Dalle lesbiche spagnole: “bisogna essere visibili perché abbiamo il diritto di esistere”
Articolo e intervista di María Jesús Méndez tratta da mirales.es del 2 ottobre 2009, liberamente tradotta da Eliana
Boti è puntuale. E’ di statura bassa ed ha una voce potente. Femminilità marcata, capelli corti e completamente bianchi. Ha una risata che ricorda i bambini, forse perché è spontanea o forse perché ride con gusto.
Però la cosa che più colpisce di questa laureata in lettere e filosofia sono i suoi occhi, neri e molto più espressivi delle sue parole.
Quando parla della legge (ndr spagnola) sul matrimonio fra persone dello stesso sesso, per cui lavorò attivamente e che ottenne nel 2005, sembra una di quelle madri che hanno partorito per la prima volta e che parlano emozionate delle doti del loro bambino.
Parlare della FELGT (Federazione Statale di Lesbiche, Gay, Transessuali e Bisessuali di Spagna), che descrive come una “montagna di meraviglie” e di cui è Membro per le Relazioni Istituzionali, le rende gli occhi brillanti, vivi.
La ex presidentessa della Cogam (Collettivo Lesbico, gay, trans, bisex di Madrid) non si dilunga molto sulla sua vita privata, racconta solo che dopo il suo “lavoro retribuito”, si riposa per un po’ e si dedica all’altro. Quello gratuito e più gratificante, perché quando parla del suo attivismo diventa precisa, orgogliosa ed emotiva.
M: Come vivi il passaggio da lesbica nell’armadio a lesbica visibile e da lesbica visibile ad attivista?
B: Sono nata e cresciuta durante la dittatura franchista, in una società in cui era impensabile l’omosessualità, soprattutto fra donne. Credo che neanche si usasse la parola lesbica. Nella mia gioventù, mentre studiavo in un collegio di suore, sapevo di essere differente.
Trovavo erotiche le donne, non gli uomini. Volevo sempre stare con le mie amiche, gli uomini non esistevano per me, erano trasparenti. Ma non ero consapevole del fatto che questo significasse essere lesbica, io pensavo solo di essere una ragazza strana, diversa. Crebbi ed andai all’università. Supposi di essere omosessuale, ma la parola lesbica ancora non compariva per me.
Ebbi relazioni con compagne. Era una società repressiva, molto differente, cattolica, non si parlava di questo. E nemmeno io dicevo “non lo dico”, semplicemente non mi veniva in mente di dirlo.
M: Nemmeno alle amiche?
B: Era impensabile. Non si parlava di questa cosa. E’ come se ti dicessi quante volte vado al bagno. Non è che pensassi di non dirlo in pubblico, proprio non mi passava per la mente.
Le lotte di quell’epoca erano contro il regime. Conclusi i miei studi in lettere e filosofia. Presi la laurea e comincia ad insegnare in una scuola. Avevo 24 anni ed insegnavo in una classe di ragazze. Era un’esperienza fortissima per me. Vivevo il migliore dei sogni: ero una donna attorniata da donne e per di più con autorità.
Era una relazione di potere. Però non ero consapevole di questo, della situazione di privilegio e superiorità che vivevo con le mie alunne. In tutte le classi di studentesse più grandi si stabiliva una corrente erotica tremenda, ed io ci giocavo, senza consapevolezza.
Poi accadde quello che doveva accadere: m’innamorai di un’alunna. Appena potemmo, lei aveva 17 anni ed io 27, organizzammo un piano per vivere insieme. Io continuavo a non definirmi lesbica, senza chiedermelo. Volevo solo vivere la mia storia d’amore. Ero innamorata ed avevo il diritto di vivere la mia vita. Quando lei compì 18 anni, ce ne andammo insieme a vivere a Barcellona. Restammo insieme per più di 20 anni.
M: E lì ti riconoscevi come lesbica?
B: Non ancora. Andammo a Barcellona perché era una città grande e cosmopolita, il posto giusto per passare inosservate. Non raccontavamo a nessuno che eravamo compagne, né camminavamo mano nella mano, perché erano gli anni 80. Non si poteva fare tutto ciò. Ti avrebbero portato al commissariato.
Dopo 10 anni iniziai ad avere bisogno di visibilità. La sensazione è quella che si prova quando si ha bisogno di uscire e di sentire i raggi del sole. Perché te lo chiede il corpo.
A me il corpo chiedeva questo: che quello che stavo vivendo fosse esternato, che diventasse pubblico. Ogni volta che tiravo fuori che avevo bisogno che i nostri amici sapessero che eravamo una coppia, lei mi diceva: “Non importa, non interessa a nessuno”. Ed io le dicevo: “Interessa a me, per me non è uguale, questa non è un’amicizia e a me piace chiamare le cose con il loro nome, siamo lesbiche”.
Fu un periodo molto brutto. Avemmo molti problemi. Fu in quel periodo che iniziai ad andare al Cogam (Collettivo LGTB della comunità di Madrid), cercando gente come me, cercando quella vita di cui avevo bisogno, quella necessità di mostrarmi. E la incontrai, lì mi misi l’etichetta, alla fine mi ero trovata, io ero lesbica.
Avevo quasi 50 anni. Mi resi conto che volevo continuare ad essere lesbica per tutta la vita, dirlo a tutto il mondo e lottare perché la gente come me si rendesse conto di quello che era e lo accettasse con naturalezza.
Mi misi a lavorare come un’asino, diventai presidentessa in brevissimo tempo, come chi sogna di avere una moto ed alla fine ne ottiene una, non vuole solo farci un giretto, vuole padroneggiarla. Mi separai dalla mia compagna e cominciai una relazione con Beatriz Gimeno.
M: Perché dobbiamo essere visibili?
B: Tutto quello che è personale è politico. Non è una vita privata. Ho l’obbligo morale di essere d’esempio e di riferimento per quelli che verranno dopo di me, perché io non ebbi nessuno e fu molto brutto. I giovani devono sapere che ci sono donne che amano donne e uomini che amano uomini.
Dobbiamo essere visibili perché la gente che cammina per la strada veda che siamo normali, che non abbiamo corna in testa. Dobbiamo essere belle il più possibile, nel modo più naturale possibile. Bisogna che ci vedano, bisogna mostrare che esistiamo, che siamo diverse, che ce ne sono di feminnili, meno femminili e che ognuno di noi ha il diritto di essere com’è.
Dobbiamo essere visibili perché abbiamo diritto di esistere. Dobbiamo dare l’esempio. Perché dietro di noi c’è tanta gente che ha paura e la paura paralizza. Ti trasforma in una statua di sale. Dobbiamo dire di essere lesbiche e che stiamo bene.
Un giorno per la strada mi gridarono “LESBICACCIA”, io mi voltai e loro mi dissero: “Tu sei una lesbica”. Risposi: “Certo, e posso sposarmi, ho anche lottato per l’uguaglianza e continuo a farlo in un’associazione”. Restarono a bocca aperta.
Bisogna essere visibili perché così si rompono le catene. Affrontare i rischi. Ti cacciano di casa, lo sopporti, resti senza un soldo, lo sopporti, ti insultano, lo sopporti. Beh, certo, non visibilità ad ogni costo, bisogna essere prudenti, fare valutazioni. Non si può essere visibili allo stesso modo a Madrid ed in un paesino sperduto della Galizia.
M: E allora che fare nei paesini?
B: Nei paesini deve cambiare la mentalità dal basso, attraverso l’educazione. La Federazione, che è una montagna di meraviglie, ogni anno sceglie un tema. Questo è quello dell’educazione, tutte le iniziative della Federazione vengono attuate affinché nel processo educativo si tenga conto della realtà lesbica, gay, trans, bisex. Non solo per gli studenti, ci si occupa anche della realtà dei professori. E di padri e madri che sono loro stessi lesbiche, gay, trans e bisex.
Da una parte l’educazione, dall’altra i mezzi di comunicazione. Riviste, programmi radiofonici, qualsiasi cosa possa cambiare la mentalità del lettore, dell’ascoltatore, che mostri veramente come siamo. E’ più facile perché si entra nella realtà quotidiana. Jesus Vázquez, Boris Eyzaguirre, per esempio, parlavano di “mio marito” prima che esistesse il matrimonio. Essendo molto belli e famosi, piacciono alla gente.
Mancano donne in politica, cantanti, attrici e scrittrici lesbiche che escano fuori dall’armadio. Il giorno in cui una lesbica bellissima, presentatrice in televisione o attrice, dirà “Vedete, sono lesbica e felice”, la gente dei paesini e delle città, inizierà ad abituarsi.
M: Come si combatte l’omofobia nella quotidianità?
B: L’omofobia ha mille facce. La peggiore di tutte è quella interna, quella di lesbiche e gay, quella che ci fa sentire inferiori e ci trattiene dentro l’armadio.
Non c’è un solo armadio, ce ne sono migliaia: una persona può mostrarsi quando è fuori casa e non a lavoro, o con gli amici ma non in famiglia, o con la famiglia stretta ma non con i cugini nel paesino. Uscire fuori dall’armadio in tutti gli ambiti è molto difficile.
Per esempio, quattro anni fa ero con Beatriz e suo figlio in Chile. Stavamo uscendo dall’albergo e mi resi conto di aver dimenticato il cellulare. Salii correndo in camera e trovai la cameriera che lasciava i cioccolatini sopra il cuscino di ogni persona. Incominciò a dirmi: “Oh, lei è spagnola, che bello! Che le sembra il Chile?” ed io:
“Bellissimo, mi piace molto. Ho fretta, sono venuta solo per il mio cellulare”. E lei: “Si, si, corra corra. Chi l’aspetta giù? suo marito?”. Un armadio. La cosa più comoda: “Si”, prendere il cellulare e scendere, tutto qui.
Perché dare più spiegazioni a questa cameriera che non avrei mai più rivisto in tutta la mia vita? Un armadio piccolissimo, entri ed esci.
“No, non è mio marito, è mia moglie”, risposi e lei spalancò enormemente la bocca. “E’ che in Spagna c’è una legge che ci permette di sposarci”. Allargò la bocca ancora di più. “E’ che in Spagna abbiamo una legge perché tutti siano uguali”.
Lei rispose soltanto: “Allora metterò due cioccolatini ciascuna!”. O come quelle lesbiche a cui chiedono sul lavoro con chi faranno le vacanze e rispondono che andranno con un’amica.
Le mille forme dell’armadio. Bisogna uscirne costantemente. E la cosa peggiore è l’omofobia che ci portiamo dentro. Saper essere naturali, non vergognarsi, a volte non ci rendiamo conto.
M: Credi che un cambio nel governo potrà intaccare alcuni dei diritti ottenuti o quelli che stanno per essere raggiunti, come la donazione di ovuli fra coppie di donne?
B: Non oseranno. I diritti ottenuti non credo li toccheranno. E se lo faranno, vedrai che felicità, perché noi ci metteremo sul piede di guerra, combatteremo in trincea. Riguardo a quelli non ancora ottenuti, continueremo a lottare.
Evidentemente con un governo di destra sarà più difficile, ma non possiamo avere un governo che limita la nostra libertà. L’argomento della donazione degli ovuli, che bello, una donna che mette un ovulo nel corpo dell’altra. Continuiamo a lavorare su questo, come sulla regolamentazione degli uteri in affitto. Stiamo lavorando per aumentare i diritti.
E dobbiamo esigere una società laica, non si possono consentire accordi con la santa sede. Dio ci liberi da tutte le chiese, perché in nome di dio sono state commesse le più grandi aberrazioni che la società ha dovuto sopportare. Che insegnino le scuole e che i pulpiti stiano il più lontano possibile.
M: A quattro anni dall’approvazione della legge sul matrimonio omosessuale (ndr in Spagna), qual è la tua valutazione?
B: E’ una legge che ha fatto felici molte persone, le leggi devono essere fatte perché i cittadini siano felici, questa legge ha dato molta felicità. Le prime coppie che si sposarono furono molte coppie con relazioni di lunga durata, adulti che stavano insieme da molti anni.
Essere coppia di fronte al mondo, alla società, allo stato, e di fronte a chiunque… perché puoi chiamarmi LESBICACCIA o FROCIO, ma posso mostrarti un documento che dice che io sono esattamente come te.
Abbiamo fatto la legge sul matrimonio per questo paese, ottenendo che un paese che era sempre all’ultimo posto, si mettesse alla guida. Ci assicurammo che la Spagna diventasse ciò che è, io avevo fatto il mio piccolo ed era una cosa enorme.
Uscì fuori durante una riunione della federazione in cui lavoravamo su come avere una legge per le coppie omosessuali. Ci dicemmo, perché chiedere una legge speciale e diversa, come se noi fossimo diversi e speciali? perché non chiedere tutto? perché accontentarsi di una legge di serie b?
Ci consideriamo cittadini di serie b? No, io voglio ciò che ha il mio vicino, sono convinta di essere uguale a lui, pago le stesse tasse. Quindi no, voglio tutto, voglio le stesse cose, voglio il matrimonio.
A quell’epoca c’era il partito popolare, sapevamo che non avremmo ottenuto niente con loro, però ci preparammo per il cambio del governo. Dicevamo a tutti la stessa cosa, “non vogliamo più una legge sulle coppie omosessuali, vogliamo uguaglianza. E l’uguaglianza ha solo una parola: matrimonio. Se il mio vicino vuole sposarsi, lo voglio anche io”.
Ci riunimmo con tutti i politici di tutti i colori, fu un periodo meraviglioso. Volevamo il matrimonio, andavamo in televisione, alla radio e chiedevamo sempre la stessa cosa: uguaglianza.
Conseguimmo che la Izquierda Unida, per prima, e poi il PSOE dicessero: “Ok, quando governeremo, vi daremo l’uguaglianza”. E poi governarono.
Il giorno in cui la legge fu approvata fu uno dei più felici della mia vita. Tutti i deputati ci applaudirono e noi applaudimmo loro, piangendo come fontane. Fu un sogno.
Testo originale
Boti García Rodrigo: “Hay que ser visibles porque tenemos derecho a existir”