“Dobbiamo scusarci anche con i gay” Le voci del dissenso dentro la Chiesa
di Maria Novella De Luca e Paolo Rodari pubblicato su “la Repubblica” del 6 ottobre 2015
«La Chiesa oggi deve chiedere scusa a tre categorie di persone: i divorziati, i preti sposati e gli omosessuali. Spero che il Giubileo di papa Francesco renda giustizia a quelle migliaia di laici e religiosi emarginati e condannati per il loro modo di amare. C’è forse scritto nel Vangelo che i gay devono essere esclusi dalla compassione di Gesù? ».
Usa parole affilate padre Alberto Maggi, teologo e biblista di Ancona, sacerdote dalla voce autonoma e spesso scomoda, per puntare al cuore pulsante del “gay pride” cristiano. Ossia la sofferenza, ormai gridata, di migliaia di omosessuali all’interno della Chiesa cattolica romana, un universo sommerso di clandestinità e paura, scoperchiato dal clamoroso coming out del teologo polacco Krzysztof Charamsa, e della sua accusa urbi et orbi: «Il sant’Uffizio è il cuore dell’omofobia».
Studiato e ascoltato dai gruppi Lgbt (Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender), padre Maggi lancia un vero e proprio j’accuse: «Come si possono chiudere gli occhi? Come può il Vaticano imporre ancora la castità quale unica via di redenzione per chi si dichiara omosessuale? Io credo che il celibato sia una forma di libertà, ma deve essere una scelta, altrimenti è una crudeltà. I preti, le suore, come tutti gli esseri umani hanno il diritto di praticare l’amore. Quando un prete si innamora diventa più umano. Ormai è tempo che la Chiesa lo capisca».
La questione gay scuote i giorni del Sinodo. Perché oggi come ieri, nonostante le aperture di papa Francesco, i preti gay, che secondo alcune stime sarebbero il 15% del clero italiano, vengono emarginati, condannati alla clandestinità, mentre omosessuali e lesbiche laici restano esclusi dai sacramenti e dalla vita pastorale. Considerati rei (o peggio) ancor più per la scelta di mettere al mondo dei figli.
Eppure nella Chiesa diventano sempre più forti le voci di dissenso, contro una gerarchia che «perseguita e spegne il sorriso di chi si dichiara omosessuale », dice (don) Franco Barbero, torinese, ex prete, ridotto allo stato laicale nel 2003, proprio per le sue posizioni a favore del mondo “omo” e contro il celibato. Ma si moltiplicano anche i gruppi di cattolici Lgbt che cercano un ponte verso la Chiesa, in Italia ce ne sono oltre 40, oggi riuniti nella sigla “Cammini della speranza”, parte del “Global network of rainbow catholics”. In una specie di contro-sinodo, che chiede di trovare «il posto giusto per ogni membro del popolo di Dio, tra cui le persone Lgbt». In una casa comune chiamata Chiesa. In cui comunque, se si è gay, «si può arrivare anche a togliersi la vita per disperazione », denuncia Franco Barbero, che pur non essendo più sacerdote, continua a “benedire” le coppie omosessuali. «Conosco oltre 1300 preti omosessuali, vivono in clandestinità, si ammalano, entrano in depressione. Eppure sono appassionati del Vangelo, e il solo pensiero di abbandonare il sacerdozio li getta nella disperazione».
Più cauto Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo, ascoltato pure dal mondo Lgbt. «La Chiesa non è omofoba. La maggior parte dei miei confratelli vescovi riconosce che l’omosessualità non è una devianza. Infatti, quei sacerdoti omosessuali che riescono a vivere il celibato, devono essere accettati come tutti gli altri. E molti sanno trovare un equilibrio che permette loro di vivere anche i momenti di croce, senza destabilizzarsi». Celibato dunque, e su- blimazione, così come prevede la dottrina attuale, non condivisa però da parte del “dissenso”.
Vittorio Bellavite, ad esempio, coordinatore del gruppo di cattolici “Noi Siamo Chiesa”, che si batte per la pari dignità di gay ed eterosessuali nella comunità cristiana. «Bisogna parlare della sofferenza degli omosessuali nella Chiesa. Conosco sacerdoti che si sentono spezzati in due. Perché la Chiesa è ancora fortemente omofoba, come dimostra il no ai matrimoni tra persone dello stesso sesso…». Certo, cinquant’anni fa, prima del Concilio Vaticano II, il silenzio era ancora più fitto. Una coltre d’omertà e paura oggi soltanto in parte diradata per i cristiani gay .
«Ma noi crediamo nell’apertura di papa Francesco», dice sereno Andrea Rubera, credente e praticante, fondatore del gruppo di omosessuali cattolici “Nuova proposta”, sposato in Canada nel 2009 con il suo compagno e padre di tre bambini. «Il coming out di Charamsa, così duro verso la Chiesa, non ci rappresenta. Noi siamo parte della Chiesa, è nelle parrocchie che ci incontriamo, i miei figli sono battezzati, le nostre famiglie sono diverse sì, ma sono un dono d’amore. I tempi sono maturi perché dal Papa arrivi una pastorale inclusiva del mondo omosessuale, ma non indichi come unica via quella della castità. Del resto per vincere il movimento gay ha sempre gettato il cuore oltre l’ostacolo ».
E si riallaccia proprio alle grandi battaglie dei gay Vittorio Lingiardi, ordinario di Psicologia Dinamica alla Sapienza, uno dei massimi conoscitori in Italia dell’universo Lgbt, che invece ritiene “rivoluzionaria” la dichiarazione del teologo Charamsa. «D’ora in poi nessuno potrà più dire, “io non sapevo”.
È come quando il clero dovette riconoscere Copernico. Ci vorrà tempo, basta guardare la battaglia di retroguardia sul gender, anche la prima grande manifestazione gay a New York nel 1968 venne repressa nel sangue, eppure in quei giorni è nato il movimento di liberazione. Ma questo è il segno che se vuole sopravvivere la Chiesa deve aprirsi a tutte le differenze. Omosessualità inclusa».