Essere gay in Iraq: “Se mi beccano mi ammazzano”
Articolo di Barbara Sciavulli tratto da La Stampa del 23 agosto 2007
Ogni volta che qualcuno bussa alla porta, Nyaz, Hassan e Jaffar si guardano e pensano che sia giunta la loro ora.
Ormai da sei mesi vivono insieme a casa di Wissam, in un quartiere di Baghdad. Anche se non riescono proprio a definirla vita. Si nascondono.
La loro unica distrazione è Internet, ma viste le spie che affollano le chat che frequentano, hanno paura anche della rete.
Nyaz, 28 anni, fino a poco tempo fa era una dentista, la sua famiglia aveva faticato molto per farle finire gli studi e sperava che facesse una brillante carriera. Hassan, 34 anni, è un attore, ha studiato all’accademia d’Arte di Baghdad e immaginava di recitare in tutti i teatri del mondo. Jaffar, appena 17enne, non ha ben chiaro cosa aspettarsi dalla vita, sa che quello che ha avuto finora non è stato molto.
Questi tre ragazzi nascondono un segreto che un giorno li ucciderà. Sono omosessuali.
Nyaz fa persino fatica a parlarne, è terrorizzata che qualcuno scopra la sua relazione con una donna, basterebbe il sospetto per essere condannata a morte. Ha smesso di vedere la sua compagna.
È troppo pericoloso, è già stata minacciata diverse volte, e le milizie del Mahdi, l’esercito di Moqtada al Sadr, il radicale sciita, le avevano ordinato di sposarsi con un vecchio mullah. Ma al solo pensiero trasale.
«Quando lavo i piatti, penso a come sarebbe semplice prendere un coltello e tagliarsi le vene. Non è forse quello che vogliono tutti? Per loro, per quello che è diventato il mio Paese oggi, sono un mostro, non degna di vivere, una donna senza religione, senza morale, senza diritti. Che io sia un medico, una persona per bene non conta nulla», dice Nyaz sfregandosi via le lacrime.
Hassan le tiene la mano, lui sa cosa significa perdere una persona che si ama, il suo compagno è stato rapito all’uscita della palestra. Ha visto quelli del Mahdi che lo portavano via e per tre ore è rimasto accucciato in un angolo sperando che non si accorgessero di lui.
Qualche giorno dopo il corpo del suo ragazzo è stato ritrovato alla camera mortuaria, era stato legato, torturato e sgozzato. In tasca un biglietto con la scritta «Sono gay». «A mio fratello, gli amici gli hanno detto che considerato il caos in cui viviamo, avrebbero potuto uccidermi senza che nessuno se ne accorgesse, e così lavare il disonore caduto sulla famiglia».
A Jaffar piaceva tenere i capelli lunghi, mettere vestiti un po’ appariscenti, ma un giorno ad un posto di blocco la polizia lo ha fermato. «Mi hanno trascinato fuori, mi hanno picchiato e violentato con un manganello. Speravo solo di non morire. Mi sono sentito così umiliato». Abbandonato in mezzo la strada, sanguinante e ferito, nessuno lo ha soccorso.
La comunità gay, come tutte le minoranze in Iraq, sono nel mirino degli integralisti. Il Grande Ayatollah al Sistani, massima autorità sciita, punto di riferimento di americani e inglesi per la stabilità del Paese, nell’ottobre 2005 ha emesso una Fatwa che diceva che gli omosessuali andavano uccisi.
Le proteste internazionali hanno costretto a rimuovere l’editto da Internet, ma l’esercito del Mahdi e quello del Badr, che fa capo allo Sciri, il partito sciita più importante, l’hanno preso alla lettera.
Gli omosessuali non si fidano della polizia, infiltrata di militanti, e spesso neanche della famiglia, travolta dalla vergogna di un figlio «diverso».
Le organizzazioni umanitarie confermano un aumento sconvolgente di agguati della polizia contro gli omosessuali. L’Onu ha sfornato un rapporto in cui si parla di corti religiose che sentenziano a morte i gay.
«Nessuno si occupa di questi ragazzi – spiega Wissam, 40 anni, che dirige la casa in cui si sono rifugiati Nyaz, Hassan e Jaffar.
Molti vorrebbero un passaporto ma al mercato nero costa circa 15 mila dollari. Il governo non se ne occupa, per loro la violenza è solo interreligiosa».
Wijdan Michael, la ministra per i diritti umani, sostiene di non aver ricevuto alcuna denuncia: «Temo che l’Onu stia ingigantendo il problema, tutti gli iracheni vengono attaccati, non perché gay ma per la loro appartenenza settaria».
Wissam scuote la testa: «Purtroppo non è così, gli attacchi non sono solo religiosi, ma anche verso le donne che non portano il velo, quelle che vogliono lavorare, contro chi indossa pantaloncini o ama lo sport, contro chiunque non si pieghi al radicalismo islamico».
I compagni di Wissam annuiscono. «Quando gli americani arrivarono ero felice – dice Hassan – Saddam non mi piaceva, ma con il tiranno eravamo tollerati, potevamo avere una vita sociale, c’erano locali per noi, bastava che fossimo discreti.
L’America purtroppo non riesce ancora a capire cosa ha fatto a questo Paese. Hanno lasciato che i fanatici religiosi andassero al potere. Ora siamo liberi, certo: liberi di vivere nascosti, di fuggire all’estero per salvarci o liberi di morire per il crimine di essere gay».