Libertà va cercando. Gli abissi della libertà
Relazione tenuta da Sergio Givone*, professore di Estetica all’Università di Firenze, al ciclo d’incontri “Libertà va cercando”** il 27 Novembre 2007, sbobinatura non rivista dall’autore realizzata da Carlo del gruppo Kairos di Firenze
(… ) La tua sfida è a portarmi su un piano dove la libertà sia quella che, in effetti, la libertà è, qualcosa di abissale. Gli abissi della libertà … Ebbene è su quella soglia che bisogna portarsi e da quella soglia affacciarsi. Quando si parla di libertà c’è un rumore di fondo, un ronzio, che ci pare di percepire nelle orecchie, che è anche qualcosa di più che rumore di fondo e un ronzio. È un ammonimento, un monito saggio. Si dice libertà … Bravi! Però datevi una calmata. La libertà non sappiamo cosa sia. La libertà se vogliamo parlarne, lo possiamo fare soltanto in riferimento alla libertà da ed alla libertà di, cioè una libertà circoscritta, la libertà di cui facciamo esperienza.
La libertà alla quale fanno riferimento i diritti umani. In altri termini la libertà dal bisogno; e giustamente si sente obbiettare che libertà è quella di chi non è anzitutto libero dal bisogno, dai bisogni elementari, dalla fame, dalla sofferenza. E poi la libertà di, libertà di fare questo, di fare quest’altro, libertà di eleggere i propri rappresentanti, libertà di muoversi, e così via.
Ecco c’è questo ammonimento, questo invito alla prudenza. E questo invito alla prudenza è la cosa più ragionevole che si possa pensare. La filosofia ci dice questo: quando si parla di libertà cerchiamo di ricordare che sempre e soltanto si parla di libertà di e di libertà da, o meglio non si può parlare di libertà se non partendo da libertà di e dalla libertà da.
Eppure credo che le cose non stiano esattamente in questi termini: che accogliere quell’invito a pensare la libertà su un altro piano, e dico subito sul piano che le è proprio, il piano metafisico, il piano in cui la libertà dà luogo a esperienze abissali, abissali appunto perché non circoscritte, perché capaci di profondità d’abisso. L’invito a pensare la libertà come libertà metafisica è irrinunciabile, bisogna accoglierlo, pena non capire nulla o quasi nulla di che cosa la libertà propriamente è, pena non rispondere a nessuna, o quasi a nessuna delle domande che la libertà, questa cosa misteriosa, misteriosissima, ci fa, ci propone.
Detto questo è difficile non porgere l’orecchio, l’altro, quello libero dal ronzio delle domande precedenti, a insinuazioni del tipo di quelle a cui si offriva S. Agostino, a proposito non tanto della libertà, ma a proposito del tempo. Ricordate? Agostino diceva: “Il tempo so benissimo cos’è, ne faccio esperienza, chi non sa cos’è il tempo. Tutta la mia vita è giocata su questa realtà. Cos’è la vita se non una realtà temporale. Però non appena cerco, mi sforzo di spiegare il tempo, di trasformare i concetti in parole questa realtà, che pure è la mia, nulla di più intimo, nulla di più mio, non appena faccio questo tentativo, cado in confusione.”
Ecco, credo che la stessa cosa si debba dire della libertà, non appena la libertà, non appena quella riflessione sulla libertà viene spostata dal piano della libertà positiva (della libertà da e della libertà di) al piano metafisico. So benissimo cos’è, però non appena questo sapere io dovessi trasformarlo in concetto, in discorso, dovessi comunicarlo a me stesso, non appena dovessi mettere in chiaro questa cosa, non so come fare, tutto mi sfugge, tutto mi gira intorno e l’afferramento della cosa stessa non mi è dato.
È difficile confutare questa ciò, che non è solo un’impressione, ma qualcosa di più. Impressione avvalorata dal fatto che non abbiamo, quando si tratta della libertà e della libertà in senso metafisico, cioè della risposta alla domanda: “Ma che cos’è propriamente la libertà? Che cos’è? – una volta che ci si sia attenuti alla libertà di e alla libertà da – che cos’è la rivolta? Che cos’è il sentimento di sconvolgere gli assetti, il bisogno di sconvolgere gli assetti nei quali mi trovo e nei quali sono prigioniero? E anche più profondamente, a un livello più profondo: la libertà è un’illusione?
La libertà che mi porta a dire no, laddove io fossi prigioniero di un sistema in cui le libertà di sono poco o niente, la libertà da non mi è data perché sono nel bisogno, la rivolta a questo stato di cose, e di nuovo peggio ancora, il no che io dico a questo stato di cose, è pura illusione, oppure attinge a qualche cosa di fondato e di giustificato. E ancora di più non solo il no, ma il sì che io dicessi alla vita nonostante le condizioni in cui mi trovo a vivere, attinge a un senso profondo capace di verità? Questo sì e prima questo no, oppure sono mere illusioni?
Ecco, dicevo, laddove noi ci spostiamo sul piano di una libertà metafisica, non solo dobbiamo fare i conti con quel sospetto agostiniano di avere a che fare con qualcosa di mercuriale, con qualcosa che non riusciamo ad afferrare, ma abbiamo a che fare con una vera e propria contraddizione. Abbiamo a che fare con qualcosa di misteriosissimo, di impensabile e che tuttavia non possiamo non pensare. Pena l’oscuramento totale della nostra umanità.
Provate a cancellare, a togliere di mezzo la libertà. Dobbiamo farlo se è impensabile. Ma allora fatelo davvero. E l’uomo pensate come quell’essere che non deve rispondere delle proprie azioni. L’uomo, che già di suo è oscuro a se stesso, risulterebbe ancora più oscuro, risulterebbe del tutto indecifrabile. Il giorno che dovessimo pensarlo come quell’essere che non deve rispondere delle proprie azioni. Qualcosa come una contraddizione da cui è difficile venire fuori.
La libertà è qualcosa di misterioso e di impensabile, tuttavia non può non essere pensato. E perché la libertà è qualcosa di misterioso e così difficile da pensare e perché la libertà e qualcosa che non può non essere pensata? Che la libertà sia qualcosa di misterioso, lo ha spiegato meglio di chiunque altro Kant, che è il vero filosofo della libertà.
La libertà è qualcosa di misterioso perché qualunque gesto noi facciamo, questo gesto, questa azione, si colloca nell’ordine delle cause e degli effetti. E se si colloca nell’ordine delle cause e degli effetti, appartiene a quello che Kant chiamava il “grande meccanismo universale”. Io posso bensì regredire fino al punto in cui davanti a me sta un’alternativa e dire: “Questa è l’alternativa, posso fare A o posso fare B. Sta a me!”
Già ma chi mi assicura che sta a me decidere? Chi mi assicura che il titolare della decisione sono davvero io? Hanno buon gioco da questo punto di visto i neurologi, i neurobiologi a spiegarci che comunque la mia decisione è già decisa, un quantum infinitesimo di tempo prima che io decida liberamente, la decisione è decisa, è inclinata a, sono portato a, e allora sono ancora libero?
Stabilito che il nostro agire appartiene al mondo fenomenico, questo agire, appunto, è soggetto alla legge di causa ed effetto e io non posso sperare di risalire a un prius saltando fuori da questa legge. A un prius dove la legge di causa ed effetto non valga più. Ipotizzando questa supposta libertà d’azione, che è appunto una supposizione, nient’altro che una supposizione, ma che implica il passaggio ad un altro ordine, un ordine che non sia l’ordine dei fenomeni, che non sia l’ordine governato dalla legge del meccanismo universale. Dove appunto anche la mia volontà è soggetta a qualcosa che la determina. Anche la mia decisione è decisa, quella frazione di secondo di cui appunto parlano i neurobiologi, quella inclinazione della volontà che sembrerebbe mettere tra parentesi, impedirci di parlare di libertà.
E d’altra parte la libertà, se non la posso sperimentare ex-ante la sperimento ex-post. E la parola sperimentare, fare un’esperienza non è esagerata. Ex-post cosa significa? Significa che qualcosa che doveva accadere, che poteva non accadere, non lo so, è comunque accaduto.
Questo qualche cosa è un evento, appartiene all’ordine dei fenomeni, non c’è nessun dubbio. Eppure questo qualcosa può essere una piccola, piccolissima cosa insignificante, una parola che ho detto, può essere qualcosa di immenso, un gesto inconsulto o consulto, un gesto di violenza che toglie la vita a un altro, ed ecco ciò che è stato, e che nessuno può fare che non sia stato , neanche Dio neanche gli dei, ciò che è stato, mi investe e mi interpella. La domanda è: “Ma tu sei responsabile o no di ciò che è stato? Devi rispondere o no?”
La nostra esperienza ci dice che qui entrano in gioco forze con cui non possiamo non fare i conti, forze su cui non possiamo non gettare quel poco o tanto di luce che la nostra intelligenza delle cose, intelligenza filosofica delle cose ci rende possibile. Quali sono queste forze? Quali sono le forze che noi scopriamo a partire dall’evento che appunto è stato e nessuno può fare che non sia stato? Ripeto, una voce detta senza rendersi conto, ed ecco una catena di dolore che questa parola, detta tanto per dire, una catena di dolore nasce da questa parola – da questo poco più che niente – perché abbiamo ferito qualcuno. Non volevamo ferirlo, eppure l’abbiamo ferito.
E il fatto di averlo ferito, non appena ce ne rendiamo conto, vale per noi come una presa di coscienza che ci costringe a dire, ma davvero non volevo ferirlo? Figuriamoci quando non si tratto soltanto di una parola che ci siamo lasciati sfuggire, ma di un gesto che ha messo in atto una catena di cause ed effetti ancora più dura, ancora più pesante. Pensiamo se questo gesto ha interrotto una vita o altro.
Come possiamo? Certo è avvenuto perché non poteva non avvenire: in quanto gesto che è prigioniero delle cause e degli effetti, doveva avvenire. Ma davvero non è cosa nostra? Davvero possiamo esimerci dal riconoscerlo come nostro? A volte ci capita di riconoscere come nostri – e non siamo in errore – eventi che davvero non hanno nulla a che fare con noi. Un incidente per esempio … Vado in macchina, eppure quell’incidente mi riguarda. Non lo volevo ma è stato, e nel momento in cui è stato è come se ricadesse su di me con tutta la forza, non più di una mera necessità, ma di una necessità da me oscuramente voluta e di cui sono oscuramente complice.
Il rimorso, la colpa, l’espiazione. Questo dice la fenomenologia degli eventi che nel momento in cui sono stati appartengono al dominio della necessità e tuttavia sono cosa nostra, cosa di cui dobbiamo rispondere. E come dice il proverbio, il linguaggio comune, è difficile far tacere la voce che ci rimorde, il senso di colpa. Certo che vogliamo liquidarlo come mero senso di colpa, cioè come qualcosa di cui liberarsi. E tuttavia possiamo contentarci di questo? Di ritenere che il gioco che lega il rimorso, la colpa e l’espiazione, possiamo liberarci di tutto ciò attribuendolo ad un sentimento mal riposto?
Sembra difficile, anche perché non possiamo nasconderci come qui, a ruotare a essere fatta ruotare su se stessa e quindi a essere trasformata profondamente, è la realtà, è la realtà in quanto tale. Non c’è niente come questo movimento, questo passaggio dal rimorso al senso di colpa alla presa di coscienza di essere colpevoli – anche se non volevo, anche se non sapevo, anche se … – fino all’espiazione, non c’è niente come questo passaggio, che possa far ruotare la realtà su se stessa. L’uomo non conosce esperienza più radicale di trasformazione di questa.
Certo, l’uomo può trasformare la materia, ma siccome l’uomo che è fatto di materia è anche, come ricordava Kant, è fatto di qualcos’altro – la sua vita appartiene all’ordine dei fenomeni materiali, ma anche all’ordine dei fenomeni spirituali, quelli che appunto gli impongono di rispondere delle proprie azioni, e quindi lo obbligano a ipotizzare questa cosa misteriosa che è la libertà, postulare questa cosa misteriosa che è la libertà – bene, sul piano dei fenomeni spirituali, i fenomeni morali, non c’è trasformazione più grande che quella che appunto avviene attraverso il gioco che abbiamo così di rimorso, senso di colpa ed espiazione.
Perché non c’è trasformazione più grande? Perché il segno meno diventa il segno più. Perché il negativo diventa positivo. Perché il negativo più profondamente incatenante e sviante, il male – non solo il male di vivere, ma anche il male che abbiamo fatto – si trasforma in bene.
Noi sappiamo che l’uomo non è dato. È questa la tragedia della sua condizione, la tragicità della sua condizione. Non è dato di sapere, non solo di sperimentare, che cosa sia il bene se non facendo l’esperienza del suo contrario, se non facendo l’esperienza del male. Il bene altro non è che male redento, espiato, male da cui ci siamo liberati.
Ma ci si può liberare, si può produrre questa liberazione solo se alla radice di essa c’è appunto quella cosa misteriosa, quella cosa che non sappiamo cosa sia, ma di cui abbiamo assolutamente bisogno, che è la libertà. Ora, tutto ciò noi lo possiamo argomentare, indagare, osservare – come ho cercato di fare fino a questo momento – sul piano etico. L’esperienza morale è quella che ci dice le cose che sto tentando di dire. È l’esperienza morale quella che ci dice la rotazione della realtà su se stessa, dal negativo al positivo, la rotazione dal male al bene. E anche da bene al male, perché il male altro non è che bene rifiutato, che bene camuffato, che bene negato e irriso.
Ora, questa rotazione della realtà su se stessa, la possiamo verificare sul piano etico, sul piano morale e mette capo a un presupposto che è precisamente quell’enigma, quel punto di domanda, che non sappiamo che cosa sia, ma di cui abbiamo bisogno pena l’impossibilità di spiegare qualcosa, che tuttavia deve essere spiegato. Ma non soltanto sul piano etico o sul piano di un’esperienza che guarda sì alla religione ma resta esperienza etica. Anche sul piano più propriamente religioso e sul piano che sta al di là dell’etica, e sul piano estetico che sta al di qua dell’etica. Incontriamo facciamo un’esperienza di questo tipo.
Un grande filosofo, Plotino, forse il più grande filosofo del mondo antico e il primo grande filosofo del mondo moderno – filosofo che davvero fa da cerniera tra questi due mondi, davvero un uomo che ha trasmesso l’intero sapere dalla grande filosofia classica al mondo moderno e contemporaneo – bene, Plotino ha il merito di aver posto il problema della libertà, per primo nel mondo greco laddove anche nel mondo greco la libertà conosceva soprattutto nei termini di libertà di e libertà da. Plotino è il filosofo della libertà metafisica, della libertà in quanto libertà.
Ora il discorso di Plotino non riguarda tanto il piano etico. Il punto di partenza è estetico. Plotino mette in questione quell’ordine oggettivo, quei rapporti tra le parti, che secondo l’intera tradizione classica – da Platone fino alle scuole più tarde – quell’ordine di fenomeni che è il fondamento della bellezza.
La bellezza altro non è, e Plotino lo insegna, come del resto insegnava Platone, che un rapporto governato dal numero fra le parti. È la sezione aurea. Come facciamo a sapere che qualcosa di bello è bello – chiedeva Plotino? Lo sappiamo perché lo riconosciamo. E come lo possiamo riconoscere? Come avviene questa anamnesi, questo riconoscimento? Avviene sulla base di quell’idea di bello che, sempre identica a se stessa, perché pur essendo le parti diverse sempre lo stesso è il numero che le governa; dunque sempre identica è l’idea di bellezza. Noi la possediamo ma la possiamo anche indicare. Il bello, cioè là dove c’è armonia, là dove il rapporto tra le parti è quello definito dalla sezione aurea.
E Plotino però a quel punto incalza i suoi studenti, andava a far lezione facendo domande. E le domande sono: “Se le cose stanno così, se c’è bellezza là dove noi la riconosciamo – e la riconosciamo, perché disponiamo di un’idea di bellezza. Se c’è bellezza – e c’è, perché se vado a misurare una statua, il rapporto tra naso e bocca o tra testa e spalle, se io vado a misurare un tempio, il rapporto tra le colonne e le colonne stesse, c’è sempre quest’idea, sempre questo numero, sempre questo rapporto tra le parti, quindi il bello è qualcosa di oggettivo – se il bello è qualcosa di oggettivo, se bellezza c’è laddove io la riconosco, e la riconosco perché posso riconoscerla, qualcuno di voi sarebbe disposto a dire che la Stella del mattino non è bella? Qualcuno di voi sarebbe così pazzo da dire che il fuoco non è bello?
Per capire questo punto centrale della cosmologia di Plotino, bisogna ricordare che Plotino, evidentemente, viene prima di Galileo, cioè appartiene ancora a un mondo che crede nella separazione tra il mondo sublunare e il mondo celeste, laddove nel mondo sublunare i corpi sono fatti di materia e sono appunto peribili, perché fatti di materia e questo rapporto tra le parti sarà pure bello ma non è destinato a durare eternamente (infatti la metamorfosi, la degenerazione, la scomposizione, lo distrugge), laddove invece nel mondo celeste non abbiamo a che fare con rapporto tra le parti, perché i corpi sono immateriali. Il fuoco in questo mondo altro non è che un segno della presenza dell’altro mondo in questo. La Stella del mattino, che è fatta di fuoco, è l’apparire dall’altro mondo dal mondo celeste in questo mondo di qualcosa che suscita in noi un sentimento di bellezza, perché nessuno è così pazzo da dire: “No, non è bella la Stella del mattino, la Stella della sera!”. Nessuno è così pazzo da dire: “No, il fuoco non è bello!”.
E allora? Se la bellezza è riconoscimento di un certo rapporto, evidentemente nel bello c’è qualcosa di più e di diverso. Il bello, la bellezza, dice Plotino, noi la cogliamo in quanto riflesso di qualche ccosa che eccede l’ordine dei fenomeni naturali e la loro composizione. Qualcosa che eccede la stessa idea di bello come realtà oggettiva, come realtà governata dal numero. E che cos’è questo qualcosa? Ecco la domanda!
Occorre, dice Plotino, guardare lassù, cercare d’immaginarci cosa lassù è stato fatto quando è stato fatto tutto. Lasciamo stare creazione o emanazione. In realtà in Plotino non si tratta né di creazione né propriamente di emanazione. Quello che è certo è che Plotino ci invita a cogliere nella bellezza il riflesso di quel gesto creatore, emanatore, un gesto che consiste interamente nel lasciar essere, senza perché.
Plotino ci invita a cogliere in questo senza perché – senza perché che ritorna e ritornerà poi nella mistica, “La rosa che fiorisce perché fiorisce” – il senza perché, di un gesto sovrano e gratuito; Plotino ci invita a cogliere nelle cose belle, sia in quelle dove il rapporto tra le parti lo possiamo individuare, sia in quelle in cui non c’è nessun rapporto tra le parti, un riflesso di quel senza perché, di quel gesto che consiste, che – dice Plotino è il più difficile da pensare – che consiste nel lasciar essere.
Che cos’è questo lasciar essere? Plotino immagina la scena lassù. La scena è quella del Poietes, il creatore – non nel senso del poeta ma nel senso di colui che fa. Il Poietes ha una compagna accanto a sé, nel momento in cui lascia essere, cioè compie questo gesto assolutamente libero, che non consiste se non nel lasciar essere il mondo. Ha una compagna; questa compagna è Sighe, silenzio. Perché l’Uno, nel momento in cui compie l’atto della creazione è accompagnato, ha al suo fianco Sighe? Perché non ha bisogno di suggeritori. La compagna dell’Uno è silenzio, è Sighe, perché l’Uno, il Padre, Egli, oppure il Poietes, non ha bisogno di suggeritori.
Che cosa significa che non ha bisogno di suggeritori? Significa che l’Uno, nel momento in cui lascia essere – ed ecco il mondo, come dal nulla sboccia, è un fiore che sboccia senza perché – nel momento in cui compie questo gesto, se si limitasse ad eseguire, cioè a fare quello che è tenuto a fare, se si limitasse a guardare come fanno i poeti gli artisti di questo mondo, se si limitasse a guardare un modello e dicesse: “Questo devo fare, perché niente è più perfetto di questo!”, l’Uno non sarebbe Uno ma sarebbe Due, perché ci sarebbe lui e ci sarebbe anche l’altro, ci sarebbe l’Uno e ci sarebbe anche il modello che all’Uno si impone e che l’Uno è tenuto a eseguire. Ma se l’Uno è tenuto a eseguire qualcosa, sia pure la cosa più bella si possa immaginare, che lui stesso sia in grado di immaginare, se l’Uno è semplicemente tenuto ad eseguire un progetto, nella sua opera noi ammireremmo certo la perfezione dell’artefice, la sua grande capacità, ma non quel di più, non quella grazia, quel tocco, quel che di sublime, che è la libertà, che è la pura gratuità del gesto.
Il mondo non sarebbe così pieno di dei, dice Plotino, cioè così capace di fiorire in forza di una forza sua propria (scusate il bisticcio di parole), se il mondo fosse una semplice esecuzione di un progetto. Noi avvertiremmo nel mondo qualcosa di meccanico, qualcosa di ripetitivo, qualcosa che non ha anima, che ha sì un perché, ma non ha la libertà. Non ha quel senza perché, infinitamente più ricco del perché.
E dice Plotino: il fatto che il mondo sia senza ragione, il fatto che sia frutto di un gesto che vede il Poietes tirare fuori, cavare fuori il mondo come dal nulla, forse che lo priva di valore o è un valore aggiunto? Il mondo lo sappiamo non solo è pieno di dei, ma è pieno di nomoi, pieno di leggi, e gli dei sono coloro che garantiscono le leggi che governano le cose del mondo. Gli uomini non dovrebbero stancarsi di studiare queste leggi; non c’è vita – e in questo Plotino è degno dei suoi maestri che sono Platone e Aristotele, non c’è vita più degna dell’uomo che quella di colui che dedica la sua vita allo studio delle infinite leggi che regolano tutte le cose. Ma il fatto che tutte le cose siano regolate da leggi, non significa che le leggi siano sufficienti a spiegarle, perché il gesto, è altro rispetto alla legge, il gesto non risponde della legge, non risponde di un modello che gli si impone.
Il gesto è libero. E il fatto che sia libero non significa che il mondo è privo di leggi, cioè che ha dato luogo questo gesto a un che di arbitrario e di gratuito. Ragiona così: “Chi non sa – dice Plotino – che cos’è la libertà?”. La libertà è anche per Plotino cosa misteriosissima, ma il mistero suo più proprio consiste nel fatto che, il massimo di infondatezza, questo carattere abissale – non c’è altro termine, ecco perché siamo su un piano metafisico, ma di un’abissalità metafisica – l’infondatezza, anziché tradursi in una produzione di un caos senza leggi, si traduce nel suo esatto contrario.
Solo chi non sa cos’è la libertà, confonde la libertà con l’arbitrio e quindi con la produzione di qualcosa di caotico. La libertà è il trarre fuori dal nulla l’infinito cosmo, cioè l’infinità delle leggi in forza di un gesto, che è un gesto di assenso, è un gesto di lasciar essere, è una produzione di senso dall’infinito.
Dice Plotino: “Mi stupisce tutto questo! Eppure tutto questo fa parte della nostra esperienza. È vero, vi ho portati lassù, ma restiamo pure quaggiù. La mamma. La madre nei confronti del suo bambino. Volete sapere cos’è lasciar essere? Un lasciar essere, davvero educativo, che faccia crescere questa cosa poco più che informe ma già infinitamente piena di potenza che è il bambino. Volete sapere che cos’è il lasciar essere? Non avete che da osservare la buona mamma nel momento in cui educa il suo bambino. Da una parte l’arbitrio – faccia quello che vuole – dall’altra, l’imposizione, la regola. E tra l’arbitrio e l’imposizione, tra la durezza di leggi che vengono imposte a questa povera creatura e l’anarchia di un comportamento che lo distruggerebbe, il lasciar essere, questa custodia amorosa, questa capacità di attingere alla potenza, che è ancora in potenza e , quindi, ancora parente del nulla, ma che da lì viene fuori e sboccia.
Diremmo, dunque, che il fondamento di tutte le cose è il nulla? No! – dicono i suoi allievi. – E invece sì! Diremmo che il fondamento di tutte le cose è il nulla perché il fondamento di tutte le cose è la libertà. Perché le cose non sarebbero così belle così splendenti, non rifletterebbero quel gesto sovrano e sublime, che è il gesto creatore, se non fossero create dalla libertà e quindi tratte fuori dal nulla.”
Non è vero che trarre fuori dal nulla con un gesto di libertà, è un gesto impoverente. È un gesto arricchente e proprio perché sono state tratte fuori dal nulla, in forza della libertà, di quel lasciar essere sovrano e libero, le cose risplendono e risplendendo mostrano le infinite leggi di cui sono composte. Se le cose non stessero così, se il gesto originario non fosse quello che Plotino descrive, tutto sarebbe più spento, più opaco, verosimilmente, più semplice, più lineare, più meccanicistico, funzionerebbe come un meccanismo, solo come un meccanismo.
Funziona come un meccanismo, e anche come un organismo vivente e libero, proprio perché frutto della libertà. Questa fenomenologia che abbiamo sviluppato grazie a Kant da una parte e a Plotino dall’altra, a Kant, quindi restando sul piano etico, il problema della colpa del dover assumere su di se l’evento ciò che è accaduto – non volevo ma è accaduto, ma sei sicuro che davvero non lo volevi – quella colpa che i tragici chiamavano amartia è questo, né più né meno che questo.
La tragedia greca è la risposta alla filosofia della necessità, proprio perché nel cuore della necessità scopre la responsabilità e dunque la libertà. La colpa tragica, altro non è che il riconoscimento del proprio volere in atto là dove non c’era nessun volere, apparentemente. Edipo, Edipo che deve rispondere di un gesto di cui nessun tribunale lo imputerebbe, assolutamente. Ma questo è ciò che dice la tragedia, questo nesso appunto tragico di destino e responsabilità, arrivando a sostenere che siamo responsabili del nostro destino, che dobbiamo rispondere di ciò che capita e che nessuno è in grado di impedire apparentemente. O anche senza apparentemente.
E non è una cosa così stravagante, questa, perché la possiamo tranquillamente trasportare dall’ambito del tragico greco all’ambito del tragico cristiano. I cristiani non parlano di amartia ma parlano di peccato originale, che in definitiva la stessa cosa, anche se la colpa non è nei confronti della stirpe ma è nei confronti di Dio. Però, il peccato originale è la stessa cosa. E noi moderni non siamo così lontani, quando ci interroghiamo sulla responsabilità – con don Alfredo quante volte questo punto … – quando ci interroghiamo sulla nostra responsabilità di singoli nei confronti di processi che ci trascendono, ci dominano, di fronte ai quali possiamo poco o niente.
Siamo o non siamo responsabili della devastazione del pianeta. Nessuno di noi lo è. Però, neanche il presidente degli Stati Uniti riesce a fare alcunché. Perché non vuole. Ma anche per altre ragioni: perché quello è il nostro e anche il suo destino. Ma di questo destino siamo o non siamo responsabili. Certo che è un paradosso la responsabilità per il destino.
Ma quando Kant ci dice: “Dato un evento che si svolge sul piano dei fenomeni fisici e, quindi, sul piano governato dalla legge di causa ed effetto, io mi interrogo e dico: devo o non devo rispondere?”. La risposta che devo dare a questa domanda è: “Non posso non rispondere, non posso non assumere questa responsabilità”. Appunto formulo questa idea della responsabilità per il destino, cioè della responsabilità per qualcosa di cui non sono direttamente responsabile, che troviamo nel mondo dei tragici greci, nel mondo della teologia del primo cristianesimo, che troviamo in Kant e che continua a essere cosa nostra. Responsabilità per il destino.
Ecco, sul piano etico, la fenomenologia della colpa, ci ha portati attraverso questi autori a scoprire, a trovare la libertà nel cuore stesso di ciò che la nega e la contraddice. Nel cuore stesso della necessità. Non è una contraddizione? È un paradosso, perché sono diversi i due piani: il piano fenomenico e il piano dello spirito, il piano dell’etica, della morale. È un paradosso. Ma questo paradosso è precisamente quello che ci costringe a scoprire nel cuore della necessità il fatto di dover rispondere. E io non posso rispondere di niente se non sono libero. Dunque, sono libero.
Dicevo, se sul piano etico abbiamo potuto sviluppare questa fenomenologia, una fenomenologia non diversa l’abbiamo sviluppata, grazie a Plotino, sul piano estetico e religioso, dove come avete capito bene i due piani – che poi saranno destinati a separarsi, il piano estetico da una parte, il piano religioso dall’altra – si toccano e sono uno. E il concetto di grazia, cioè la scoperta che nella bellezza si riflette, non soltanto un ordine oggettivo, ma qualcosa come un extasis, un che di più, un salto di qualità, diciamo così, ecco, questa grazia – che poi il mondo moderno conoscerà soltanto nella sua variazione estetica e che il mondo medievale conosceva per lo più, se non soltanto, nella sua versione (a partire dalla Lettera ai Romani, a partire da san Paolo) nella sua versione religiosa e quindi metafisica, in Plotino sono ancora unite.
Karis, vale tanto per il rispendere grazioso – cioè pieno di quella bellezza che è grazia perché libertà – vale tanto per il risplendere grazioso della Stella del mattino, quanto per il gesto compiuto dal creatore nel momento in cui ha creato il mondo.
La storia del modernità è la storia di una divaricazione, ma a partire da una più profonda unità. E questa unità nel concetto, nell’idea di Karis, di ordine oggettivo e di ineffabile, di qualcosa che si sottrae all’ordine oggettivo, è precisamente la libertà, non è nient’altro che la libertà, la libertà metafisica; cioè quella libertà che per interrogare la quale, per scoprire la quale, non basta appunto parlare di libertà di e di libertà da, ma l’essenza della libertà.
Ora, e qui mi avvio alla conclusione, anche se avrei voluto soffermarmi di più, quello che ho svolto finora è solo la prima parte delle cose che pensavo di dirvi, adesso dovrei trattare di una seconda parte ma mi limito soltanto ad alcuni cenni o poco più.
Se le cose stanno così, dovremmo fare un passo ulteriore. Siamo già in questi abissi siamo già sprofondati non poco, abbiamo toccato poli … Tu dicevi prima, qui ci muoviamo a corto raggio, abbiamo trasgredito … Quindi il raggio lo dobbiamo allargare ancora di più e fare una scoperta, trarre una prima conclusione.
Se la libertà è quella cosa presupposto, se è il cuore stesso del paradosso che vi ho illustrato, se la libertà è quella cosa lì, la libertà non è – contrariamente a quello che si crede – la libertà non è un valore. Vedo qualche faccia perplessa … “Già ci dicono che i valori sono relativi, tramontano con le epoche e con la storia, non si può parlare di valori, ognuno ha i suoi. Adesso ci togliete anche la libertà, non ci resta proprio niente”.
No, la libertà non è un valore, perché è meno di un valore e più che un valore. Se la libertà è il cuore di quel paradosso che vi ho illustrato è meno che un valore perché è un principio, perché è un’ipotesi in forza della quale riusciamo a spiegare ciò che altrimenti non riusciremmo a spiegare. Ma in quanto principio, in quanto ipotesi, non è né buona né cattiva, non è contrassegnata né dal segno meno, né dal segno più. La libertà può distruggere se stessa. Evidentemente, non è un valore.
I peggiori crimini sono commessi, e il peggiore dei peggiori crimini è appunto l’annientamento, la cancellazione della libertà, possono essere commessi, anzi sono commessi, in definitiva, in nome sempre e comunque della libertà. Quindi non è di per se un valore.
Eppure è anche vero che non c’è valore, ma nessuno, neanche un valore su cui possiamo trovare immediatamente l’accordo, neanche la solidarietà, l’amore del prossimo, qualsiasi valore, non c’è nessun valore senza la libertà. Provate a togliere dal valore “l’amore per il prossimo”, provate a togliere la libertà. Immediatamente otterrete un disvalore. Anche la solidarietà, l’amore per il prossimo, l’amore di un padre per il figlio, qualsiasi cosa.
Trasformate l’amore per il prossimo in un’imposizione. Appare l’universo concentrazionario, immediatamente. Il totalitarismo e la sua tragedia è questa: la pretesa di imporre un valore senza la libertà. È questa e nient’altro che questa la tragedia di tutti i totalitarismi.
Ma se è vero che non c’è valore senza la libertà, è anche vero il contrario, è anche vero che in forza della libertà un disvalore – anche qui invito a scegliere il disvalore più ovvio, più banale – in forza della libertà il disvalore più ripugnante, quello che nessuno accetterebbe, non dico che diventi valore, ma può diventare valore.
Questa è di nuovo la tragedia della libertà. Anche l’omicidio, laddove fosse compiuto in forza di un gesto di libertà. Ma di libertà per cui io voglio, uccido liberamente, scientemente, me ne assumo la responsabilità, so quello che faccio, non posso fare altrimenti, ma lo faccio, liberamente, e così via, può diventare qualcosa che se non è un valore (quindi un qualcosa di necessario), qualcosa che non è un disvalore, qualcosa che mi viene giustificato. E noi sappiamo che l’uomo è capace di questa esperienza. Uccido per liberare un bambino da un bruto, per esempio.
La libertà, si diceva prima, è un paradosso, la libertà è tragedia, la libertà è la condizione perché qualche cosa valga. Senza la libertà nulla che si possa chiamare valore. Ecco cosa significa attingere alla libertà a un livello metafisico. Ma strana metafisica questa perché non è una metafisica dell’Uno ma una metafisica del Due e perciò una metafisica fondamentalmente tragica, perché appunto abbiamo a che fare nell’esperienza della libertà, con quella logica che Pascal ha definito la logica del “renversement continuel du pur au contre”, del rovesciamento continuo di argomenti a favore in argomenti contro.
La libertà è questo rovesciamento, è questo motore. Torno a dire, con questo non l’abbiamo definita, non l’abbiamo neanche afferrata. Resta misteriosa. Abbiamo mostrato come il ricorso a questa figura, questa forse soltanto una simulazione di senso, sia necessaria per spiegare ciò che altrimenti non avremmo potuto spiegare. La libertà è molto simile allo Zero, al nulla, è molto simile ad altri concetti limite, concetti inafferrabili e misteriosi. Cosa c’è di più misterioso dello Zero? I greci con la loro razionalità non avevano potuto concepirlo. Lo Zero è niente, ma è quel niente che se lo metto dietro un numero lo moltiplica, lo fa valere dieci volte tanto, e se metto un altro zero, l’avrò moltiplicato per cento.
Certo che lo Zero è Zero, niente, ma è davvero niente? Certo che il nulla è il nulla, ma senza il nulla io non posso pensare la libertà. Un teologo vissuto tra ‘500 e ‘600, Charles de Bouvelle, aveva posto i termini nulla, libertà, paradosso, i termini della questione in questo senso, e vi lascio riflettere il tempo della nostra cena su questa boutade, che non è soltanto una boutade.
Diceva: “Chi ci salva dal nulla? – quel nulla che incombe, al quale siamo destinati, quel nulla dal quale veniamo e al quale forse finiremo – Chi ci salva dal nulla, se non Dio?”.
Ma aggiungeva: “E chi salva Dio da se stesso, se non il nulla?”. Ecco che è come dire: chi trasforma Dio, dall’atto puro, dall’Essere che è sempre, dalla rotondità sferica dell’universo – come lo concepivano i greci – dal tutto pieno, ma un tutto pieno che ha noi non dice niente, che non si rivolge a noi, che con noi non ha nulla a che fare, chi trasforma Dio, dal tutto pieno, all’Essere che ci viene incontro e ci sfida alla libertà, chi se non il nulla?
Ecco questo è un bel modo, io credo, di presentare la questione, chi salva Dio da se stesso se non il nulla. Salvare Dio da se stesso, vuol dire ritrovare quella libertà di cui noi, come dire, facciamo un’esperienza minima, ritrovare il livello massimo in Dio stesso, il fondamento della libertà.
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* Sergio Givone è professore di Estetica all’Università di Firenze. A partire da un’originale interpretazione della lezione ermeneutica ed esistenzialista (soprattutto di Nietzsche, Heidegger e Pareyson), si è occupato della ridefinizione di alcune fondamentali categorie del pensiero filosofico del Novecento, tra cui il concetto di nichilismo e l’idea di “tragico”. Tra le sue opere: Disincanto del mondo e pensiero tragico (Milano 1988); Storia del nulla (Roma-Bari 1995); Favola delle cose ultime (Torino 1998); Eros/Ethos (Torino 2000); Nel nome di un dio barbaro (Torino 2002); Prima lezione di estetica (Roma-Bari 2003); Il bibliotecario di Leibniz. Filosofia e romanzo (Torino 2005).
** Pubblichiamo per la prima volta le sbobinature dei contributi presentati al ciclo di incontri “Libertà va cercando” (Firenze, novembre/aprile 2008), che tentò una riflessione a 360 gradi su libertà, fede e società. Sei incontri, a cadenza mensile, in cui testimoni del nostro tempo come il priore di Bose Enzo Bianchi, Gian Enrico Rusconi editorialista de “La Stampa”, Sergio Givone professore di Estetica, Mariagrazia Contini pedagogista, Luigi Lombardi Vallauri professore di filosofia del diritto e Elmar Salmann teologo presso la pontifica università gregoriana di Roma, cercarono di tracciare nuovi sentieri di vita e di pensiero.
Un’iniziativa ideata e voluta dal disciolto gruppo di formazione cristiana “Villa Guicciardini” di Firenze, composto da ragazzi dai 18 ai 35 anni, con la collaborazione dell’Ufficio Cultura dell’Arcidiocesi di Firenze e con l’aiuto inedito e non ufficiale di varie realtà cattoliche fiorentine. L’iniziativa allora ritenuta troppo aperta, da alcuni settori conservatori della chiesa fiorentina, non venne più ripetuta nonostante il grande riscontro ricevuto. Questa è la sbobbinatura degli interventi, curata dal gruppo Kairos per il gruppo di “Villa Guicciardini” di Firenze.