Vite invisibili. Essere omosessuale nella difficile periferia parigina
Articolo di Perrine Cherchève pubblicato sul settimanale francese Marianne n°898 il 4 luglio del 2014, libera traduzione di Marco Galvagno
Nascondersi, non farsi notare, fare finta… l’omofobia che impera nelle Cité della cintura parigina fa cadere i giovani nella negazione o nella clandestinità.
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FOLIE’S PIGALLE, PARIGI X° ARRONDISSEMENT. I festaioli entrano alla spicciolata in questa ex osteria trasformata in discoteca, sulla pista corpi maschili si dimenano senza sfiorarsi ancora, ma presto nessuno potrà più muoversi senza toccare il vicino, la folla diventa compatta e impone il corpo a corpo. Sono 15 anni che il Folie Pigalle fa il pieno nelle serate (B,B,B) (Nero, Arabo, bianco), è il luogo di incontro privilegiato dei gay, soprattutto neri e arabi. Sono persone che provengono soprattutto dalle periferie che vanno lì a sfogarsi, lontano dai pregiudizi radicati e dall’omofobia sbandierata dai bulli delle cité.
Qua non ci sono tabù, né giochi proibiti. Ci si esibisce di notte per compensare l’imposizione a vivere nascosti e a dissimulare di giorno. Qua i travestiti della Seine Saint Denis, truccati e appollaiati su tacchi alti, con le movenze muliebri rivendicano con orgoglio la propria femminilità, senza sentirsi in pericolo. E le rare ragazze affermano la propria virilità, portando jeans a vita bassa come i loro fratelli, a volte…
Solo qui al Folie Pigalle una giornalista può scovare la testimonianza impossibile del gay di periferia: forse uno degli ultimi a non avere potuto o voluto fare coming out, ancora meno desideroso con il proprio fidanzato di dire il suo sì davanti al sindaco. Non basta entrare in discoteca perché le persone si confidino, bisogna accettare le loro condizioni: tacere il nome della persona e quello del quartiere ed essere presentato da Fouad Zerau, giornalista e presidente dell’associazione Kelma che organizza la serata.
“Venga domenica, fin alle due del mattino la metterò in contatto con un sacco di gente nei palchetti e li potrà fare le sue interviste… Eccomi lì nei palchetti, in realtà una stanzetta umida sottoterra, qualche sedia, una console rialzata, specchi illuminati dai neon. “Lì una decina di gay che ci ha presentato Fouad si confidano volentieri per una breve parte della notte”.
Abbas, ha 23 anni è ivoriano, abita nella zona Seine- Saint Denis si accetta ed è androgino con allegria. Si veste con indumenti femminili e pretende di infischiarsene degli insulti dei duri della cité che gli urlano “ brutto frocio” e minacciano di picchiarlo per il suo abbigliamento. “Il trucco è quello di non aver paura altimenti ti attaccano. Quando sei gay in periferia o te ne vai, o ti mostri come sei e ti lasciano in pace” afferma con tono di sfida.
“Nella città i ragazzi pensano solo a fare a botte”, prosegue il nero Selim, anche lui, che vive a Bobigny,” ma ci sono anche i pervertiti quelli che imbrogliano i ragazzi di periferia, che ci seducono solo perché vogliono farsi fare un pompino, ma a me basta un’occhiata per metterli a posto.”
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DOPPIA CONDANNA. Sono quasi le due, l’alcol e il resto fanno l’effetto sperato, “quando si è sballati si parla meglio” ci confessa Ferhat, 20 anni di origine algerina. Arriva dalla Val d’oise e si è cambiato prima di entrare al Folie Pigalle, si è tolto la tuta per indossare pantaloni eleganti e scarpe Giuseppe Zanotti, che costano sugli 800 euro, ha una barbetta curata. “Sembro un arabo saudita”, fa notare pavoneggiandosi, ed è un gran chiacchierone. Si vanta di avere una cattiva reputazione nel suo quartiere.
“I ragazzi mi trattano da puttanella, ma io vado per la mia strada, esco di casa per prendere la RER (ndr servizio ferroviario che collega le varie zone della regione di Parigi) ed evito i contatti fino alla stazione”. Sostiene che i trafficanti lo proteggerebbero perché a volte funge loro da intermediario. “Si sa che i gay usano la coca, allora mi chiedono di presentargliene”, ammette di essersi fatto anche della grana in quel modo.
“Noi gay siamo ragazzacci, per quello ci lasciano in pace e anche perché a volte conosciamo ragazze bellissime e questo fa sognare i bulli della cité”. Di fronte ai suoi genitori Ferhat fa meno lo spavaldo: “Mia madre sa che sono gay, lo accetta. È molto religiosa, ma nessuno osa dirlo a mio padre. Ho troppa paura della sua reazione. I gay non esistono da noi, non sono in accordo con le nostre tradizioni”.
Younes, stessa età, stesso stile insiste “Essere gay per i musulmani è un peccato”. Lui si purifica facendo il ramadan: “Per un mese, non esco, non scopo, mi sento più pulito” ci assicura prima di confessare “Mi piacerebbe sposarmi per mia madre e soprattutto per confondere le idee”.
La sua vecchia è già andata nella sua pagina facebook dove ha contatti con altri gay. Mi ha detto : “Sei gay, sei una vergogna, voleva buttarmi giù dalla finestra. Sono rimasto fuori casa due giorni, il tempo in cui la mia migliore amica ha finto di essere la mia fidanzata, si è inventata una storia dicendo che il mio profilo facebook era uno scherzo”.
Maida, 28 anni, comoriana vive con la sua compagna Sonia proveniente dalle Antille. La coppia ha lasciato la zona Seine Saint Denis per un comune della Val de Marne. Non precisa il nome della cittadina. È un buon cambiamento, soprattutto per Maida che inizia a respirare alla fine. “Nel distretto 93 avevo paura di incrociare persone delle Comore”, spiega. Sono molto chiusi. Se si viene a sapere puoi essere cacciata dalla famiglia. “Nella sua da quando si sa, i suoi genitori vogliono che si sposi e i fratelli non le parlano più”.
Gebril, trenta anni è un habitué della serata BBB, ci viene da sei anni per incontrare altri gay e rilassarsi, si presenta in maniera discreta. Magrebino di un quartiere popolare dell’Essomme non ha mai detto nulla della sua omosessualità ai propri cari ”è troppo complicato soprattutto nelle nostre famiglie, non voglio ferirli, non voglio rischiare la rottura con loro, non voglio tagliare i ponti con la mia cultura, voglio starmene in pace.“
“Non aver paura, confondere le idee, starsene in pace”, per Fouad Zeraoui, che dal 1997 milita per fare uscire i gay delle cité dal loro isolamento, queste parole sono un po’ il segno di una sconfitta dopo anni di impegno.
“All’epoca la discriminazione tra gay era un po’ l’immagine di quello che avveniva nelle alte sfere. Un arabo o un nero non potevano partecipare a una serata gay. Da lì mi è venuta l’idea di questo incontro bianchi- neri, arabi per abbattere i muri che separavano le caste. Oggi sono ritornati nei rifugi” constata tristemente.
“Sono tornati a essere clandestini, si inventano una strategia per non rompere con la famiglia, visto che non possono andarsene. Loro come tutti gli altri sono chiusi nell’ascensore sociale bloccato a pian terreno e rinchiusi nei loro quartieri. Non c’è scelta, tranne quella di andare avanti mascherati in una comunità musulmana, ripiegata su se stessa, che afferma di essere esente dai vizi occidentali, omosessualità, compresa. La religione, paradossalmente è diventata per questi giovani magrebini un rifugio di fronte alla stigmatizzazione e alle avversità. Oggi è gia dura essere magrebino, se sei magrebino e gay sei doppiamente discriminato.”
La cité è un paesino. Tutti sanno, tutti si conoscono e si sorvegliano, per non farsi beccare i giovani gay si rifugiano in un mondo virtuale, dove non li si possa rintracciare. Mandano degli sms, localizzano i patner, dopo incontri furtivi, cancellano i contatti, formattano la memoria degli smartphones, non si sa mai… tornano alla loro vita, come se non fosse successo nulla, non hanno nessuna relazione stabile che possa portarli a accettare la propria omosessualità. Altri fuggono dalla realtà, negandola. “Quelli non li vedremo mai, si confidano solo con i propri patner” come racconta Amin algerino, 30 anni incontrato al Folie Pigalle.
“Sono fuori dall’ambiente, non vogliono identificarsi con il modo di vita occidentale e pensano di restare puri e non sporcare le proprie origini avendo rapporti con altri musulmani. Pensano che Parigi sia la città della decadenza. Si incontrano su facebook o sui siti grindr o Harnet. I loro percorsi sono molto discreti. Dopo, parlando con loro, scopri che la maggior parte sono anche sposati o fidanzati.”
Fouad ci assicura di avere raccolto testimonianze di uomini barbuti che hanno preso le vesti, e sono diventati fratelli musulmani. Ci stupisce, ma spiega. “Rivestendosi dell’autorità morale e simbolica dei fratelli musulmani diventano intoccabili, sono di un’onesta morale ineccepibile, un comodo rifugio”.
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FABBRICA DI FRUSTRATI. Nel 2009 Brahim Nait Balk, nato da genitori marocchini è uno dei rari arabi gay ad aver spezzato l’omertà, ha scritto la sua autobiografia “Un homo dans la cité” in cui racconta gli anni maledetti. “Nascondersi, non manifestarsi, fare finta, perché nelle cité se sei diverso lo sentono” racconta oggi. “Era una sera di 15 anni fa alla Cité dei 3000, a Aulnay sous Bois, doveva viveva all’epoca, senza i genitori tornati in Marocco, ma con i fratelli minori dei quali era tutore.
Una banda di giovani della sua età, 20- 25 anni, lo interpellano e gli dicono “Ti sei visto come giochi, a calcio sembri una checca”, c’è stato un po’ di parapiglia, “sentivano che avevo paura di loro. Mi hanno portato in una cantina e mi hanno proposto di fare delle cose. Mi hanno detto d’inginocchiarmi e di fare loro delle fellatio. L’esperienza si è ripetuta una seconda volta.”
Da allora ha lasciato Aulnay, vive a Boulogne, lavora per un’associazione per disabili nella Haut de Seine e continua a militare contro l’omofobia: è stato allenatore del Paris Foot gay, una squadra di gay e etero che lotta contro l’omofobia negli stadi. Anima una trasmissione radiofonica “Homo micro” sulle frequenze di Paris plurielle.
Con questa testimonianza inedita apparsa 5 anni fa Brahim voleva convincere i giovani gay disperati come lui, e dire loro che potevano uscire dalle cité, che sono delle fabbriche di frustrati, così come aveva fatto lui. “Ma da allora è sempre peggio, c’è una tale disinformazione sessuale in questi quartieri.”
La confessione pubblica e intima di Brahim rimane un atto di coraggio isolato. Cosa sappiamo dei gay delle periferie e dell’omofobia della quale sono vittime? Nessuna parola durante i dibattiti sul matrimonio per tutti che hanno dato luogo a un grande sballo collettivo e risvegliato (antichi) fantasmi.
Peggio ancora la contestazione (ai matrimoni gay) portata avanti da personalità politiche e religiose che ha liberato i discorsi omofobi, che si sono propagati a macchia d’olio anche nelle periferie, già inclini all’omofobia. Le testimonianze e le rare inchieste sui gay, nel 2005- 2006, sono state effettuate, grazie al lavoro dei volontari di SOS homophobie: una quarantina di gay e lesbiche che hanno risposto alle domande hanno affermato di sentirsi in pericolo costante e descritto le bande di giovani carnefici, violentissimi, che agivano per lo più in gruppo.
Vicini che abitano lo stesso condominio e lo stesso caseggiato trovano le loro vittime e le prendono di mira, in casa, nella tromba delle scale o nelle strade del quartiere: insulti, minacce di morte, sputi, lanci di sassi, pestaggi. Circa la metà delle vittime il 48% sostiene che i suoi aggressori sono stati neri o magrebini, un riflesso della composizione demografica di certi quartieri, ma non solo. Sembra che la loro cultura lasci poco spazio all’accettazione del diverso e al rispetto dell’ altro, precisano le ricerche. Queste bande hanno un unico scopo: ripulire il quartiere dai gay che vengono percepiti come sottouomini, esseri inferiori, identificati solo attraverso la propria sessualità. Da qui gli insulti ripetuti: “rotto in culo”, “inculo tuo padre” o “ce l’ho grosso, lo vuoi provare?”.
Alcuni testimoni evocano ancora l’influenza dell’islam che motiverebbe questa iperomofobia. “Non si può escludere l’influenza della religione” riprende Yohann Roszewitch, presidente di Sos homophobie ricordando, però, che nelle periferie chic di Versailles o Neuilly sur Seine nemmeno il cattolicesimo e l’omosessualità si sposano tanto bene.
Ma c’è anche l’origine geografica dei genitori che vengono da paesi in cui l’omosessualità è ancora repressa come Algeria, Tunisia, Marocco o Senegal dove è reato ed è passibile del carcere. Gli aggressori sono anche giovani in ricerca di sesso, persone con dei dubbi. Diventano violenti per farsi vedere, non sempre per convinzione.
Nella cité ci sono dei codici, delle etichette da rispettare: il maschilismo, la virilità, la banda che è identificabile anche dall’abigliamento: scarpe da ginnastica requins, cappuccio in testa e anelli, ma anche il rap e lo sport alimentano l’omofobia, proclamandola. Fino agli anni 2000 Eminem aveva aumentato le vendite dei suoi album grazie a slogan omofobi, solo in seguito ha fatto pubblica ammenda. Il gruppo Sexion l’ha seguito a ruota scandendo slogan come “Credo che sia giunto il tempo in cui i gay devono morire, tagliate loro i peni, uccideteli facendo trovare i loro corpi sulle tangenziali”.
Quanto al calcio: l’omofobia imperante negli stadi è tutto tranne che spenta. Secondo uno studio commissionato nell’aprile 2013 il 41% dei giovani giocatori intervistati afferma di avere idee negative sugli omosessuali, cifra che sale al 51% per i giovani che frequenta i centri di formazione: gli stessi che alleneranno in futuro i ragazzi dei quartieri.
“Abbiamo costruito gli stadi ai piedi dei palazzoni della cité, pensando che fossero veicoli d’integrazione sociale”, ricorda Jacques Lizé, il portavoce dell’associazione “ma il calcio veicola delle idee quando un allenatore dice a in ragazzo : “corri più svelto o sei frocio?” o “non piangere, non sei una fighetta”.
È del resto in occasione di un incontro di calcio contro i giocatori del Créteil Bebel, nell’ottobre 2009, il Paris Foot gay ha vissuto la dimensione del rifiuto in periferia. La squadra del Creteil, composta in gran parte da musulmani praticanti si è rifiutata di giocare contro la squadra Paris football gay per motivi religiosi. Dopo questa vicenda il Créteil si è sciolto, dopo esser stato escluso dal campionato.
Non è giocando a calcio, ma a pallamano che Jeremy di 29 anni, originario di Montreil le ha prese, racconta : “Mi facevano fare il portiere per lanciarmi forte il pallone sul muso. Le ragazze facevano le moine davanti a ragazzoni virili, come nelle serie per adolescenti.” Jeremy si ricorda anche del ragazzo che l’ha guardato e l’ha picchiato, senza dirgli nulla. Prima di gridargli, scappando, “Vecchio frocio”.
“La periferia è un mondo a parte per i gay, non ci si sta bene”, riassume il giovane bianco che oggi fa lo stewart. Afferma di essere stato stigmatizzato a Montreil, molto presto. “ L’ho vissuto come qualcosa di sporco, non naturale. Ho anche cercato di suicidarmi, da ragazzo”.
I suoi persecutori soprattutto giovani ragazzi bianchi che abitavano ai piedi della cité. Degli pseudo delinquentelli che crescendo si sono mescolati con la marmaglia. “Alle medie, al liceo i professori non hanno visto niente. In ogni modo non hanno fatto nulla, non se ne rendevano conto. Erano così sopraffatti, che non riuscivano nemmeno a far lezione..”
Lui ha avuto la fortuna di avere dei genitori che hanno accettato la cosa, anche se ci hanno messo del tempo, e di aver potuto lasciare il quartiere per trasferirsi a Parigi. “Ma compiango quelli che rimangono, quando non si accettano lo fanno tra di loro. E quelli che si accettano vengono minacciati di morte dalle loro famiglie, ed approdano ad associazioni come Refuge o SoS homophobie”.
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TRASFORMARE IL PROPRIO CORPO. Yanis, 21 anni madre algerina e padre della Guadalupa se l’è svignata da Saint Denis, sei mesi fa, da allora è alloggiato presso un’associazione a Parigi, ma non vuole proprio dire quale. “ È troppo strappalacrime, voglio tenere solo le cose belle”.
Del resto non si sa che cosa l’abbia spinto ad andarsene, si suppone che con sua madre, che si è sempre rifiutata di accettare che è gay, i rapporti fossero molto tesi. Yanis si accetta da un bel po’, racconta che per sfuggire alla violenza dei bulli del suo quartiere si è plasmato un’identità sempre più femminile. Ha affinato i tratti, imitando quelli di Beyoncé, il suo idolo, ha ballato come lei, ha trasformando il suo corpo in una corazza.
“Mi sono messo nella pelle di una ragazzina di periferia, un’arabetta delle isole, con le mie lunghe ciglia e le lenti colorate blu. Ero ancora più sexy di una ragazza con i miei leggins aderenti” racconta, accarezzandosi la barbetta che si è lasciato crescere da poco.
“Ho visto che giocando con la bellezza mi avrebbero lasciato stare, ci sono un sacco di etero maschi a cui piacciono le principessine. Se fossi stato un gay banale mi avrebbero distrutto, giocavo a fare la ragazza provocante «la donnaccia, la poliziotta»”.
Yanis ne ha fatto la propria ancora di salvezza, prima di questa metamorfosi veniva insultato. Il ragazzo si sedeva in fondo alla classe con il banco, vicino alla finestra per vedere tutto, perché non lo prendessero in giro, alle sue spalle. “Non sono una preda facile, non li ho mai lasciati fare. Ho fatto spesso a botte, ma evitavo di farlo con i duri”.
Yanis, con il senno di poi trova quasi delle giustificazioni ai bulletti, vuole restare positivo, spiega “Nel dipartimento 93 ai giovani manca tutto, sono frustrati e canalizzano il proprio odio su quelli che ritengono più deboli, non è il fatto di essere gay che fa problema. Mi insultavano, perché ero diverso, la diversità fa paura agli ignoranti.”
“La periferia è un paesino, è una piccola comunità, in cui la diversità viene segnata a dito”, riprende Vincent, volontario a Contacts, un’associazione che aiuta i genitori ad accettare i propri figli gay, lesbiche o trans. Il ragazzo studia da assistente sociale a Pierrelaye, un comune della Val d’oise, quasi rurale, 800 persone, ci confida: “La periferia ti isola, non c’è nessuna azione di prevenzione, nessuna informazione . Prima di accettarmi non avevo nessuna rappresentazione di come fosse l’omosessualità, l’associavo alla pedofilia. I miei nonni sono molto religiosi, allora avevo paura di essere rifiutato dalla società, dalla mia famiglia, da Dio”.
Da quando aveva 8 anni Vincent sapeva che c’era qualcosa che non andava. Da adolescente era attratto dai ragazzi e alle medie gli davano del gay. “Avevo il profilo tipico della persona che si presta a diventare vittima”. Ha fatto coming out a 16 anni, dopo un colpo di fulmine per un amico di famiglia gay, della sua stessa età, privo di complessi.
“Lì è venuto a galla tutto. Non potevo più mentire”, si è confidato ai fratelli e alle sorelle, prima di farlo con i genitori. “Mio padre è stato molto violento e mia madre soffriva in silenzio. Ci hanno messo due anni per digerire la pillola” .
Nel suo paesino Vincent non passa inosservato “La situazione è al limite come se fossi un fenomeno da baraccone. D’accordo non mi hanno mai picchiato, ho ricevuto solo qualche leggera allusione da parte di sconosciuti, ma recentemente sono sfuggito per poco a un’imboscata in un parco. Camminavo mano nella mano con il mio compagno, una banda di ragazzetti in bici ci ha visti e ci aspettavano all’uscita… Abbiamo chiesto aiuto a una signora con il passeggino che stava andando via. La vera vita, per le persone come noi è a Parigi…”
A Parigi si è fatto un gruppo di amici gay, alcuni dei quali vengono dalle periferie come lui. Ha anche incontrato giovani che vengono da Pierrelaye, come lui. Confessa: “Tutti vanno a Parigi, perché è una via di fuga, ti puoi perdere nella massa. Parigi mi ha salvato”.
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Testo originale: Je suis homosexuel et je vis (mal) en banlieue