita, stavo solo male. Lui era sempre nervoso, gridava, si arrabbiava per nulla. Avevo tentato di affrontare la cosa con lui, ma si era arrabbiato ancora di più. Era diventato un uomo violento.
E’ che con due figli piccoli non si ha tempo neppure di pensare. Non riuscivo a capire una cosa così immensa come la rottura di un legame, la rottura del legame con l’uomo che avrebbe dovuto invecchiare con me, e crescere con me i nostri figli.
E poi, come potevo giustificare questo davanti a Dio, di cui sapevo solo che da qualche parte aveva detto che ciò che Lui legava noi non dovevamo sciogliere?
Stavo male con mio marito, ma non riuscivo a vedere come migliorare, poiché con lui non se ne poteva mica parlare!
Dio. Anche Dio era entrato da poco tempo nella mia vita. Prima io pensavo che la religione fosse solo l’oppio dei popoli. Avevo quasi quaranta anni quando, con un lungo lavorio dentro di me, lo Spirito decise che dovevo prestarGli ascolto.
La Fede irruppe nella mia vita prima come un rigagnolo, e poi via via diventando un fiume in piena, caldo e tumultuoso, stravolgendo la mia vita, felicemente, come felicemente stravolge la scoperta di avere un Amante innamorato e fedele, che sorride in attesa che ce ne accorgiamo.
Quella volta, con mio marito ero ancora felice. Oppure così mi sembrava.
Così, in completa autonomia da scuole, parrocchie o da gruppi, avevo iniziato a leggere, ascoltare, imparare, riflettere. Non capivo. Oh! Se non capivo! Ma sentivo che era la strada giusta, e che prima o poi ci sarei venuta a capo. All’inizio era poco più di un pregare quasi abitudinario ed infantile. Poi divenne piano piano una presenza viva e bruciante, di un fuoco che travolge senza ferire. E sempre più forte sentivo il bisogno di capire.
Stranamente più mi accorgevo della presenza di Dio nella mia vita, e più il matrimonio che stavo vivendo mi appariva in tutta la sua desolazione.
Se siamo stati creati perché avessimo gioia di vivere, perché non riuscivo ad essere felice nel matrimonio? Al primo bimbo si era aggiunto il secondo, ed erano bimbi splendidi. Sì, mio marito era sempre duro con me, ma prima o poi sarebbe cambiato, no? No, non sarebbe cambiato. Anzi. Mio marito si stava allontanando sempre di più da noi, e avere vicino la sua durezza, la sua aggressività, ormai mi faceva solo paura.
In quel tempo ricordo che mi aveva colpito un versetto: “Misericordia voglio, e non sacrifici!”. Quanto tempo mi sono fermata su quella frase, per capirla, per scoprire cosa potesse significare per me! “non sacrifici!”. No. Non servono a nulla. I miei non servivano proprio a nulla, se non a rendermi sempre più infelice.
Vivevo così, con due figli piccoli, Marco aveva 7 anni e Alberto 9, quando si aprirono le grosse, inevitabili e dolorosissime crepe nel mio matrimonio. Per un anno vissi di buio. Di freddo, di buio, e di denti stretti. Fingendo, tirando avanti, e rifugiandomi nelle coccole dei bimbi.
Non mi arrendevo. Il matrimonio si doveva salvare, perché “l’uomo non deve sciogliere ciò che Dio ha unito”. A qualsiasi costo. E il costo stavo diventando io.
Ero ormai senza energie quando conobbi Paolo. Ovviamente sul lavoro. Non avrei avuto altre occasioni. La vita di quel tempo non me lo avrebbe concesso.
La prima impressione che ebbi di Paolo era di un uomo triste. Dolce ma triste. Intelligente, sensibile, colto, acuto, simpatico. E triste.
La prima volta che lo guardai negli occhi, fu quando nel gruppo di lavoro stavamo lavorando con il mio computer, che, rimasto inattivo per il numero predeterminato di minuti, iniziò a far scorrere lo screensaver che avevo messo in quel tempo: “L’amore è paziente e benigno … tutto spera … “.
Mi scusai con il gruppo, che non conoscevo sufficientemente bene, e mi catturarono gli occhi di Paolo: fu uno sguardo lunghissimo ed intenso, come se mi vedesse per la prima volta, ed era un misto di stupore e dolcezza, che non riuscii più a dimenticare.
Fu un bel periodo, quello. Davvero bello. Se l’unico motivo per tornare a casa erano i figli, in compenso sul lavoro avevo occasioni stimolanti di progetti, attività, con molte occasioni di valorizzazione e crescita. E poi il nuovo gruppo di lavoro, i progetti, le occasioni, erano davvero interessanti.
Ricordo un giorno in cui si era deciso di pranzare assieme in una pizzeria, andando a piedi. Io in quei giorni faticavo a camminare, per un dolore che mi si era riacutizzato all’anca. Dissi agli altri che li avrei raggiunti, con calma. Ma dopo pochi passi mi raggiunse Paolo in macchina: “Sali che ti porto”, mi disse. Credo sia stata una delle prime dolcezze ed attenzioni che ricevevo da un uomo, dopo anni di matrimonio. Come fare a non notarlo?
Io non ricordo bene come abbiamo iniziato a ricavarci del tempo per noi. Ma sono stati tanti, ma tanti e tanti i pomeriggi trascorsi assieme, dopo il lavoro.
Un po’ di nascosto, un po’ no. Perché io comunque ero sposata, e il paese è piccolo e la gente mormora.
Ma soprattutto gli scrivevo. Internet in questo è una cosa fantastica. E poi io mi esprimo meglio scrivendo. L’ho sempre saputo. E per fortuna lui leggeva, e, a volte, anche rispondeva.
Era bellissimo, in quelle mattine, aprire il computer, collegarlo ad internet, e scaricare la posta. Vedevo comparire il suo nome, a volte anche per cinque, sei mail… magari di poche parole, scritte di notte, scritte per me. Erano dei dedicati, c’era qualcuno che mi pensava. Qualcuno a cui potevo raccontare di me e delle mie fatiche. Qualcuno che condivideva.
Si riprendevano i discorsi, a volte al telefono, a volte negli incontri veri.
Non facevamo nulla di particolare. Chiacchieravamo. Parlavamo di noi, o soprattutto di me, e del modo in cui si sarebbe potuto salvare il matrimonio. Perché questo era l’accordo: salvare il matrimonio.
Devo ammettere che qualche volta Paolo ci provava a dire di sé qualcosa di più. Ma la mia cecità, oppure il suo perfetto travestimento nella normalità attesa, mi impedirono di cogliere ciò che non ero in grado di sospettare. Né lui ebbe mai il coraggio, in quegli anni, di dirmi la sua verità.
Aveva paura di deludermi? Di caricarmi di pesi, dei suoi pesi, che, come mi disse anni dopo, in quel periodo io, a suo parere, non sarei riuscita a sopportare?
In quell’estate io andai per l’ultima volta in vacanza con mio marito e i figli. Fu una vacanza insopportabile.
Quando poi ritornammo al lavoro, lo raccontai a Paolo, chiedendogli se aveva un giorno da dedicarmi, anche per rifarmi della faticosa mia vacanza. E lui mi disse: “Che bello! Un giorno intero!”. E così fu. In quel giorno lasciai i bambini ai miei genitori, come di solito accadeva nei giorni non scolastici, e finsi di andare a lavorare. Trascorsi con lui uno dei più bei giorni della mia vita. Perché ci capivamo, mi sentivo capita. E provavo per la prima volta cosa si prova quando qualcuno si prende cura di me.
Perché Paolo si prendeva cura di me. Aveva attenzioni, ascolto, dolcezza, sensibilità.
L’unica cosa che non aveva era la passione. Ma la cosa gli faceva onore, perché io ero ancora sposata. Mi sarei separata solo un anno dopo. E in quei giorni, con Paolo, l’ultimo dei miei pensieri era proprio quello di separarmi. Anzi. Cercavamo di capire come fare per far rivivere il matrimonio, e per salvare anche mio marito dalla sua tristezza e dalla sua durezza.
Fu così che io presi fuoco. E glielo dissi, con la schiettezza che contraddistingueva il nostro dialogare, e il nostro scriverci e leggerci. “Mi sto innamorando di te”, gli scrissi, e poi anche glielo dissi. E lui sorrise, dicendo solo: “Che bello!”.
Man mano che il calore umano di Paolo curava le mie ferite e mi dissetava, man mano io mi lasciavo travolgere dall’innamoramento per lui.
“Mi puoi tenere la mano?”, gli chiesi un giorno. “Le mie sono ruvide…”, mi rispose titubante, cercando di sottrarsi alla mia richiesta. “Non importa”, gli dissi sorridendo, e prendendogli io la mano. Ricordo ancora il tenero calore delle sue mani che trattenevano la mia. Probabilmente fu uno dei pochissimi momenti, se non l’unico, che lui mi concesse di se stesso, in quel modo.
Un giorno, mentre passeggiavamo in uno dei luoghi verdi di quel tempo, provai ad avvicinarmi a lui cercando un bacio. Gli innamorati lo fanno. Ma lui scivolò via dal mio abbraccio con una eleganza e una scioltezza incantevoli, sorridendo in un modo gioiosamente inesorabile. Non riuscii a baciarlo, né quel giorno né mai. Ma io ero ancora sposata. E tutto si spiegava.
Al massimo mi diceva che lui “non provava le stesse cose per me”. Ma c’era. C’era sempre. Mi era sempre vicino. A sostenermi. Nell’impegno di salvare il mio matrimonio. Già.
In quel tempo gli avevo presentato anche mio marito. I bimbi e il marito. Avevamo trascorso assieme alcune occasioni, anche con altre persone. Una pasquetta. Alcuni pomeriggi. A pranzo da noi. Insieme anche ad altri amici. Erano tutti tentativi di salvare il matrimonio. Che faceva sempre più acqua da tutte la parti.
Mio marito colse quella nostra amicizia come la prova che cercava del mio possibile tradimento, così pareggiavamo, a suo parere, i conti. Ma gli serviva solo per sentirsi con la coscienza a posto. Perché di lui avevo prove su prove di perché uscisse nelle notti dei venerdì, dei sabato.
Al punto che quando Alberto, il nostro figlio maggiore, lo sentì, una sera, uscire, mi chiese: “Ma dove va papà?”, io gli risposi, sconsolata: “Non lo so”. Ed era vero, non sapevo dove, ma sapevo che non era con me.
Questa situazione andò avanti ancora per mesi. Dopo che avevo conosciuto Paolo, ci provammo per almeno un anno, ci provammo a “Non sciogliere ciò che Dio aveva unito”. Ma era sempre più vero ciò che invece disse un magistrato ad un convegno sul tema della separazione: “Ciò che Dio scioglie, l’uomo non unisca”.
Ho la consapevolezza, però, che solo incontrando la tenerezza di Paolo, riuscii a trovare la forza per chiudere quella strada buia della mia vita, e ripartire, assieme ai miei bambini, verso un futuro che potesse essere più sereno e gioioso.
* Conosco Gionata.org ormai da anni. È stato il luogo che più ho frequentato in internet per cercare di capire un’altra vicenda fondamentale nella mia vita. Qui ho conosciuto persone molto belle. E ho avuto modo di conoscere di persona anche i webmaster. Giorni fa, parlando con Innocenzo, gli ho detto che mi piacerebbe scrivere di queste mie vicende su Gionata, ma che non so neppure da dove cominciare, tanto è un groviglio, che non è facile dipanare.
“Fallo a puntate”, mi ha risposto. E allora, se volete, questa è una puntata, un po’ diario, un po’ ricordo. Un racconto in itinere. Che un po’ va avanti, e un po’ torna indietro, per cercare di capire. Non ho idea di come andrà a finire, perché si sta ancora svolgendo. E io non ho ancora compreso tutto. Anzi, a volte mi pare di non aver capito niente.