Viaggio in Congo, tra le vite nascoste delle persone LGBT
Articolo di Delphine Bauer pubblicato sul sito 360° (Svizzera) il 12 agosto 2015, libera traduzione di Marco Galvagno
Nella repubblica democratica del Congo l’omosessualità resta uno dei più grandi tabù. Definita come una stregoneria o come una pratica importata dai bianchi, la negazione è ancora pregnante, ma la comunità Lgbt è decisa a far sentire la sua voce.
Merveille, 24 anni, non passa inosservato quando cammina per le strade polverose e rumorose di Kinshasa. Andatura ondeggiante, rossetto rosa fosforescente e orecchini di strass; il ragazzo, che sogna di essere una donna da quando era piccolo, spera di avere l’opportunità di farsi operare un giorno in Europa, dove è possibile. Si becca osservazioni e prese in giro al suo passaggio, quanto agli insulti ormai ci è abituato e rivendica la sua apparenza femminile.
Fa strano nella Repubblida Democratica del Congo, è anche andato in tv per parlare apertamente della sua vita personale. Ma per un Merveille visibile quanti congolesi sono obbligati a nascondere il loro orientamento sessuale?
Infatti nella maggioranza dei paesi dell’Africa sub sahariana le minoranze sessuali hanno ancora tante strade da percorrere per l’uguaglianza dei diritti con gli eterosessuali. L’omofobia anche se non assume le forme dell’attacco diretto così violento, come in Uganda dove vi sono omicidi rivendicati come omofobi, è tuttavia crescente nella società congolese e i pregiudizi sono numerosi.
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Radici multiple
“Siamo africani, un pene deve stare per forza con una vagina, non in un ano. La nostra cultura primeggia sulla concezione della sessualità” ricorda Rich, 24 anni, bel ragazzo studente di medicina, che non lesina parole sul tema dell’omosessualità. Nel suo paese il suo orientamento sessuale è una lotta.
“Molti credono che si tratti di stregoneria, associano l’omosessualità a una malattia mentale, alla bestialità. Alcuni sostengono persino che i bianchi abbiano importato questa pratica” afferma Justice Walu, un quaranteenne omosessuale, molto impegnato in difesa dei diritti dei gay. E l’atmosfera politica non è affatto pacifica.
Nel 2013 un progetto di legge che aveva come scopo quello di penalizzare l’omosessualità è stato proposto all’assemblea del popolo dal deputato Steve Mbiyaki. Il progetto di legge comprendeva 37 articoli e prevedeva una pena da 3 a 5 anni di prigione per i gay e dai 3 ai 12 anni per i trans. Nel 2010 era già stato presentato un altro progetto di legge, ma non era passato. Il tema è molto delicato dal punto di vista politico.
Justice Walu si preoccupa del vuoto legislativo. Certo le leggi non sono state adottate, ma la costituzione del paese non difende le minoranze. Tra i due estremi tutte le interpretazioni sono possibili e spesso sono le peggiori a prevalere.
Non per niente ci sono anche le chiese cristiane ad alimentare l’omofobia, in un paese estremamente religioso, addirittura fanatico, a causa di certe congregazioni, come le chiese del risveglio, che fanno molti proseliti, ma i cui pastori tengono prediche (omofobi) che fanno venire i brividi alla schiena. “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si legherà alla sua sposa, ha detto Cristo”, lo hanno ricordato recentemente i pastori Ndibu e Dinanga, che officiano nel comune di Ngaliema vicino a Kinshasa. Durante una predica ai giovani hanno riaffermato che la repubblica democratica del Congo ha le proprie tradizioni che non ammettono deroghe, altrimenti si viene considerati male.
I due pastori del resto non esitano a equiparare la pedofilia con l’omosessualità, come fanno di solito i più ostili ai gay. La minaccia del matrimonio gay in Francia, adottato nel 2013, è stata anche l’occasione per designare l’omosessualità come un vizio occidentale. Quanto al pastore Theodore Magalu afferma, nelle sue prediche televisive, che gli omosessuali bruceranno tra le fiamme dell’inferno, suscitando l’ilarità del chirurgo Hilare Mwoblie, impegnato nella lotta contro l’aids, che se la ride beato davanti a tanta stupidità.
Rich narra di un suo amico omosessuale che si era confidato a lui a proposito del proprio orientamento sessuale. Poi ha deciso che doveva “tornare sulla retta via” e oggi vuole diventare pastore e far partire una crociata contro questi giovani “disturbati dalla loro identità sessuale” annunciando che si può guarire dall’omosessualità. Rich si preoccupa per questo cattivo esempio.
“Non cambierà. Vorrei davvero che questi ragazzi si accettassero e che stessero bene con se stessi”, dice amareggiato. Il suo ultimo progetto è quello di trovare dei fondi per creare un rifugio per i giovani gay cacciati di casa, che vivono per strada, quelli che incontra tramite l’associazione sono distrutti.
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Rischi quotidiani
Dato che la paura dello stigma è quotidiana, l’anonimato è stata una condizione richiesta da quasi tutti gli intervistati di questo reportage. La paura del rifiuto è la prima giustificazione, poi viene la paura di macchiare l’onore della famiglia. Justice Walu sa di essere omosessuale da quando era piccolo, ma si è coperto il volto.
“Avevo una paura enorme di essere scoperto”, riconosce davanti all’evidenza, “ho rifiutato una relazione fino all’università, optando per una castità obbligata”.
Oggi il suo compagno, che si è piegato alle sirene della tradizione e alle pressioni famigliari, vive in Canada. È sposato, Justice lo vede raramente e soffre enormemente della situazione. “Alla luce c’è la moglie io, il suo vero amore, vivo nell’ombra. Devo accontentarmi”, dice amareggiato. Justice Walu ha deciso di lasciare la sua testimonianza in un blog, per parlare di questo tema così poco affrontato, rifiuta però di fare un coming out ufficiale.
“Mio padre ha esercitato funzioni importanti nello stato ed è stato sepolto con gli onori militari, non voglio associare il suo cognome alla mia militanza” dice perentorio. “Mia madre lo sospetta di sicuro, ho cercato di convertirmi all’eterosessualità, ma non ci sono riuscito” riconosce. Cosa lo salva? Paradossalmente una brutta notizia, “da quando mi hanno scoperto una grave malattia al cuore più nessuno, della mia famiglia, mi dice, quando ti sposi?” . È un male che porta un bene.
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Troppi pregiudizi
“Le donne soffrono anche loro di mali simili a quelli dei loro colleghi maschi, senza contare che devono fare i conti con la condizione generale della donna in Africa”. Sospira Fanny, impegnata in un’associazione femminista, questa lesbica trentenne di Kinshasa denuncia le discriminazioni di cui le lesbiche sono vittime.
Ai suoi occhi il matrimonio lo devi alla famiglia, alla comunità, “ci si aspetta che la donna faccia dei bambini e che sia mantenuta da un uomo: padre, zio, marito. Decidere di non sposarsi, come ho fatto io, è tirare una riga su una fonte di sostegno economico”. Nella sua famiglia sua madre, una donna molto aperta, accetta la sua omosessualità, ma non riesce a evitare dal farle alcune osservazioni, ad esempio quelle sul futuro di suo figlio di 4 anni concepito in maniera naturale con il suo migliore amico.
“Tra qualche anno, quando ti farà delle domande che cosa gli dirai?”, le chiede la madre.
Maguy è una trentottenne che proviene da una famiglia benestante: “Ho subito due anni di mobbing quando il mio capo ha scoperto che ero lesbica. I miei colleghi mettevano in guardia le mie colleghe dicendo che ero una strega, che le avrei sedotte. Non avevo più un ufficio, lavoravo nel corridoio. La situazione è cambiata quando è arrivato un nuovo dirigente che era bisex, ha capito la mia situazione, mi ha fatto reintegrare nelle mie funzioni e mi ha ridato un ufficio”.
Maguy non ce la fa a rimettersi, anche la sua vita personale è complicata. “Sono in coppia con una donna che ha appena partorito. Ho tenuto questo bambino, frutto di una relazione parallela, perché fosse il nostro bambino. Mi sono ingegnata per riconoscere il bambino, sostenendo che Maguy era un nome anche maschile. L’aiuto finanziariamente, ma ci vediamo sempre più raramente. Ho paura che un giorno non mi lasci più vedere mia figlia”, si preoccupa. Le famiglie omoparentali esistono davvero, ma in maniera ufficiosa senza nessun statuto legale, a rischio e pericolo del genitore non biologico.
Il rifiuto dell’omosessualità femminile va ancora più in la della stigmatizzazione professionale, alcune donne subiscono stupri collettivi. Fanny mi racconta storie di donne lesbiche drogate e violentate per rimetterle “sulla retta via dell’eterosessualità”. Fortunatamente nella repubblica democratica del Congo sono casi estremamente rari.
Molto più spesso avviene che i giovani gay vengano cacciati di casa. “Spesso si raggruppano tra loro, lontano dalle loro famiglie”, specifica il dottor Hilaire Mwabie. “Molti non hanno altra scelta che quella di prostituirsi per guadagnare un pezzo di pane” spiega Pascale Bornic Mwunga, coordinatrice generale di Médecins du Monde a Kinshasa. “Rischiano di contrarre l’aids e l’epatite”.
Come ricorda il dottor Hilaire Mbwalie la percentuale dell’aids tra gli uomini che hanno rapporti con altri uomini è del 31% in Congo, contro un 1, 2% della popolazione generale, sono dati significativi. Con una squadra di volontari, un anno fa, ha potuto montare una clinica mobile con la quale la notte va nei punti caldi della capitale per favorire la prevenzione e i test del sangue.
“Di sera inoltrata le persone si sentono più a loro agio, hanno meno paura di essere riconosciuti facendo il test per individuare se sono ammalati”, spiega nel suo ambulatorio, pieno di antiretrovirali che fornisce ai malati. Preoccupato ricorda che spesso i medici “giudicano, criticano o rifiutano di curare le fessure anali, nel momento in cui i pazienti vengono identificati come omosessuali”.
La sua esperienza in ospedale gli ha mostrato l’omofobia imperante nel corpo medico. Di conseguenza molti gay si autocensurano e sono privi di cure. La sua richiesta presso le autorità è chiara “Se noi non facciamo niente per fermare l’evoluzione dell’aids presso i gay non potremo recuperare le cose”.
Fortunatamente sembra che la situazione stia migliorando, le popolazioni più vulnerabili (omosessuali, lavoratori del sesso e drogati) sono appena state prese in carico dalle autorità congolesi come obiettivi prioritari nella lotta contro l’aids. I fondi delle Nazioni Unite arriveranno. “La repubblica democratica del Congo occupa sempre di più un posto strategico nel cuore dell’Africa e avrebbe la possibilità di influenzare una politica dei diritti umani e della sanità pubblica”, si diletta a pensare il dottore.
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Piccoli stratagemmi
In questa vita nascosta rimangono alcune isole di leggerezza come la creazione di un linguaggio particolare, il kipopo, che permette di incontrarsi e di capirsi tra gay.
“Essere alle 12 significa essere eccitati, un viandante è un gay, il muro di Berlino indica le persone ostili. Quando siamo in gruppo e qualcuno dice la parola muro di Berlino cambiamo argomento”. Justice Walu evoc,a anche con una risata divertita, le espressioni più sessuali.
“Per designare un rapporto sessuale appassionato si dice ‘amici se aveste visto il luogo dell’atterraggio d’emergenza ci son stati 500 morti’, ma se si evoca un ‘piccolo aliante’ significa un rapporto insignificante, non bello”, dice divertito.
Questo vocabolario è una specificità congolese, un etero non ci capirebbe nulla. Il kipopo viene parlato nella comunità LGBT per facilitare il riconoscimento in alcuni parchi di Kinshasa che si trasformano, di notte, in spazi di incontro. Esistono anche alcuni bar dove ci si può far notare più facilmente da altri uomini. Ma questi luoghi restano rari.
Maguy stanca di nascondersi e di dover subire pressioni da parte della sua famiglia pensa a qualche stratagemma per vivere meglio nel quotidiano: il matrimonio di convenienza. “ Sono pronta a farvi ricorso, mi piacerebbe trovare un gay che cercasse anche lui un po’ di respiro. Abiteremmo nella stessa casa, ma ognuno avrebbe la sua camera, non dormiremmo insieme.”
“Qua nella repubblica democratica del Congo non è raro vedere uomini sposati frequentare altri uomini” come ricorda Justice Walu che conosce varie coppie in questa situazione.
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Pronta a impegnarsi
Il 17 maggio scorso la comunità LGBT di Kinshasa si apprestava a celebrare per la seconda volta la giornata mondiale dell’omofobia. In un discreto bar, affittato per l’occasione, decine di membri delle associazioni LGBT congolesi si sono riuniti. “Peccato che certi non osano partecipare per paura di venire associati a questo avvenimento”, spiega Justice Walu. “Ritengono che il luogo non sia abbastanza nascosto. È una prova che l’omosessualità rimane una via crucis nella repubblica democratica del Congo”.
In prima serata proiettano un film brasiliano sulla relazione forte tra due fratellastri che si trasforma in una storia d’amore, una volta diventati adulti che permette di trattare il tema dell’infanzia diversa. Poi, in questo clima gioioso e infantile che i congolesi si sono lanciati sulla pista da ballo. Scatenati in coreografie infernali hanno fatto onore alla reputazione festiva di Kin, verso e contro tutti.
Là nell’oscurità di una sala da ballo, tra due birre Primus la birra congolese) e scherzi tra amici, questi giovani sono solo se stessi, liberi nel loro orientamento sessuale, la loro gestualità, il loro abbigliamento, senza paura di essere giudicati. Aspettano solo la luce.
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Testo originale: Au Congo, une communauté LGBT dans l’ombre