La mia partecipazione al Pride, tra sorpresa e festa
Articolo di Giacomo Tessaro pubblicato sul blog dell’Arcigay Rainbow Valsesia-Vercelli, 8 luglio 2015
Da diversi anni guardavo con curiosità al Pride. Mi ricordo quando, forse nel 2006, chiesi a un mio amico gay se sarebbe andato a Torino a sfilare, ma non era nei suoi programmi: la mia prima occasione mancata. Nel 2008 ci fu un Pride a Biella ma l’amico era già perso di vista. L’anno scorso avrei voluto davvero partecipare (già ero amico e collaboratore di Arcigay Rainbow Vercelli-Valsesia) ma mi ero rifugiato per un mesetto in un centro sulle montagne del Pinerolese a lavare pentole e pulire gabinetti e non avevo nessuna intenzione di abbandonare la mia postazione.
Quest’anno finalmente ho potuto soddisfare la mia grande curiosità/voglia di vedere/partecipare a un Gay Pride. Cosa mi aspettavo? Una marea di gente in prima battuta: quella c’era, di solito non amo la calca ma semel in anno… In seconda battuta, il caldo: c’era anche quello, ma non è stato insopportabile nonostante la mia bassa tolleranza all’afa. Poi, la caciara: ovviamente ce n’era in abbondanza, ma la cosa alquanto stranamente non mi ha disturbato: è stata una grande festa, tanta musica, danze e spettacolo per le strade prive di traffico, un evento che allude all’amicizia e all’amore pur consapevole che la realtà quotidiana è diversa, meno “colorata” e più “seria”.
Stare nel flusso del Pride mi ha fatto bene, ho visto molta gente gioire e festeggiare, felice di essere nello stesso luogo di molti altri che reclamano dignità e diritti non solo per sé, ma anche per i propri cari e i propri amici: alla sfilata non hanno certo partecipato solamente persone LGBT ma anche amici, genitori e sostenitori, accomunati dalla fede nell’accettazione e nella valorizzazione delle differenze.
Un altro aspetto che vorrei citare come componente ineliminabile di un vero Gay Pride è la musica: quella che ho potuto sentire era rigorosamente dance, molto spesso anni ’90: un buon segno per un appassionato del genere come me.
Noi di Arcigay Rainbow Vercelli-Valsesia ci siamo dovuti dividere, come l’anno scorso, tra Torino e Milano, ma la nostra rappresentanza di iscritti e simpatizzanti era ben nutrita. La nostra vicepresidente Anita ha avuto l’idea, in collaborazione con me, di preparare alcuni cartelli con dei versetti biblici sull’amore: uno spunto, come speriamo, per un prossimo appuntamento serale della nostra associazione, in collaborazione con i gruppi LGBT cristiani.
Ornati di bandiere, cartelli, arcobaleni dipinti sul viso e tanta acqua ci apprestiamo a entrare nel vivo del corteo che si sta avviando. I primi metri si svolgono in un’atmosfera surreale: a dire il vero ignoro se siamo più avanti o più indietro rispetto al grosso del corteo, ma io e chi mi sta vicino abbiamo la sensazione di esserci solo noi in mezzo alla strada, a marciare, e che il resto della città stia ai lati, a fotografarci e riprenderci, in un (relativo) silenzio innaturale.
Vediamo fiancheggiarci, fermi, brandendo macchine fotografiche e telefonini, una folla di tutte le età, incuriosita e divertita, che comunque mi infonde una sensazione di benevolenza e amicizia.
Una forte sensazione di straniamento, in ogni caso, che scompare quando a un certo punto facciamo una pausa e in qualche modo ci riuniamo al grosso del corteo con la sua musica e le sue danze.
L’atmosfera è meno intima di prima, meno riservata, ma per la prima volta vedo il Pride così come me lo sono sempre immaginato: costumi di ogni genere e forma, drag queen, carri colorati e pieni di gente, musica e altoparlanti a tutto volume, striscioni di gruppi e associazioni.
Assieme a Chiara e Marylisa, in cerca di amiche e amici di amiche, vado avanti e indietro per il corteo e riesco a vedere in maniera più completa la manifestazione, mentre il caldo padano comincia a farsi sentire duro e impietoso: una cosa che non mi ero aspettato, ma che in realtà non mi colpisce più di tanto, sono i venditori di acqua, birra e bibite, spesso a torso nudo, che trascinano grandi vasche piene di ghiaccio e bottiglie protette da ombrelloni.
Un po’ mi fanno pena, un po’ mi incuriosiscono, mentre mi faccio strada tra i manifestanti che sfilano e la gente, sempre numerosa, che assiste dai marciapiedi e dai portici, tanto da farmi pensare che siano più gli spettatori che i partecipanti, e mi chiedo cosa impedisca loro di mettersi in gioco come hanno fatto in molti, non necessariamente LGBT.
Mi reimmetto nel flusso della parata, cerco con lo sguardo e un po’ d’ansia i membri di Rainbow che camminano in ordine sparso. Quando arrivo in piazza Castello si ripete l’incantesimo: io e Alex stiamo camminando vicini, chiacchierando, quando all’improvviso sembra che del corteo siamo rimasti soltanto noi e che tutta la gente ai lati stia guardando e fotografando noi e i cartelli che portiamo al collo.
Mentre il sole del giugno torinese picchia devo cercare di passare il più indifferente possibile in mezzo a due ali di occhi, di macchine fotografiche e di smartphone mentre parlo con Alex.
Il tempo di immetterci in via Po e ritorniamo nell’anonimato. Mentre la parata si avvia alla fine (ma dopo ci saranno ancora i discorsi in piazza Vittorio e la sera, per i più resistenti ed eccitati, una festa notturna della quale non possiedo dettagli per poterla descrivere) c’è ancora il tempo per gettare uno sguardo a chi cammina assieme a me, persone che non conosco, che sono state spinte lì da motivi forse molto diversi dai miei, ma che ora mi fa piacere avere accanto e osservare.
La fatica e il caldo mi fanno desiderare di raggiungere presto piazza Vittorio per potermi riposare un poco e sentirmi meno al centro dell’attenzione (non che io sia un’attrazione, ma nei momenti descritti in precedenza mi era parso quasi di essere preso di mira dagli sguardi di mezza Torino): penso però che, tra noi, chi abbia attirato di più gli sguardi sia il nostro Mauro: ghirlanda di fiori in testa a mo’ di aureola, bandiera dell’Arcigay a mo’ di pareo, doppio cartello ironico al collo e seconda bandiera in mano, non è certo passato inosservato: sembra una Statua della Libertà arcobaleno.
Eccoci all’inizio dei portici di piazza Vittorio, ci fermiamo e ci ritroviamo tutti, c’è tempo di sedersi e tirare il fiato prima di proseguire con i discorsi di circostanza, per alcuni, di incamminarsi verso la stazione dopo aver calcolato il percorso, per altri. Io appartengo al secondo gruppo: cerco di salutare un po’ tutti e di raccogliere i miei tre compagni di viaggio, andata e ritorno, e di dare loro il ritmo necessario per arrivare in tempo a Porta Nuova: invano.
A un certo punto ci rendiamo conto che il treno che contavamo di prendere è perso, e rallentiamo il passo mentre risaliamo via Po. Passeggiando tranquillamente, un po’ più freschi, abbiamo modo di fermarci al fontanone di via Roma per un ultimo sguardo alla vita torinese.
C’è ancora tutto il tempo di prendere il prossimo treno e, più tardi, di fermarsi a mangiare in un posto alla buona per non arrivare troppo presto a casa.
Il mio primo Pride si è concluso con una pizza alle cipolle, ho camminato, sudato e fatto incontri importanti, vedremo se quello del prossimo anno sarà semplicemente all’altezza di questo o se sarà qualcosa di molto più significativo.