L’Avvento, attesa di Dio attraverso le nostre fragilità
Riflessioni di Bernard Ginisty pubblicate nel sito Garrigues et Sentiers (Francia) il 16 dicembre 2015, traduzione di finesettimana.org
Proponendo ogni anno la liturgia dell’Avvento, la Chiesa invita a vivere il rapporto con Cristo come novità permanente e non come soddisfatto possesso. Quando Gesù comincia a far parlare di sé, Giovanni Battista manda alcuni dei suoi discepoli ad interrogarlo: “Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?”. La sua risposta non consiste nell’insegnare un dogma o nel prendere posizione nelle dispute religiose del suo tempo. “«Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la Buona Notizia» [1].
Il segno messianico è che le persone si rialzano e che i poveri sentono una buona notizia. I fondatori delle grandi religioni conoscono in generale una lunga evoluzione verso la saggezza e la santità. L’abbondanza degli anni costituisce un segno di benedizione. Ma Cristo non è affatto un modello di lunga vita. Non scrive neanche un libro, non crea monasteri. Muore giovane e quella che viene definita la sua vita pubblica non supera i tre anni. La sua traiettoria, che i cristiani ricordano ad ogni eucaristia, è quella di una “passaggio”, di una Pasqua. I suoi discepoli non capiscono niente mentre lui è ancora in vita, persi come sono nell’attesa di un messia politico-religioso. Cristo non cerca di arruolare nessuno. Non solo: invita ciascuno ad accogliere dentro di sé la venuta dello Spirito. Quando vede i suoi discepoli costernati dall’annuncio della sua passione e morte, dice loro: “È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito” ([2] . Questa venuta dello Spirito nell’uomo non è mai data una volta per tutte. Un Dio vivo, è un Dio che continua a nascere e, come dice Meister Eckart, lo si può cogliere solo “nel compimento della nascita” [3].
In questo tempo di preparazione al Natale, il Vangelo ci ricorda che Dio è un bambino in una stalla e che è presente nel pane spezzato e condiviso. Dio si “sveste” degli orpelli di potenza, di gloria, di sufficienza. Cristo non ci invita ad un progetto di carriera istituzionale o alla costruzione di una perfezione morale, e neanche a fuggire in un rifugio di fronte agli abomini di questo mondo. Una delle preghiere più adatte che io conosco è quella di Etty Hillesum, giovane ebrea di 27 anni morta in un camera a gas ad Auschwitz nel 1943.
Scriveva così nel suo Diario pochi mesi prima di morire: “Dio, certe volte non si riesce a capire e ad accettare ciò che su questa terra i tuoi simili si fanno l’un l’altro, in questi tempi scatenati. Ma non per questo io mi rinchiudo nella mia stanza, Dio: continuo a guardare le cose in faccia e non voglio fuggire dinanzi a nulla, cerco di comprendere i delitti più gravi, cerco ogni volta di ritrovare la traccia dell’uomo, nella sua nudità, nella sua fragilità; di quest’uomo che spesso è diventato irriconoscibile. Sepolto tra le rovine mostruose delle sue azioni insensate.”[4]
È a questo che ci invita il tempo d’Avvento: “a ritrovare la traccia dell’uomo nella sua fragilità”.
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1 – Vangelo di Matteo 11.2
2 – Vangelo di Giovanni 16,21
3 – Maître Eckhart : Sermons, Tome 2, Éditions du Seuil, 1978, pag.113
4 – Etty Hillesum : Une vie bouleversée. Journal 1941-1943, Éditions du Seuil, collection Points, 1995, pag.117
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Testo originale: L’Avent, attente de Dieu à travers nos fragilités