Perchè nella chiesa è tempo di parlare di una pastorale con le persone omosessuali?
Riflessioni di Gianni Geraci*
«Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura», dice Gesù ai suoi discepoli quando li incontra dopo la resurrezione (Mc 16,15) e il compito della chiesa è davvero quello di andare in tutto il mondo e predicare a tutti i vangelo di Gesù. «A ogni creatura» ricorda l’autore dell’ultimo capitolo di Marco. «A tutti gli uomini» recita la Lumen Gentium e, per spazzare via ogni equivoco, aggiunge «senza eccezioni» (Lumen Gentium 13). E se si parla di «tutti gli uomini, senza eccezione» visto che gay e lesbiche appartengono all’umanità, si parla implicitamente anche di loro. Ma i cattolici lo sanno?
Tutte le volte che sono stato invitato da una comunità parrocchiale a tenere un incontro di catechesi sull’omosessualità inizio sempre chiedendo ai miei interlocutori: «Ma secondo voi una persona omosessuale può andare in Paradiso?» e la maggior parte delle risposte è un no convinto.
E a questo punto apro il Catechismo della Chiesa cattolica e ricordo che gli uomini e le donne che presentano delle tendenze omosessuali non solo «sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita» (CCC 2358), ma «possono e debbono avvicinarsi alla perfezione cristiana» (CCC 2359).
Purtroppo, nel corso dei secoli, le persone omosessuali hanno sempre vissuto la tentazione di nascondere la loro omosessualità. Questa tentazione è stata ancora maggiore per i tantissimi omosessuali che fanno parte della chiesa e questo ha portato la maggior parte dei cattolici a pensare che, in realtà, di omosessuali credenti non ce ne sono e che, al massimo, ci sono persone che hanno il “problema” dell’omosessualità, un problema che, magari, può anche essere superato e che, in ogni caso, va relegato in un angolo periferico della propria vita.
Le cose però non stanno così.
Le persone omosessuali esistono e molte di queste persone hanno capito che, nonostante la loro omosessualità o forse, ancora di più, attraverso la loro omosessualità, nella loro vita risuona forte il richiamo di Gesù che, quando parla della sua morte in croce, dice: «Attirerò tutti a me» (Gv 12,32).
«Tutti!», dice Gesù. Proprio tutti! Uomini e donne, ricchi e poveri, grandi e piccoli, potenti e deboli, sani e malati, belli e brutti, omosessuali ed eterosessuali.
Occorre impegnarsi per far capire a chi fa parte del popolo di Dio che anche le persone omosessuali «sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita».
Occorre farlo per le persone omosessuali che rischiano di perdere la speranza e di abbandonare una chiesa da cui pensano di essere rifiutati. Occorre farlo per le loro famiglie, per i loro amici, che vedono i loro cari allontanarsi dalla chiesa e dal cristianesimo.
Occorre farlo soprattutto per la chiesa, perché se la condivisione della fede è fonte di gioia, non è giusto impoverire la chiesa stessa privandola della gioia che nasce dalla fede delle persone omosessuali.
In realtà, dietro alle opinioni delle classi di catechismo che ho incontrato, ci sono secoli di ipocrisie e di diffidenze, alimentati anche da un’idea preconcetta di omosessualità che si è poi rivelata inadeguata alla luce delle scienze che studiano il comportamento umano.
Si pensava che gli omosessuali fossero degli eterosessuali viziosi che andavano contro la loro natura per un non meglio identificato gusto per la trasgressione che ne prendeva il controllo e che le portava a considerare piacevole e desiderabile ciò che invece, per la specie umana e per la sua natura, è un abominio.
Una conseguenza di questo approccio è l’identificazione delle persone omosessuali con la pratica di una sessualità omosessuali.
Per fortuna, a partire dalla fine degli anni settanta, la teologia ha iniziato a confrontarsi in maniera fruttuosa con le scienze umane e ha fatto propria la distinzione tra pratica dell’omosessualità e orientamento omosessuale.
Negli anni settanta e negli anni ottanta questa distinzione è stata recepita anche da alcuni documenti del magistero ordinario che hanno messo l’accento sul fatto che, nonostante il giudizio negativo della Scrittura, non tutti gli omosessuali possono essere considerati personalmente responsabili della loro condizione» (Persona Humana 8) o a dichiarare che la particolare inclinazione delle persona omosessuale non è, in sé, un peccato (Hosexualitatis Problema 3).
Quello che è mancato, in molte chiese e in molti paesi, è stato il coraggio di recepire fino in fondo le indicazioni che la Congregazione per la dottrina della Fede dava ai vescovi della chiesa cattolica nella lettera Homosexualitatis problema quando, al punto 15, li incoraggia «a promuovere nelle loro diocesi, una pastorale verso le persone omosessuali in pieno accorto con l’insegnamento della Chiesa».
Le conseguenze spiacevoli di quella pavidità si sono manifestate in questi ultimi anni quando la chiesa cattolica ha iniziato a farsi contaminare da alcune idee fondamentaliste, presenti soprattutto nelle chiese evangelicali degli Stati Uniti, che affermano (contro il parere di tutti gli studiosi seri) che l’omosessualità si possa curare e che tra le possibili strade che una persona omosessuale può percorrere ci sia anche quella di un matrimonio “riparativo” capace di limitare l’influsso dell’orientamento omosessuale nella vita delle persone.
I risultati li incontro spesso quando vengo contattato da persone che si sono sposate e che però non riescono a controllare le loro pulsioni omosessuali. Persone che hanno caricato dei problemi collegati alla loro omosessualità dei coniugi e dei figli inconsapevoli.
Famiglie che si sono disfatte perché non fondate su un amore sincero, ma fondate soltanto sul bisogno di normalità di una persona omosessuale che non riesce ad accettarsi per quello che per poi impegnarsi a vivere seriamente il Vangelo.
Le cose, in questi ultimi anni, sono addirittura peggiorate perché, mentre negli Stati Uniti, i continui fallimenti di quanti propongono le terapie riparative, stanno portando molti gruppi ad abbandonare questa pratica, qui in Italia si è progressivamente affermato, soprattutto all’interno della Chiesa cattolica, un movimento di opinione che si rifiuta di riconoscere l’esistenza stessa dell’omosessualità, sostenendo (contro quanto dice lo stesso magistero della Chiesa) che non si tratta di qualche cosa di profondamente radicato nella struttura della persona e dicendo che la soluzione delle difficoltà che le persone omosessuali vivono, consiste nella negazione stessa dell’omosessualità, una negazione che però alimenta un’ipocrisia che non potrà mai trovare un riscontro nel Vangelo.
Credo che sia arrivato il momento di far partire, anche in Italia, una pastorale seria con le persone omosessuali, capace di intraprendere quel percorso verso la perfezione cristiana che il Catechismo ricorda loro (cfr. CCC 2358).
Non si tratta quindi tanto di modificare la dottrina della chiesa, quanto di proporla seriamente alle persone omosessuali rispettando il loro vissuto e la loro dignità e, quindi, proprio per questo motivo, non rifiutando apriori la possibilità che anche queste persone siano in grado di realizzare la volontà di Dio nelle loro vite.
Saranno poi le storie concrete di queste persone a dare poi dei criteri di riferimento validi per impostare una pastorale efficace.
In questo senso credo che ci dovrebbe guidare una preghiera che spesso ricordo agli omosessuali che mi chiedono una mano: «Prendimi Signore come sono! Fammi Signore come vuoi!».
«Prendimi Signore come sono!» e aiutami ad accettarmi per quello che sono, con la mia umanità, con il mio desiderio di seguirti e di starti vicino, con le mia aspirazioni e con la mia omosessualità.
« Fammi Signore come vuoi!» e guidami nella scoperta di quella che io ho il coraggio di chiamare la mia vocazione di omosessuale cristiano.
E se davvero affideremo allo Spirito Santo il compito di guidarci nella ricerca delle forme più adatte di una pastorale specifica per le persone omosessuali, riusciremo, come chiesa, a trovare risposte capaci di tener conto di tutte le esigenze che entrano in gioco.
Sulla base di queste suggestioni nasce l’esigenza di scrivere e riflettere su questo tema: per aiutare le nostre chiese a trovare il coraggio di raccogliere le indicazioni che vengono dal magistero e per vivere con loro la sfida di fare la volontà di Dio anche quando si è chiamati a percorrere strade nuove che nessuno ha mai descritto ma che forse molti, hanno già percorso nel nascondimento e nella riservatezza che, nel corso della storia, ha caratterizzato il vissuto delle persone omosessuali.
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* Gianni Geraci ha studiato alla Cattolica e, dopo aver partecipato attivamente alla vita di alcune associazioni cattoliche, è entrato in contatto col Guado, il gruppo di cristiani omosessuali di Milano, di cui è attualmente un animatore e portavoce. Un suo contributo sul temadella pastorale con le persone omosessuali è pubblicato nel libro “Le strade dell’amore. Cura pastorale e giustizia sociale per le persone omosessuali e transessuali” (Edizioni Piagge, 2015)