Per me e il mio figlio gay “misericordia voglio, non sacrifici!”
Riflessioni di Marta*, semplicemente una madre
Passano i giorni, e mi sento presa da mille incombenze. Però l’impegno di narrare questa mia bizzarra vicenda voglio mantenerlo. Tanto più in questi giorni in cui si discute della Legge Cirinnà. Ho visto ieri in televisione lo spettacolo del Family Day. E mi è preso una stretta al cuore. Come fanno a non capire? Bisogna che capiscano. Bisogna che qualcuno faccia loro capire cosa significhi essere omosessuali. Che non è una scelta, e tanto meno un vizio, o un peccato. E’ una caratteristica innata. Punto.
Che per anni, per secoli ci siamo sforzati di ignorare, o di mettere all’indice. Con quali costi? Ecco, sì. Con quali costi? Con quali conseguenze? Più volte mi sono sentita anche io vittima dell’omofobia. Perché dall’omofobia sono derivate tante conseguenze, che mi hanno ingannato, che mi sono ingannata.
Quale è stato il prezzo? In questi giorni di ampie discussioni sui mass media ho provato a parlarne con mio figlio Marco. Forse è la prima volta che se ne parla come di un argomento di discussione “normale”, dopo il suo coming out. Gli ho chiesto perché se ne parli così poco tra noi. É ben furbo, il ragazzo! “Perchè tanto sarebbe una discussione inutile, mamma. Siamo d’accordo su tutto, non c’è gran che da discutere!”. Sorrideva, mentre lo diceva.
Io spero che quel suo sorriso significhi serenità. Lo spero. Ma non ne ho la certezza. E allora vado avanti con il racconto, quello della mia vita. Raccontare mi serve anche per capire. Oggi le Letture a Messa proponevano l’Inno all’amore di San Paolo. Dove vado a Messa io mi impegno come “lettore”. Ed è stato davvero emozionante, oggi, leggere 1Cor, 12,31-13,13, dove San Paolo indica chiaramente la Strada: se non si ama, tutto è inutile. Ma che cos’è l’Amore? Io e il mio amico Paolo ci siamo dibattuti tantissimo nel corso degli anni su questa riflessione: cos’è davvero l’amore? Quando si può dire che si ama? Cosa significa amare? Se stessi? Gli altri? L’altro? E la “passione”, cos’è?
Se “amare” è il metro di misura con cui confrontarci, è importante capire cosa significhi davvero “amare”.
Un saggio sacerdote, cui mi ero rivolta all’epoca per capire se fosse un bene separarmi o no, mi fece una domanda, che ritengo fondamentale: “Quando vi siete sposati, eravate DONO l’uno per l’altra?”.
Quando me lo chiese mi fu chiarissima la mia risposta. Io ero stata un dono per mio marito, ma lui, dopo poco tempo, quel dono lo divorò, senza darmi altro in cambio, lasciandomi ad affrontare i giorni con estrema fatica, e sostanzialmente da sola. No. Lui non era un dono per me. Non più, da tanto tempo, se mai lo era stato.
Così, rianimata, nutrita, sostenuta da quel nuovo e per me travolgente sentimento d’amore per Paolo, nuovo amico, che mi faceva fare la pace con il mondo maschile, proponendosi in modo gentile, accogliente, gioioso, rianimata e nutrita, procedetti senza altre indecisioni verso quella che ormai era l’unica soluzione: la separazione. Chiesta da me.
C’era, in quella volata finale, solo il rischio che mio marito sospettasse qualcosa da parte mia, nei confronti di Paolo, e usasse questo per ridiscutere le condizioni della separazione.
Per questo rischio anche l’avvocato mi disse di non farmi vedere con questo amico, né con altri, da sola, almeno fino all’udienza in Tribunale. Mio marito si sarebbe aggrappato ad ogni pretesto pur di imputare a me le ragioni della separazione. Tentavamo una consensuale con le condizioni che chiedevo io, perché non gli lasciai scelta. Ma non c’era neppure altra scelta. Era davvero l’unica strada, per quanto possano essere davvero “consensuali” certe separazioni. Lui non voleva. Voleva continuare così come andava avanti da alcuni anni, facendo, come si dice, i “cavoli suoi”, e vivendo con i miei soldi. Del resto il mio stipendio era ben più alto del suo. Mi accorsi dopo separata quanto del mio denaro lui consumasse, visto che me ne avanzava molto di più di prima. Perché io non controllavo, io mi fidavo. Quando ci si ama ci si fida, no?
L’ultima volta che vidi Paolo da sposata eravamo stati a pranzo assieme, alla solita trattoria. E poi, per non rischiare quello che il mio avvocato mi aveva consigliato di non rischiare, ci eravamo lasciati lì, rinunciando alla passeggiata e alle chiacchiere tra il verde dei prati e dei boschi. Quel giorno lo ricordo come un giorno strano. La settimana dopo c’era l’appuntamento in Tribunale. Avrei visto Paolo più o meno una pio di settimane dopo, e lo avrei visto finalmente da separata. Chissà cosa mi immaginavo, io!
Un anno prima, nel momento più bello ed inconsapevole della nostra amicizia, Antonio, un saggio amico di Paolo, che per lui era quasi un padre (e che, come seppi anni dopo, era l’unica persona che sapeva la verità di Paolo) un giorno mi chiamò in disparte. Era bene a conoscenza della nostra forte amicizia, conosceva la mia storia, e ci aveva visti tante volte felici, Paolo ed io, assieme.
Così quel giorno, chiamandomi in disparte, volle dirmi chiaramente che Paolo non era assolutamente d’accordo che io mi separassi. Non capivo perché quella frase non me l’avesse mai detta Paolo di persona. Eppure tra noi erano ormai scorsi fiumi e fiumi di parole, scritte e parlate. Ma Antonio quelle parole le disse con autorità, quasi ad impedirmi di separarmi. O forse stava tentando di farmi capire qualcos’altro? Non saprei. Ricordo però che mentre mi parlava, Paolo, che era un po’ distante, stava tentando di distrarlo quasi a cercare di interrompere il suo discorso.
Sentivo la tensione tra loro, sentivo che la ragione della tensione ero io, e il rapporto tra Paolo e me. Ma non ci furono parole chiare. Sentivo che mi veniva consigliato di lasciare perdere. E non era quello che volevo. Mi veniva consigliato di lasciare perdere per il mio bene, come se “separarsi” fosse il male. Questi cattolici bigotti! Pensavo, mentre ascoltavo. Ma che ne sanno loro di cosa significa vivere un matrimonio come il mio? E poi perché Antonio voleva metteva una barriera tra me e Paolo? Che cosa c’era di male nella nostra amicizia? Paolo non era mica sposato? Anzi.
Pareva che il motivo che sconsigliava la nostra amicizia fosse solo legato alla questione della indissolubilità del matrimonio, del mio matrimonio. Ed io ero dibattuta, all’epoca, tra il “Misericordia voglio, non sacrifici!”, e il “Ciò che Dio unisce l’uomo non sciolga!”, riuscendo con difficoltà a fare tornare i conti. Rimanere “unita” al padre dei miei figli sarebbe stato un sacrificio, un sacrificio di me. Mentre iniziavo a capire che la vita in qualche modo aveva senso se era “gioia”, se era colma di quell’amore misericordioso che incominciavo ad intuire nella Parola di Dio. Bigotti, erano. Ecco. Cattolico e bigotto, Antonio, quando cercò di farmi capire. Senza dire.
Il giorno in cui mi separai Paolo mi telefonò per ultimo. In Tribunale l’udienza era al mattino, ma fu solo verso sera che Paolo mi chiamò per sapere come fosse andata. Mi chiamarono in tanti: amici, amiche, sentii vicino l’affetto di tanti. Ma lui chiamò per ultimo. Non nego che un po’ di delusione in me iniziò ad insinuarsi. Come poteva non avere la mia stessa fretta? No, lui non aveva fretta. E non ebbe fretta neppure di venire a vedermi, abbracciarmi, salutarmi, almeno, dal vivo.
Poi le cose tra noi iniziarono lentamente a prendere una piega diversa.
* Conosco Gionata.org ormai da anni. È stato il luogo che più ho frequentato in internet per cercare di capire un’altra vicenda fondamentale nella mia vita. Qui ho conosciuto persone molto belle. E ho avuto modo di conoscere di persona anche i webmaster.
Giorni fa, parlando con Innocenzo, gli ho detto che mi piacerebbe scrivere di queste mie vicende su Gionata, ma che non so neppure da dove cominciare, tanto è un groviglio, che non è facile dipanare.
“Fallo a puntate”, mi ha risposto. E allora, se volete, questa può essere una puntata, un po’ diario, un po’ ricordo. Un racconto in itinere. Che un po’ va avanti, e un po’ torna indietro, per cercare di capire, e trovare il filo di una vicenda normale, perché normale è innamorarsi e amare, anche se l’orientamento non è quello normalmente considerato normale. Non ho idea di come andrà a finire, perché si sta ancora svolgendo. E io non ho ancora compreso tutto. Anzi, a volte mi pare di non aver capito niente.