Del matrimonio battesimale e di quello sinodale
Riflessioni di Stefano Sodaro* pubblicato su Il giornale di Rodafà, rivista online di liturgia del quotidiano, n.338, del 25 ottobre 2015
Nella bimillenaria storia della Chiesa tra la “fides quae creditur” e la “fides qua creditur” – cioè tra l’enunciato di fede ed il modo di viverla del credente – si è progressivamente consolidata una specie di dialettica che, da un lato, risulta spesso pressoché incomprensibile a chi non è uso alla frequentazione delle delicatissime linee ecclesiali di elaborazione e sviluppo ma, dall’altro, provoca e stimola un inappagamento costante, un desiderio di continuare a domandarsi, a cercare, a ipotizzare, a sognare.
Della Relazione finale dell’Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi che si chiude oggi con l’Eucarestia in San Pietro parlano un po’ tutti da ieri sera. Il suo testo è consultabile al link
Vi erano attese, quasi spasmodiche, su un punto specifico della pastorale matrimoniale, è inutile negarlo o girarvi attorno: l’ammissione alla vita sacramentale di coloro che hanno sperimentato la morte di un precedente matrimonio, celebrato nella Comunità Cristiana e secondo la liturgia della Chiesa, e hanno iniziato una nuova vita matrimoniale, davanti alla Comunità Civile e senza celebrare un nuovo sacramento nuziale.
Si è continuato a ripetere, in queste tre settimane, che tutto sommato si trattava di questione secondaria, niente affatto decisiva, di un aspetto peculiare di temi ben più vasti, che era in discussione una visione antropologica onnicomprensiva sul matrimonio e la vita familiare da ripensarsi per conformarla sempre meglio alle esigenze evangeliche.
Ed è il n. 84 della Relazione finale a contenere la risposta alle attese: «I battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni occasione di scandalo. La logica dell’integrazione è la chiave del loro accompagnamento pastorale, perché non soltanto sappiano che appartengono al Corpo di Cristo che è la Chiesa, ma ne possano avere una gioiosa e feconda esperienza. Sono battezzati, sono fratelli e sorelle, lo Spirito Santo riversa in loro doni e carismi per il bene di tutti. La loro partecipazione può esprimersi in diversi servizi ecclesiali: occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate. Essi non solo non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa, sentendola come una madre che li accoglie sempre, si prende cura di loro con affetto e li incoraggia nel cammino della vita e del Vangelo. Quest’integrazione è necessaria pure per la cura e l’educazione cristiana dei loro figli, che debbono essere considerati i più importanti. Per la comunità cristiana, prendersi cura di queste persone non è un indebolimento della propria fede e della testimonianza circa l’indissolubilità matrimoniale: anzi, la Chiesa esprime proprio in questa cura la sua carità.». Questo n. 84 ha avuto 72 Padri sinodali contrari.
Il n. 72, invece, che si occupa dei matrimoni misti – cioè tra cattolici ed altri cristiani non cattolici – e ribadisce soltanto indicazioni già formulate ed espresse, provocando forse una certa afflizione in chi vive questi matrimoni quotidianamente come straordinaria occasione di speranza, vede solo 29 voti contrari.
Così pure il n. 76 sulla visione ecclesiale dell’omosessualità, pure ribadendo posizioni ben note e non innovando al riguardo sotto nessun aspetto, vede consensi altissimi, di ben 221 voti favorevoli.
Quanto sopra testimonia di un cammino sinodale complesso, impervio, che, al di là degli unanimismi edificanti e un po’ di circostanza, segna uno spartiacque storico tra il dire che “sì, la Chiesa, pur presente nel mondo, deve rinviare a quell’altro Mondo” od invece che “sì, pur dovendo la Chiesa rinviare all’ulteriorità del Cielo, deve però conoscere la Terra”, amare e conoscere questo Mondo per poter anche solo pensare all’Altro.
Tutto bene, ma c’è il male. Oppure: che ci sia il male lo diamo per scontato, ma ci interessa il bene.
Declinando ancora: d’accordo attenzione all’Uomo, ma importante è Dio. Oppure: d’accordo attenzione a Dio, ma importante è la concretezza umana, fragile, contingente, peccatrice.
Ed il Papa sembra porsi proprio nel mezzo di simile spartiacque con queste parole pronunciate ieri nell’Aula sinodale:
«E – aldilà delle questioni dogmatiche ben definite dal Magistero della Chiesa – abbiamo visto anche che quanto sembra normale per un vescovo di un continente, può risultare strano, quasi come uno scandalo – quasi! – per il vescovo di un altro continente; ciò che viene considerato violazione di un diritto in una società, può essere precetto ovvio e intangibile in un’altra; ciò che per alcuni è libertà di coscienza, per altri può essere solo confusione. In realtà, le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale – come ho detto, le questioni dogmatiche ben definite dal Magistero della Chiesa – ogni principio generale ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato. Il Sinodo del 1985, che celebrava il 20° anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II, ha parlato dell’inculturazione come dell’«intima trasformazione degli autentici valori culturali mediante l’integrazione nel cristianesimo, e il radicamento del cristianesimo nelle varie culture umane». L’inculturazione non indebolisce i valori veri, ma dimostra la loro vera forza e la loro autenticità, poiché essi si adattano senza mutarsi, anzi essi trasformano pacificamente e gradualmente le varie culture.»
Sembra la magna charta di un principio di relatività cristiana che impone di valorizzare la complessità – quella stessa poi rivelatasi presente più che mai proprio nel Sinodo -, di attraversare la contraddizione, di sgonfiare, se è lecito esprimersi così, massimalismi dottrinali ed etici che non hanno portato alcun messaggio di salvezza, di liberazione, di consolazione.
“Occorre discernere”, dicono solennemente i Padri riuniti in Sinodo con il Papa.
Non sembri blasfemo, ma dal momento che simile invito potrebbe essere anche laicamente letto come un “occorre relativizzare” oppure, più sommessamente, “occorre distinguere”, oppure, meglio ancora, “non si può generalizzare”, od infine “occorre contestualizzare”, è chiaro, pacifico, evidente che i nemici del Papa venuto dall’altro mondo – ed artefice primo, secondo loro, di simile relativismo – schiumino di rabbia e di impotenza.
Con tutta una serie di iniziative al limite del grottesco cui il Papa non ha evitato di fare un chiaro, ed arguto, riferimento quando ha affermato, sempre ieri, nel citato discorso: «Nel cammino di questo Sinodo le opinioni diverse che si sono espresse liberamente – e purtroppo talvolta con metodi non del tutto benevoli – hanno certamente arricchito e animato il dialogo, offrendo un’immagine viva di una Chiesa che non usa “moduli preconfezionati”, ma che attinge dalla fonte inesauribile della sua fede acqua viva per dissetare i cuori inariditi».
Insomma il matrimonio che scaturisce dai celibi membri del Sinodo corre ancora sul filo dell’accordo da definire, del consenso minimo da assicurare, del documento da produrre, del modulo da verificare.
Ma poi c’è l’evento.
C’è la vita di ognuno di noi, sposato o non sposato che sia.
C’è il desiderio di amore – perché passa qui la distinzione tra il tutto o il niente – che si esplica come soltanto la singola coscienza, pur coinvolta nelle reti comunitarie di relazioni e comunicazioni, Sto arrivando! e comprende.
La parola “discernimento” dice “coscienza”.
E la parola “discernimento” su questioni matrimoniali chiede cosa significhi amare in coscienza. Cioè davanti a se stessi e, trattandosi di discorso svolto in un quadro di riferimento ecclesiale, davanti a Dio.
Allora, nonostante le singole tante coscienze, c’è forse un unico matrimonio, comunitario per non dire “collettivo”, su cui fare il primo e fondamentale discernimento, quello del Battesimo.
Vi è cioè il rischio di sopravvalutare il momento sacramentale, che è pur sempre dimensione simbolica anche se, nella dottrina di fede, assolutamente reale, lasciando in ombra ciò che il sacramento deve significare: l’unione tra tutti gli appartenenti, e le appartenenti, alla famiglia umana e l’unione tra questa famiglia umana e Dio stesso. Già, niente di meno.
La fede nuda che il Battesimo traduce con il segno di semplice acqua davanti alla coscienza deve avere il coraggio di mantenere la propria nudità sino alla fine.
Il matrimonio è fatto di questa medesima nudità essenziale, primigenia, fontale. Ma ad essa partecipa, non la sovrasta e la assorbe, non è il matrimonio a decidere della fede personale, non è il matrimonio a venire – nella comunità dei credenti – prima del Battesimo.
Qui non ci sono consensi da ricercare, accordi da votare, abiti da confezionare.
C’è da credere, non si Sto arrivando! bene come e non si Sto arrivando! neppure bene perché, e c’è da amare. Anzi, più da amare che da credere, perché poi la fede non è che una declinazione dell’amore.
Allora il matrimonio, in coscienza, è molto di più di quanto possa scaturire da qualunque assise ecclesiale pur somma e autorevole.
Ma è anche molto di meno rispetto a quanto le gigantografie agiografiche tentano di proiettare, schiacciando mariti e mogli sotto il peso di un incarico che sembra insostenibile, persino pauroso, perché eroico e martirizzante.
Ed il papa afferma ancora: «(…) senza mai cadere nel pericolo del relativismo oppure di demonizzare gli altri, abbiamo cercato di abbracciare pienamente e coraggiosamente la bontà e la misericordia di Dio che supera i nostri calcoli umani e che non desidera altro che «TUTTI GLI UOMINI SIANO SALVATI» (1 Tm 2,4), per inserire e per vivere questo Sinodo nel contesto dell’Anno Straordinario della Misericordia che la Chiesa è chiamata a vivere.
(…) l’esperienza del Sinodo ci ha fatto anche capire meglio che i veri difensori della dottrina non sono quelli che difendono la lettera ma lo spirito; non le idee ma l’uomo; non le formule ma la gratuità dell’amore di Dio e del suo perdono. Ciò non significa in alcun modo diminuire l’importanza delle formule: sono necessarie; l’importanza delle leggi e dei comandamenti divini, ma esaltare la grandezza del vero Dio, che non ci tratta secondo i nostri meriti e nemmeno secondo le nostre opere, ma unicamente secondo la generosità illimitata della sua Misericordia (cfr Rm 3,21-30; Sal 129; Lc 11,37-54). Significa superare le costanti tentazioni del fratello maggiore (cfr Lc 15,25-32) e degli operai gelosi (cfr Mt 20,1-16). Anzi significa valorizzare di più le leggi e i comandamenti creati per l’uomo e non viceversa (cfr Mc 2,27).»
Inizia dunque da ieri sera, e poi da oggi, un nuovo percorso di Chiesa, una nuova pagina della sua Storia, che non è fatta semplicemente di entusiasmi o di disperazioni, di scandali o di santità, di quisquilie rubricistiche o di interrogativi laceranti, bensì è fatta di persone concrete, con nome e cognome, di volti, di storie. Una Storia della Chiesa fatta di storie delle nostre vite.
Questo è stato, questo è, questo sarà.
Ma sotto l’angolo visuale del discernimento invece che della condanna o del premio, vien da sentirsi più a proprio agio, cioè con un Dio più vicino, nella notte luminosa della vita.
Buona domenica.
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* Stefano Sodaro è il direttore de “Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano” è giornalista pubblicista, socio dell’Associazione Teologica Italiana (ATI), della Consociatio Internationalis Studio Iuris Canonici Promovendo, della Società per il Diritto delle Chiese Orientali, dell’Associazione Italiana Giuristi d’Impresa (AIGI), socio aggregato del Coordinamento Teologhe Italiane (CTI) e membro del Gruppo Italiano Docenti di Diritto Canonico (GIDDC).
Già cultore della materia in diritto canonico ed ecclesiastico presso l’Università degli studi di Trieste, ha frequentato dal suo inizio la Scuola di Filosofia di Trieste coordinata dal Prof. Pier Aldo Rovatti.