Ways of Love. Come la funzione profetica dei cattolici LGBTQ può aiutare la Chiesa
Articolo di Lidia Borghi pubblicatpo sul sito controversosud.it il 28 ottobre 2015
Il 3 ottobre 2015 si è svolta, a Roma, la conferenza internazionale Ways of Love, organizzata da Global Network of Rainbow Catholics, una rete internazionale di oltre dieci organizzazioni di e con persone cattoliche LGBTQ+, che ha visto la partecipazione di Mary McAleese, già presidente della Repubblica d’Irlanda, (intervistata dal collega britannico Robert Mickens), di Pedro Labrín, sacerdote gesuita dal Cile, di suor Jeannine Gramick dagli Stati Uniti d’America, di Martin Pendergast dal Regno Unito, di Rungrote Tangsurakit dalla Tailandia, di don Pino Piva e di suor Anna Maria Vitagliano, della portavoce di un prete missionario operante in Africa cui è stato imposto l’anonimato dal suo superiore e, in conclusione, del Vescovo messicano Raúl Vera (è possibile visionare i video di tutti gli interventi sul canale You Tube di Liberi.tv.
La platea dell’auditorium del Centro pellegrini Santa Teresa Couderc di Roma era numerosa e formata da persone provenienti da diversi Paesi del mondo, in un pacato clima di «proposizione attiva» – come è stato definito, nell’approfondita introduzione, da Andrea Rubera, esponente storico, insieme al marito Dario De Gregorio, di Nuova Proposta, una delle associazioni più longeve di donne e uomini omosessuali cristiani – a differenza del caos che si stava consumando al di fuori, con mezza stampa romana armata di taccuini e telecamere intenzionata ad entrare in sala, poiché s’era sparsa la voce di una possibile partecipazione al convegno del teologo Krzysztof Olaf Charamsa, fresco di coming out.
Moderatrice dell’evento la filosofa veneziana Gabriella Caramore, la quale ha sottolineato come la sua partecipazione all’evento sia stata dettata da un’esigenza di giustizia oltre che di libertà, alla luce di quanto scritto nei Vangeli a proposito dello Spirito Santo, che soffia su tutte le persone senza distinzioni.
Mary McAleese ha offerto al pubblico presente la sua esperienza di irlandese, affermando come nel suo Paese non si parli di matrimonio fra persone dello stesso sesso (Same Sex Marriage), ma di matrimonio tout court, inteso come diritto di qualunque persona e come «percorso di appartenenza», il che può riguardare qualsiasi individuo. Quando venne a sapere che la sua Chiesa è sessista e omofoba, rimase assai colpita e da quella scoperta prese il via il suo personale percorso di consapevolezza, grazie alla conoscenza di un ragazzo omosessuale credente che viveva in modo assai negativo la sua esclusione dalla Chiesa Cattolica d’Irlanda.
Da allora in poi McAleese cominciò a cambiare la sua visuale in merito ai diritti umani e civili, facendo maturare in lei la convinzione secondo cui non è bene parlare di dottrina, ma di pastorale e di accompagnamento e che la cosiddetta tradizione della Chiesa Cattolica non deve essere veicolo di rifiuto delle persone, ma deve diventare uno strumento per entrare nel confronto con la realtà emergente; inoltre quel confronto deve avvenire a partire dai pastori, proprio in virtù del fatto che la dottrina da sola non è sufficiente a dare risposte nuove ad esigenze sociali nuove, per le quali serve una preparazione proveniente dal basso.
«Cristo è venuto per aiutare le persone nel reale – ha affermato Mary McAleese – e l’amore è l’unica risorsa che abbiamo per fondare le relazioni, quindi perché razionarla o stabilire chi può goderne e chi no? Essa è una ricchezza per tutte e tutti noi. Esistono dei segni di speranza ed io li intravedo fra coloro che operano dal basso, le “persone di Dio”, ovvero coloro che lottano per una o più cause sociali, che si mettono in gioco, che si sporcano le mani e che fanno coming out prima con se stessi, trovando il coraggio di ri-conoscersi per condividere con altre/i la propria verità. La speranza è questa: non essere più qualcun altro, ma vivere in autenticità, il che comporta di uscire fuori dalla menzogna che nasce dal terrore di parlare di se stesse/i, al fine di riappropriarsi di una vita effettiva, vera».
Il sacerdote gesuita cileno Pedro Labrín ha focalizzato l’attenzione dell’uditorio sulla pastorale per le persone LGB (a quanto pare nella sua nazione gli individui transgender non hanno alcuna visibilità e passano per inesistenti) in quanto nuovo fondamento della Chiesa cilena, che ha iniziato a germogliare, diversi anni addietro, grazie alle preghiere che venivano offerte durante riunioni clandestine di individui omosessuali nelle loro case d’abitazione; quando il desiderio di condivisione con le comunità religiose d’appartenenza ha cominciato a farsi urgente, il passo successivo è consistito nel palesarlo ed estenderlo, una volta mutato il difficile contesto sociale vigente nel Paese andino che, fino a pochi anni fa, ha costretto molti soggetti omosessuali a vivere in totale scissione psichica la fede e il proprio orientamento affettivo e sessuale.
Labrín ha teso a specificare come le difficoltà siano tuttora maggiori per le donne lesbiche, non tanto per la loro disposizione naturale ad innamorarsi delle donne, ma in quanto femmine discriminate a causa del maschilismo sessista imperante. In conclusione il prelato gesuita ha sottolineato: «La missione della Chiesa deve essere quella della trasparenza evangelica».
Suor Jeannine Gramick ha offerto un dettagliato panorama della situazione statunitense, con tanto di mappatura delle parrocchie che hanno organizzato una pastorale rivolta alle persone LGBTQ+ e loro familiari – le cosiddette welcoming parishes – nel numero di un centinaio circa; unico dato per nulla positivo il fatto che da una decina d’anni nessuna comunità cattolica si è aggiunta a quel novero. La chiesa di San Matteo, nel Maryland, è una delle più attive e, come nel caso cileno, la piccola comunità LGBTQ+ locale aveva cominciato a formarsi in modo clandestino, negli appartamenti delle persone omosessuali credenti, per giungere alla comunità cattolica di riferimento solo in seguito.
Anche la lotta per i diritti umani LGBTQ+ è sentita in modo netto e deciso, malgrado la Diocesi dello Stato sia ufficialmente contro, il che non fa che evidenziare come ad una base che lavora per la cooperazione corrisponda un vertice che non ne vuol sapere di aprire un dialogo con la parrocchia di San Matteo.
«L’insegnamento della Chiesa – ha concluso Gramick – può anche rimanere quello e non cambiare o mutare direzione in modo assai lento, ma la sfida da accogliere è quella della pastorale dal basso che sia in grado di far sentire a tutte e a tutti l’appartenenza».
Durante il suo intervento Martin Pendergast si è riferito ad una «pastorale illuminata per persone che hanno lo stesso diritto di desiderare e ricevere gli stessi Sacramenti», mentre, nel caso del sacerdote che lavora in terra d’Africa, la sua portavoce ha definito il grande Continente una vera e propria «terra di missione», in cui la stigmatizzazione degli individui omosessuali è al massimo grado, così come la clandestinità. Il coming out non esiste e, nel caso in cui una persona venga scoperta, le cosiddette “teorie riparative” rappresentano l’unica via percorribile. Inoltre, qualora qualche sacerdote si assuma la responsabilità civile e spirituale di mettere in atto una pastorale, essa si svolge nella più totale clandestinità più per occultare che per accompagnare.
La spiegazione sociologica fornita dall’inviata del prete missionario è la seguente: siccome lo scopo principale di ogni uomo è quello di sposarsi e procreare, ogni altro comportamento derogante a quel fine viene visto come un pericolo per la società, che è strutturata in modo da essere fonte di violenza nei confronti delle donne, alle quali non resta altro da fare che subire le angherie dei mariti e sfornare creature; chiunque non assolva il proprio compito in base a quella matrice – nella fattispecie le persone omosessuali – viene considerato un traditore, in quanto sono le convenzioni a importare e non la persona umana, del tutto priva di valore, anche spirituale.
Rungrote Tangsurakit ha portato alla conferenza la sua testimonianza di sacerdote tailandese impegnato in una politica inclusiva per lo sviluppo umano di ogni individuo, a prescindere dal fatto che sia credente o meno, poiché solo in questo modo è possibile iniziare un autentico cammino di redenzione; il presule ha auspicato una pastorale che non lasci indietro alcuna persona ed ha sottolineato come in Tailandia si stia consumando una guerra contro il virus dell’Hiv e l’Aids conclamata, malgrado a livello mediatico non se ne parli più.
Pino Piva è un prete gesuita che tre anni fa, a Roma, ha fondato “Chiesa casa per tutti”, un’esperienza di preghiera aperta a chiunque, che prevede la lettura di un brano del Vangelo; la sua struttura lavora su qualunque minoranza e su coloro che si sentono ai margini: «Il futuro della pastorale non consiste nel parlare “sulla” persona giudicandola, ma ascoltandola per cogliere ciò che Dio dice al suo cuore. Ad ognuno di noi Dio parla e ognuno, nella sua esperienza, può apportare un piccolo contributo al cammino comune all’interno di una Chiesa che conversa, dialoga e si racconta, mentre narra le proprie esperienze. Si tratta di una reciprocità di ascolto nell’incontro tra una domanda e una risposta da parte di chi si sente emarginato. Questo è incontrare Dio in una relazione autentica e in ogni relazione autentica non esistono categorizzazioni. Chi può dire che una persona, qualsiasi sia la sua storia, non possa avere un incontro con Dio? Partiamo da un presupposto errato, se pensiamo che solo chi è buono e bravo e rientra in determinati cànoni possa avere un autentico dialogo con il Divino».
Suor Anna Maria Vitagliano, anch’essa esponente di “Chiesa casa per tutti”, ha fatto una breve relazione in merito al progetto di formazione pastorale iniziato nel 2014. Suddiviso in tre branche, la prima è rivolta agli operatori pastorali, ovvero sacerdoti, catechisti, laiche e laici coinvolti nella divulgazione della dottrina della Chiesa Cattolica, ecc., la seconda è destinata agli individui separati, divorziati e risposati e la terza è stata studiata appositamente per le persone omosessuali; l’arma vincente consiste nel far sì che a parlare siano le dirette e i diretti interessati.
A concludere i lavori del convegno Ways of Love è stato il Vescovo Raúl Vera, il quale ha preso spunto dall’esposizione della lettera aperta che Alejandro Benavente, architetto, fotografo, poeta e musicista messicano di orientamento omosessuale, ha pubblicato su “La Jornada San Luis” per affermare, con passione e grande enfasi: «A due giorni dall’apertura dei lavori del Sinodo cattolico della famiglia in Vaticano questo convegno inaugura, per la comunità LGBTQ+ di tutto il mondo, un nuovo pezzo di storia della Chiesa, poiché si sta aprendo una breccia consistente, grazie alle esperienze proposte; essa è destinata a portare un grande cambiamento non solo all’interno della Chiesa Cattolica, ma anche nella società. Per cambiare il mondo occorre cambiare la Chiesa. La comunità LGBTQ+ rappresenta la nuova profezia che aiuterà la Chiesa stessa a ritrovare il suo valore profetico».
Di solito convegni come Ways of Love non suscitano una grande eco e trovano scarsissimo riscontro sui grandi media nazionali, il che consente a chi opera sui social network e nelle piccole redazioni giornalistiche di far rimbalzare sul web notizie come queste. Non di rado sui periodici cattolici progressisti, come “Adista e Tempi di fraternità”, viene ribadito il ruolo rivoluzionario che i gruppi di persone LGBTQ+ credenti rivestono, nei centri di residenza, proprio in virtù della profezia religiosa che incarnano, la stessa che in modo prepotente è emersa alla fine dell’assemblea romana del 3 ottobre scorso; le donne e gli uomini LGBTQ+ delle circa trenta compagini italiane – per non parlare di quelle sparse per l’Europa e il mondo e riunite nel Global Network of Rainbow Catholics – stanno infatti operando da anni non solo in qualità di rappresentanti dei rispettivi gruppi presso le parrocchie d’appartenenza, ma anche nelle vesti di formatrici e formatori, per indicare ai preti di riferimento le linee guida necessarie per rapportarsi con le persone omosessuali, bisessuali e transgender.
La funzione profetica di cui ha parlato il Vescovo Raúl Vera, durante il suo intervento, ha del miracoloso e sta contribuendo alla costruzione di tanti ponti gettati in direzione della Chiesa Cattolica nella tua totalità, mentre richiama alle proprie responsabilità civili le donne e gli uomini di buona volontà, grazie al ruolo di attivista per i diritti umani ricoperto dalla comunità LGBTQ+.
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Ringrazio la pedagogista sociale Alessandra Bialetti per il prezioso apporto dato a questo articolo.