Unioni omosessuali: i tabù linguistici che raccontano chi (non) siamo
Articolo di Michele Ainis pubblicato su “Il Corriere della Sera” il 20 gennaio 2016
Sicché l’ultima trincea contro il didielle Cirinnà bis (uno scioglilingua) sta nell’uso della lingua. Vietato riferirsi alle nozze fra uno sposo e una sposina nella nuova legge sulle unioni omosessuali, vietato ogni rinvio alla disciplina che il codice civile ritaglia per i coniugi. Non si può: sarebbe incostituzionale, anzi immorale, anzi criminale. E infatti stuoli d’imbianchini sono già all’opera per cancellare quelle scritte che feriscono l’iride del nostro Parlamento. Domanda: ma se è un tabù l’analogia coi matrimoni, a cosa dovrebbe rimandare questa legge, ai funerali?
Eppure non vi risuona uno stile troppo esplicito e diretto, non si direbbe insomma che quei 23 articoli escano dalla penna di Tacito. Semmai di Gadda, o di Céline, campioni del funambolismo letterario. Difatti la famiglia gay viene immediatamente definita (articolo 1) come «specifica formazione sociale». Ma da quale specie si è specializzata questa speciale formazione? Non dalla specie umana, dal momento che la legge non menziona l’uomo, né la donna, né il papà o la mamma. No, in questo caso ciascun nubendo è «parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso». Appellativo chilometrico, come i titoli d’un nobile spagnolo; però in linea con la nostra tradizione, quando le leggi italiane sono costrette a misurarsi con le gioie del sesso.
Negli anni Settanta fu la volta della legge sull’aborto (n. 194 del 1978), dove si parla di contraccettivi. E come vengono denominati? «Mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile». Prova a chiederne una confezione al farmacista, bene che vada ne otterrai in cambio qualche pasticca contro l’emicrania.
E a proposito di procreazione, di figli, di figliastri. L’istituto maggiormente divisivo, la norma che può incendiare il Parlamento, consiste per l’appunto nell’adozione del figliastro, ossia del figlio naturale del partner. Siccome il fumo dell’incendio s’avvertiva già nell’aria, i difensori della legge hanno provato a battezzare l’istituto stepchild adoption , confidando nella scarsa conoscenza dell’inglese da parte dei loro oppositori. Niente da fare, qualche oscuro interprete deve averli smascherati. Allora hanno scritto la norma in lettere ostrogote.
Occultandola nell’articolo 5, intitolato «Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184», che s’apre con queste parole: «All’articolo 44, comma 1, lettera b), della legge…». Un altro buco nell’acqua, li avrà traditi qualche esperto di lingue orientali. L’ultima risorsa, a quanto pare, consiste nel sostituire l’adozione con un affido rinforzato, istituto sconosciuto al nostro ordinamento. Più che una norma, un aperitivo.
Tre secoli fa Ludovico Muratori ( Dei difetti della giurisprudenza ) puntava l’indice contro le oscurità legislative, denunziando un vizio etico, prima ancora che giuridico. Aveva ragione: l’ipocrisia verbale, oggi come allora, è il cancro dei nostri costumi nazionali, e non soltanto nella sfera del diritto. Mentre l’uso di «parole precise» comporta un impegno d’onestà, come ha osservato in ultimo Gianrico Carofiglio. D’altronde, in caso contrario, resta impossibile lo stesso confronto delle idee.
Dovrebbero saperlo proprio i politici cattolici, che in questi giorni si stanno dando un gran daffare per edulcorare il testo della legge sulle unioni civili, per annacquarne le parole. «Sia il vostro dire: sì sì, no no; il di più viene dal maligno», recita la massima evangelica (Matteo, 5, 37). Ma c’è sempre un di più, c’è sempre un aggettivo accozzato alla rinfusa al solo scopo di confondere le menti, nel linguaggio col quale ci governano i politici italiani. Oppure c’è un tabù, in questo caso il matrimonio gay. Chiamiamolo «gaytrimonio», e non ne parliamo più .