Sinodo, sull’omosessualità un silenzio rumoroso
Riflessioni di Damiano Migliorini pubblicato sul sito di MicroMega il 27 ottobre 2015
Una canzone di qualche anno fa diceva: “anche i silenzi, lo sai, hanno parole”. Con un po’ d’ironia – che non guasta mai – possiamo utilizzare questa frase come chiave interpretativa della Relatio finale del Sinodo sulla Famiglia appena concluso. In un duplice senso: se vogliamo cercare di leggere questo documento, le sue parole e i suoi silenzi, dobbiamo proprio fare silenzio, ascoltandolo nella quiete, lontani dalla delusione immediata generata più dai titoli di giornale – dai chiassosi ‘è pro’ questo, ‘è contro’ quello, è innovatore o retrogrado – che dai reali contenuti. Il silenzio favorisce, di solito, riflessioni che vanno un po’ più in profondità, almeno negli intenti. Per un approccio spicciolo, del resto, anche senza voler esser troppo pitagorici, bastano i numeri delle votazioni dei paragrafi: l’epifenomeno che già mostra dove davvero si è giocata la partita.
Già lo scrivevo a suo tempo (Sinodo e omosessualità: è ancora troppo presto?, in Rocca, maggio 2015[1]): il tema chiave, su cui i vescovi avrebbero “rischiato” ed eventualmente “cambiato qualcosa” era quello dei divorziati risposati, nell’attuale Relatio affrontato ai numeri 84-86. Credo siano inutili ulteriori commenti su questi paragrafi, visto che la stampa si è già scatenata a sufficienza. Se non uno: il papa, con il Motu Proprio che semplificava le procedure di nullità (Mitis Iudex Dominus Iesus, dell’8 sett.), aveva tolto ai padri sinodali l’alibi di ripararsi dietro questa “soluzione” alle difficoltà (come era avvenuto nel Sinodo 2014). Saggiamente, e anticipando tutti, il papa ha indicato al Sinodo che doveva andare ben oltre questi tecnicismi giuridici, mettendo l’Assemblea di fronte al suo reale compito (pastorale e dottrinale). Il risultato, di portata non indifferente, sono proprio questi numeri.
Non ha molto senso insistere nemmeno sulla questione del “cambio di metodo” impresso da Francesco: sulla spinta alla collegialità, alla vera sinodalità, alla conversione kenotica del papato, si sono giustamente spesi fiumi d’inchiostro e di megabyte, per cui non mi ci soffermerò. Come si è fatto notare da più parti, su questo, effettivamente, «il grande passo è già stato compiuto» (M-D. Semeraro, Le chiavi di casa. Appunti tra un Sinodo e l’altro, La Meridiana, p. 78). Con buona pace di quella galassia di contestatori reazionari che, nell’ultimo anno, non hanno lasciato ai posteri la migliore immagine di sé.
Di misericordia, in effetti, se n’è vista parecchia in questi mesi: sotto altri papi, le esternazioni e insinuazioni velenose di alcuni esponenti del cattolicesimo italiano sarebbero state stigmatizzate con severità, e i suddetti personaggi sarebbero stati cortesemente invitati a zittirsi (nel migliore dei casi) o allontanati dai circoli culturali cattolici (nel peggiore). E invece sono ancora lì. Se non altro, si saranno accorti che la libertà d’espressione è buona cosa anche per loro, non solo per i “progressisti”.
Del resto, si sa, «i moderni Raskolnikov cattolici si schierano fin troppo facilmente per il papa e per i vescovi, quand’essi insegnano ciò che loro sembra giusto. Per il resto si dispensano anche da quella obbedienza incondizionata al magistero, che difendono senza differenziazioni come principio santo contro i “modernisti” di oggi» (K. Rahner, Nuovi saggi, Paoline 1975, p. 412).
Sollecitato anche dalle domande di molti amici che mi chiedevano un’opinione sull’esito del Sinodo, preferisco allora entrare nel merito di alcune affermazioni – e omissioni – della Relatio. Mi interessano soprattutto le omissioni, cioè quei “silenzi parlanti” che la canzone richiamata in qualche modo evoca. Prima di concentrarmi sul tema di mia specifica competenza – l’omosessualità – mi siano però concesse alcune considerazioni su altri aspetti della Relatio. Sono valutazioni “a caldo”, e pertanto contengono grandi margini di perfezionamento.
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Uno sguardo d’insieme: tra luci e ombre
Innanzitutto, noto che l’indicazione del circolo Italicus C, contenuta nella relazione sulla terza parte dell’Instrumentum laboris (del 21 ott.[2]), che affidava al Santo Padre «l’approfondimento del rapporto tra aspetto comunionale e medicinale della comunione eucaristica» non è stata accolta. È il primo tra i vari “silenzi” del testo. Un vero peccato, perché, come ebbi a dire già all’inizio del Sinodo 2014, la vera questione che soggiace alle varie diatribe sulle singole categorie di persone ammesse al sacramento, è proprio quella della natura e del significato – mai sufficientemente chiariti – dell’Eucaristia (cf. L’Eucaristia e il Sinodo: la posta in gioco, nel blog de Il Regno[3]).
Il problema non è la condizione specifica dei divorziati risposati, ma l’idea generale secondo cui vi sono delle condizioni morali previe, per un battezzato, per accedere all’Eucaristia. Questione teologicamente complessa, ma che prima o poi dovrà essere tematizzata e discussa, forse proprio nella direzione indicata dal papa, e cioè superando «le costanti tentazioni del fratello maggiore e degli operai gelosi» (papa Francesco, Discorso del Santo Padre a conclusione dei lavori della XIV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 24.10.2015[4]). Evidentemente, il “problema” non è l’indissolubilità, ma la dottrina sull’Eucaristia.
Inevitabili, inoltre, le “perplessità teologiche” che nascono dalla lettura del n. 38. La tesi secondo cui la famiglia è “immagine di Dio” (Trinità) come lo è il singolo uomo (il richiamo a Genesi è esplicito nel testo) è, a mio avviso, ancora foriera di fraintendimenti, e le controversie teologiche su questo punto non sono ancora state dipanate in modo soddisfacente, nonostante la tesi abbia ormai acquisito autorevolezza attraverso la sua assunzione nei documenti dei precedenti pontificati. Tensione teoretica emersa al n. 48, dove si afferma che «l’uomo e la donna, individualmente e come coppia, […] sono immagine di Dio». L’antropologia trinitaria è, allo stato attuale, piuttosto fragile (anche perché molto recente), e sorprende come essa sia invece data per scontata.
Di grande portata, circa le questioni di morale sessuale, invece, è l’affermazione secondo cui «la fecondità degli sposi, in senso pieno, è spirituale» (n. 50), giacché significa iniziare finalmente a riconoscere – lo si voglia o no – che la fecondità biologica è un aspetto che si integra, ma non determina, il sacramento del matrimonio. Alla chiusura totale sulla contraccezione (n. 63), fanno da contraltare gli apprezzabili e innovativi (strano che la stampa non li abbia ancora notati…) numeri 54 e 70-71 sulle convivenze pre-matrimoniali. Nel loro complesso, mi sembrano convincenti. E non genera meno sorpresa l’espressione “famiglie monoparentali” usata al n. 80, considerando la “fobia” presente in alcuni ambienti cattolici nell’usare la parola ‘famiglia’ al plurale, includendo anche forme di famiglia diversa da quella “tradizionale”.
Si può poi guardare con una certa tenerezza al n. 61, dove il Sinodo sembra ammettere che i sacerdoti, su questioni legate alla famiglia, non sappiano poi granché, e in futuro debbano fare degli “stage” di formazione nelle famiglie, possibilmente a contatto con figure femminili.
Infine, sempre a livello di analisi critica, mi sembra che la Relatio oscilli un po’ nella terminologia quando parla di “sacramento”. Non è del tutto chiaro, infatti, se il sacramento sia il matrimonio o la famiglia, e se matrimonio e famiglia (intesa come comunità d’amore con la presenza di almeno un figlio) coincidano. Tale oscillazione è evidente al n. 52. Che oggi la nozione di sacramento sia abusata è consapevolezza comune, e la tendenza a includere la famiglia nel sacramento del matrimonio è in corso da tempo nella teologia, ma solleva non pochi problemi dal punto di vista della definizione della forma e della materia del sacramento stesso.
Spero di aver reso l’idea, almeno per cenni, della complessità di questa Relatio, della sua evidente natura di compromesso su molte questioni. Oggi siamo spinti dalla cultura dominante a considerare ogni compromesso come un gioco al ribasso, ma non credo affatto che, nel caso specifico della Relatio, il giudizio possa essere così perentorio. Non vorrei, inoltre, che l’analisi critica che ho proposto trasmettesse un’immagine eccessivamente cupa. La Relatio contiene moltissimi numeri di straordinaria bellezza, alcuni davvero splendenti per la delicatezza e la sensibilità umana (penso, solo per fare un esempio, alla parte finale del n. 79).
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L’omosessualità nella Relatio: come interpretare il rumoroso silenzio?
Ma veniamo al tema di questo contributo. Sulla questione “omosessualità”, trattata (solo) nel (breve) n. 76, non è sfuggito ai più, i silenzi sono davvero assordanti. In primis, va notata la mancata presa di distanza dalle legislazioni persecutorie contro gli omosessuali che si stanno tentando di introdurre (o esistono) in vari paesi non occidentali. Certo, il n. 76, con i suoi contenuti, le esclude implicitamente, ma un’esplicita condanna di tali provvedimenti giuridici avrebbe tolto alcune Conferenze Episcopali (vedi quella africana) dal pantano del sospetto di connivenza omissiva con governi che stanno violando i diritti umani fondamentali[5]. Silenzio che stride se affiancato al risalto (due numeri!) dato alla “pericolosa” legislazione ispirata al “gender”.
Sul gender (n. 8 e 58) la relazione è, comunque, tutto sommato sobria a livello di linguaggio e di contenuti. Personalmente avrei evitato il termine “ideologia” (termine improprio in questo contesto e filosoficamente da definire con più precisione), sostituendolo con “alcune elaborazioni filosofiche estreme nate nell’ambito degli studi di genere”, tanto per non fare di ogni erba un fascio, e per essere più rigorosi circa gli ambiti disciplinari. Ma tant’è: sappiamo quali spettri si aggirino in alcune menti ecclesiastiche su questa tematica, per cui non ci si poteva aspettare qualcosa di diverso; e tuttavia, rispetto ai toni espressi da alcune recenti manifestazioni di piazza, siamo comunque a un livello differente, di apprezzabile pacatezza.
Il n. 76 ha alcune parti positive, a partire, ovviamente, dalla frase di apertura. Con questa premessa, si afferma l’obbligo morale dell’accoglienza delle persone omosessuali in famiglia: tradotto in termini un po’ brutali, una famiglia che picchia, allontana, rifiuta, rinchiude o tortura (psicologicamente) il figlio omosessuale non può dirsi né cristiana né cattolica. Visto che le maggiori sofferenze delle persone omosessuali nascono all’interno delle famiglie, non è un’indicazione di poco conto. Se non altro aiuta i genitori a “prefigurarsi” la possibilità che nella famiglia ci siano persone omosessuali, aiutandoli ad accogliere i figli senza catastrofismi. Questo vale ancor di più se collegato a quanto la Relatio afferma al n. 90: la Chiesa deve favorire, nelle famiglie, quel «senso del “noi” nel quale nessun membro è dimenticato. Tutti siano incoraggiati a sviluppare le proprie capacità e a realizzare il progetto della propria vita a servizio del Regno di Dio».
L’espressione «indipendentemente dalla propria tendenza sessuale» (n. 76), inoltre, è sintomatica. Posta senza ulteriori precisazioni, lascia ad intendere che la tendenza sia concepita come un dato di fatto, e non qualcosa di “profondamente radicato” («gay si nasce», aveva affermato il card. Kasper[6]). Forse ci si avvicina, finalmente, a riconoscere che esistono orientamenti sessuali diversi dall’eterosessualità, che non sono “curabili”, ma vanno accettati come parte della realtà umana.
Il secondo “silenzio” circa l’omosessualità riguarda l’estensione del n. 76. Rispetto allo spazio dedicato al tema nei documenti sinodali precedenti, il testo è fin troppo sintetico: sembra che l’Assemblea abbia voluto far credere che il tema non fosse all’ordine del giorno, se non nella sfumatura “familiare” di questo numero. Ci si può chiedere, allora, se tutto il gran discutere di questi mesi sul tema omosessualità non sia stata che un’auto-suggestione mediatica.
Ma la risposta non può che essere negativa: i documenti del precedente Sinodo, le dichiarazioni di padri sinodali, vescovi (alcuni emeriti, tra cui, di recente mons. Casale[7]) e cardinali, delle conferenze internazionali, dei gruppi di teologi (ricordo la lettera di 18 teologi spagnoli[8]) e sacerdoti con le loro lettere, intere Conferenze Episcopali (nelle sintesi dei questionari), indicano con chiarezza che tutti si aspettavano che del tema omosessualità si discutesse approfonditamente. E che fino all’inizio di questo Sinodo il tema era più che mai tra quelli su cui scornarsi. E invece, nella Relatio, c’è un silenzio tombale che va, pertanto, interpretato. Attenzione, non sto dicendo che ci si aspettava chissà cosa dal Sinodo: nessuna persona con un minimo senso della realtà avrebbe potuto pensare che al Sinodo s’ipotizzasse il matrimonio omosessuale o la legittimazione delle coppie gay[9].
In questo senso, non sorprendono affatto le affermazioni (negative) sull’equiparazione del matrimonio etero e omo: di queste ci si può rattristare, ma non sorprendere (personalmente, ritengo che la Chiesa abbia autorità su questioni di fede, quindi sul matrimonio sacramentale; pertanto, tali affermazioni hanno una validità circoscritta all’eventuale equiparazione in ambito liturgico. Che lo voglia o no, di tale limitazione la Chiesa dovrà farsene una ragione). Era però realistico aspettarsi almeno un cambio di linguaggio, l’apertura a un approfondimento dottrinale, la costatazione da parte dei Padri che la dottrina, al momento, non è così certa[10]. Sono avvenuti? A livello più superficiale evidentemente no. Ma cerchiamo di interpretare più a fondo quel “silenzio tombale”.
Vorrei farlo alla luce di quanto detto da esponenti molto conservatori. In un articolo dal titolo “Inaccettabile. Il documento base del sinodo compromette la verità”[11], Sandro Magister ha riportato l’opinione di alcuni studiosi (Barthe, Livi, Morselli), secondo i quali i paragrafi dell’Instrumentum laboris sull’omosessualità erano inaccettabili, dato che «affrontare la problematica della omosessualità limitandosi a dire che non bisogna trattare male gli omosessuali e non lasciare sole le loro famiglie, è un peccato di omissione», poiché viene meno, sostengono gli autori, «la doverosa denuncia del male» (sic!). Insomma, nell’articolo si critica il fatto che non viene ribadita l’intera dottrina cattolica sull’omosessualità (a riprova del fatto, credo, che tutti si aspettavano che la dottrina – non una semplice attenzione pastorale – fosse oggetto di attenzione).
Se prendiamo sul serio quest’analisi, allora il n. 76 è quasi rivoluzionario: il catechismo non è esplicitamente richiamato e la dottrina “classica” è esposta molto limitatamente. Perché? Credo che la risposta stia nelle dinamiche di consenso interne all’Assemblea. Come già scrissi, su questo tema la Chiesa è ormai profondamente divisa, e non c’era alcun modo di trovare una mediazione. Si è dunque preferito “soprassedere”, scrivendo un testo soft (se confrontato ad altri documenti del magistero), e interpretabile un po’ in tutte le direzioni[12]. L’aggiornamento della dottrina, del resto, spesso passa per le “dimenticanze”: di ciò che si è detto in passato, di un capitolo di un libro (quando si vuole salvare un Dottore della Chiesa…), di un canone di un concilio, di un’espressione linguistica, di una prassi. Allora, davvero i silenzi del n. 76 sono emblematici di un’operazione di rimozione di un passato dottrinale ormai ingombrante.
Poi si sa, le vere riforme della Chiesa – anche dottrinali – passano per il rinnovo del collegio cardinalizio e delle nomine vescovili, e questo Sinodo ha mostrato che la Chiesa di Francesco è ancora troppo condizionata dalle nomine dei precedenti papi. Dovremo aspettare tempi migliori: l’ottobre 2015 era ancora “troppo” presto, e bisogna accettare che lo sviluppo della coscienza della fede della Chiesa procede con lentezza («anche se sono dell’opinione che talvolta è andato più a rilento di quanto fosse necessario» – K. Rahner, p. 417).
Anche l’uscita di mons. Charamsa, da questo punto di vista, è stata del tutto ininfluente. Il silenzio era già nelle cose. Una scelta, la sua, che non mi sento di commentare nelle dinamiche private – immagino dolorose e difficili –, e che ritengo comunque coraggiosa. Essendo però un’azione che ha avuto conseguenze pubbliche, una riflessione è d’obbligo. Personalmente l’ho ritenuta intempestiva: avrei preferito che si fosse dichiarato qualche mese prima, per dare il tempo alla Chiesa di metabolizzare il tema. Non è questione di mera strategia; penso piuttosto che lo stesso Charamsa avrebbe, così, potuto mettere a disposizione della discussione avvenuta in questi mesi le sue indubbie qualità teoretiche e teologiche (esemplare la sua tesi sull’immutabilità divina in Tommaso d’Aquino, su cui ho perso non poche ore di studio qualche anno fa), in conferenze e documenti.
La scelta di dichiararsi il giorno prima dell’apertura del Sinodo, invece, ha fatto sì che molti vescovi moderati si chiudessero a riccio. Tuttavia, non credo che ciò sia stato decisivo, dal momento che il tema era già stato silenziato, per dinamiche altre. Anche se il n. 76 si rifà genericamente a delle inaccettabili pressioni esterne che la Chiesa subisce, infatti, credo sia molto chiaro ai vescovi che le vere pressioni, teologiche, siano del tutto interne alla Chiesa. Il periodo inter-sinodale e le risposte di molti fedeli l’hanno reso lampante.
Da questo punto di vista, mi pare che la valutazione di Marco Politi (intervista televisiva a Rai News di sabato 24 ottobre), vaticanista del Fatto Quotidiano, non sia del tutto ponderata: non è vero, infatti, che la Chiesa “progressista” sia stata troppo timida e in silenzio. Le iniziative delle associazioni ecclesiali di base sono state molteplici, e gli stessi documenti di alcune Conferenze Episcopali (svizzera e tedesca in particolar modo) hanno mostrato che ormai i fedeli sono ben più avanti delle gerarchie. Quando sono state prese sul serio e appoggiate da esponenti di vertice (mi riferisco all’ormai nota “fuga in avanti” della Relatio post disceptationem del 2014), tali istanze hanno suscitato un’alzata di scudi.
Quest’anno, quindi, si è preferito più semplicemente non ascoltarle. O meglio, non potendo dare loro voce ufficiale nei documenti del Sinodo, si è preferito scrivere un testo (sempre il n. 76) che semplicemente non desse voce alle posizioni più estreme d’alcuna delle tifoserie. Torna alla mente quanto scriveva Wittgenstein nel secolo scorso: «il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, e inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella più importante. […] In breve, credo che tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io nel mio libro l’ho messo saldamente al suo posto, semplicemente col tacerne». Mi si conceda l’utilizzo un po’ improprio di questo passo del pensatore austriaco per affermare un’idea, un’analogia col testo della Relatio: a volte, di fronte a tematiche su cui ci si rende conto di avere molte incertezze (e divisioni interne), è meglio non ripetere formule antiche, è meglio tacere.
Possiamo vedere anche una sorta di “saggezza”, allora, nella formulazione sinodale. E credo che coloro i quali in quest’anno e mezzo si sono spesi per far sentire la voce dei cristiani omosessuali al Sinodo, possano essere orgogliosi del fatto che l’aver reso evidente con molteplici iniziative la pluralità di posizioni presenti nella Chiesa, abbia per lo meno evitato che si ripetessero, con leggerezza e scontatezza, le definizioni del passato. Onore al merito.
Certo, i cristiani omosessuali sono ancora come il cieco Bartimeo – per richiamare il Vangelo di questa domenica – il quale, di fronte a coloro che «lo rimproveravano perché tacesse», si è messo a «gridare ancora più forte» (Mc 10, 48). Fedeli a quanto scritto nella Lumen Gentium n. 37 e nell’Evangelii Gaudium n. 11 e n. 40[13], dovranno continuare a urlare – sì, osiamolo pure dire – per rompere la barriera umana posta tra loro e Gesù dai suoi discepoli, i quali vorrebbero che il loro maestro sia disturbato il meno possibile.
Sì, alcuni potrebbero vedere in queste mie riflessioni un patetico motto di auto-consolazione, o l’ingenuo tentativo di cercare del positivo laddove evidentemente non ce n’è. In parte costoro hanno ragione, e li invito a concedermi – come scusante – l’umana debolezza (e l’inguaribile ottimismo). È tuttavia vero che un’ermeneutica della speranza è intrinseca ai cristiani che credono nel cammino, pur intriso d’incertezze e passi falsi, della loro Chiesa.
Per coloro i quali, invece, hanno seguito il Sinodo dall’esterno, da non credenti, è evidente che il n. 76 segna l’ennesimo allontanamento, la caduta di ogni più tenue fiducia nella chiesa come istituzione culturale. E non vi è interpretazione benevola che tenga. Questo rammarica chi – come me – crede nella possibilità che le persone non credenti possano tornare a trovare un po’ di speranza nelle parole del Vangelo che la Chiesa incarna; in fondo, è un’occasione mancata.
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Prospettive: per rilanciare
E ora? Ora spetta al papa, su esplicito mandato del Sinodo (n. 94), produrre un documento. Il papa potrà ampliare e “dire” qualcosa in più, o mantenere questo garbato e faticoso silenzio. Oppure potrà fare la scelta – coraggiosa – di esplicitarne le ragioni. Utilizzando, magari, un “metodo mariano” anche per la questione omosessuale. Con “metodo mariano” mi riferisco a quanto scritto nella Lumen Gentium (n. 54): «Il Concilio tuttavia non ha in animo di proporre una dottrina esauriente su Maria, né di dirimere le questioni che il lavoro dei teologi non ha ancora condotto a una luce totale. Permangono quindi nel loro diritto le sentenze, che nelle scuole cattoliche vengono liberamente proposte […]».
Leggasi: si può accettare che la Chiesa, su alcune questioni non si esprima con certezza o esaustività. Certo, la Chiesa sull’omosessualità ha già parlato, e molto. Eppure, ci ricorda Rahner, non sono pochi gli esempi di decisioni errate (K. Rahner, Discussioni attorno al magistero ecclesiastico, in Nuovi saggi, Paoline 1975, pp. 415-422) o di dottrine che vengono cambiate radicalmente (si pensi alla subordinazione della donna, affermata nelle encicliche fino a inizio novecento, o alla subordinazione dello stato matrimoniale rispetto alla verginità affermata inequivocabilmente al tridentino, ma oggi negata).
Accettare, come la Relatio in parte fa, che ormai la dottrina sia plurale (si veda lo stesso Rahner, negli stessi saggi, alle pp. 60-63), potrebbe essere un buon modo per evitare che alcune Conferenze Episcopali disobbediscano, sulla falsariga di ciò che è avvenuto con l’Humanae Vitae (rimando ancora al saggio di Rahner sul magistero), e non lasciare ancora una volta la persona omosessuale da sola nella difficile mediazione tra la propria coscienza, la vita e la dottrina (Rahner, L’atteggiamento del cristiano di fronte alla dottrina della fede, ivi, pp. 362-375).
Spetta al papa spingere in questa direzione, dando maggiore autonomia alle Conferenze Episcopali e invitando all’approfondimento teologico della dottrina sull’omosessualità, similmente a quanto scritto nella Lumen Gentium sulla mariologia; solo così, forse, più persone potranno giungere alla conclusione del teologo tedesco: «Anche oggi è possibile essere cattolici» (p. 379).
Speriamo inoltre che il papa, con la sua sensibilità di pastore, sappia tradurre un testo che pecca un po’ di astrazione, in indicazioni concrete per la quotidianità delle famiglie e dei sacerdoti. Per esempio, invitando questi ultimi a consumare ogni giorno i pasti nelle famiglie delle loro parrocchie, con semplicità, per insegnare a benedire il cibo e i figli, a ringraziare i cuochi (come insegna la Laudato si), a parlare di tutto con il sacerdote. Per sentirsi reciprocamente meno soli. È un modo per entrare in sintonia con l’anima delle persone, che permette di aiutare a curare le ferite nei momenti di difficoltà.
Concludo con un inciso: i saggi di Rahner che ho richiamato (aggiungo quello sulla donna, tema su cui il Sinodo si è soffermato: La donna nella nuova situazione della Chiesa, in Nuovi Saggi, Paoline 1968, pp. 445-465), potrebbero essere una feconda lettura, in questo momento in cui è più che mai necessario fare ancora un po’ di silenzio, per rielaborare gli esiti di questo Sinodo, al quale in molti abbiamo partecipato, spiritualmente e nell’azione concreta.
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NOTE
[1] https://www.gionata.org/sinodo-2015-e-omosessualita-e-ancora-troppo-presto/
[2] http://press.vatican.va/content/salastampa/pt/bollettino/pubblico/2015/10/21/0803/01782.html#ITC
[3] http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/02/leucaristia-e-il-sinodo-la-posta-in.html
[5] Si veda: http://vaticaninsider.lastampa.it/nel-mondo/dettaglio-articolo/articolo/sinodo-famiglia-43773/
[7] http://www.lettera43.it/esclusive/monsignor-casale-l-omosessualita-e-ricchezza_43675218038.htm
[9] Lo ribadisce, con lucidità, il presidente de Il Guado (gruppo storico di omosessuali cristiani di Milano): http://gruppodelguado.blogspot.it/2015/10/adesso-tocca-noi.html
[10] Si veda: http://temi.repubblica.it/micromega-online/omosessualita-e-sinodo-psicoanalisi-e-teologia-in-dialogo-verso-nuovi-paradigmi/ e http://ilregno-blog.blogspot.it/2015/10/sinodo-e-omosessualita-e-possibile-una.html
[11] http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351141
[12] Non è, purtroppo, una mia impressione peregrina: https://www.gionata.org/il-cardinale-schonborn-passo-storico-ma-sui-gay-non-potevamo-fare-di-piu/
[13] «In seno alla Chiesa vi sono innumerevoli questioni intorno alle quali si ricerca e si riflette con grande libertà. Le diverse linee di pensiero filosofico, teologico e pastorale, se si lasciano armonizzare dallo Spirito nel rispetto e nell’amore, possono far crescere la Chiesa, in quanto aiutano ad esplicitare meglio il ricchissimo tesoro della Parola. A quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione. Ma la realtà è che tale varietà aiuta a manifestare e a sviluppare meglio i diversi aspetti dell’inesauribile ricchezza del Vangelo» (n. 40).
Questo implica, prosegue il papa, un’azione creativa di rinnovamento, implica prendere l’iniziativa: «Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (n. 11). È l’invito della Lumen Gentium ai tutti i fedeli laici: «Secondo la scienza, competenza e prestigio di cui godono, i laici hanno la facoltà, anzi talora anche il dovere, di far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa. Se occorre, lo facciano attraverso gli organi stabiliti a questo scopo dalla Chiesa, e sempre con verità, fortezza e prudenza, con rispetto e carità verso coloro che, per ragione del loro sacro ufficio, rappresentano Cristo» (n. 37).