Li chiamano «temi eticamente sensibili». Ipocriti! Sono «diritti civili»
Riflessioni inviateci da Silvia P.
Mutatis mutandis… Li chiamano «temi eticamente sensibili». Ipocriti. Si chiamano «diritti civili», né più né meno. Ma così è più facile travestire il proprio tornaconto e farlo passare per atto di coscienza. Del resto, anche erodiani e farisei – notoriamente nemici – han trovato la quadra quando c’era da blindare il loro interesse comune (cfr. Marco 3,6). La perversione delle parole, anche quelle sacre, è tentazione antica.
Di seguito, parole vere che vale sempre la pena di ricordare.
«(…) L’ingiustizia che si verifica in un luogo minaccia la giustizia ovunque. Siamo presi in una rete di reciprocità alla quale non si può sfuggire, avvolti da un’unica trama del destino. Qualunque cosa riguardi direttamente uno, riguarda in modo indiretto tutti (…).
Amici miei, devo dirvi che noi non abbiamo ottenuto un solo progresso in materia di diritti civili senza una decisa pressione esercitata con mezzi legali e nonviolenti. È deplorevole, ma è una realtà storica: è raro che i gruppi privilegiati rinuncino volontariamente ai loro privilegi. I singoli individui possono ricevere un’illuminazione morale e rinunciare per propria iniziativa a una posizione ingiusta: ma (…) i gruppi hanno la tendenza a essere più immorali dei singoli.
Sappiamo per dolorosa esperienza che l’oppressore non concede mai la libertà per decisione spontanea: sono gli oppressi che devono esigere di ottenerla. Francamente, non mi è ancora accaduto di intraprendere una campagna di azione diretta che apparisse “tempestiva” agli occhi di quanti non hanno subìto indebite sofferenze a causa del morbo segregazionista. Da anni sento dire la parola “Aspettate!”, che risuona all’orecchio di ogni nero con stridente familiarità. Questo “Aspettate” significa quasi sempre “Mai”. Noi dobbiamo arrivare a comprendere (…) che “la giustizia ottenuta troppo tardi è giustizia negata” (…). Forse dire “Aspettate” è facile per chi non è mai stato ferito dalle frecce aguzze della segregazione (…); ma se il fatto di essere un nero lo tormenta di giorno e l’ossessiona di notte, lo costringe a vivere sempre in punta di piedi, senza sapere che cosa può capitare da un momento all’altro, se lo fa sentire angustiato da ogni sorta di paure interiori e da ogni sorta di risentimento verso l’esterno; se uno non può mai smettere di lottare contro la corrosiva sensazione di “non essere nessuno”… se tutte queste cose accadessero a voi, capireste perché per noi è difficile aspettare.
Arriva il momento in cui la coppa della sopportazione trabocca, e gli uomini non accettano più di sprofondare nell’abisso della disperazione. Spero, signori, che possiate comprendere la nostra legittima e inevitabile impazienza (…).
Per onestà devo confessare due cose a voi, miei fratelli cristiani ed ebrei. In primo luogo, devo confessare che negli ultimi anni i bianchi di opinioni moderate mi hanno dato una grave delusione. Starei quasi per arrivare alla spiacevole conclusione che nel cammino dei neri verso la libertà l’ostacolo maggiore non è l’aderente al “White Citizens Council”, o l’affiliato del Ku Klux Klan, bensì il bianco moderato, che ha a cuore l’”ordine” più della giustizia; che preferisce la pace negativa, ossia l’assenza di tensioni, a una pace positiva, ossia la presenza della giustizia; che dice sempre: “Sono d’accordo con voi per quanto riguarda gli obiettivi che vi prefiggete, ma non posso essere d’accordo con i vostri metodi di azione diretta”; che crede, nel suo paternalismo, di poter essere lui a determinare le scadenze della libertà di un altro; che vive secondo un concetto mitico del tempo e continua a consigliare ai neri di attendere “un momento più propizio”. La scarsa comprensione da parte di persone bendisposte è ben più frustrante dell’assoluta incomprensione mostrata da chi è maldisposto. L’accettazione tiepida sconcerta assai più del rifiuto secco (…).
Avevo sperato inoltre che i bianchi moderati respingessero la visione mitica del tempo per quanto riguarda la lotta per la libertà. Ho appena ricevuto una lettera da un fratello bianco che vive in Texas. Mi scrive: “Tutti i cristiani sanno che prima o poi ai popoli di colore sarà data la parità di diritti, ma può darsi che lei esageri nella sua ansia religiosa di accelerare i tempi. Il cristianesimo ha impiegato quasi duemila anni per arrivare dov’è oggi. La dottrina di Cristo richiede tempo per scendere sulla terra”. Questo atteggiamento nasce da una concezione tragicamente errata del tempo, dall’idea curiosa e irrazionale che lo scorrere del tempo abbia in se stesso l’immancabile dote di guarire ogni male. In realtà, il tempo è neutro: può essere usato in modo distruttivo oppure costruttivo. Io ho la sensazione sempre più forte che le persone malintenzionate abbiano saputo usare il tempo in modo assai più efficace, rispetto alle persone benintenzionate. Nella nostra generazione dovremo pentirci non soltanto per le parole e gli atti odiosi di cui sono responsabili i cattivi, ma anche per lo spaventoso silenzio dei buoni. Il progresso umano non viaggia sui binari dell’inevitabile: si produce grazie agli sforzi instancabili di uomini disposti a collaborare con Dio, e senza il loro duro lavoro il tempo stesso diventa un alleato delle forze della stagnazione sociale. Dobbiamo usare il tempo in modo creativo, sapendo che i tempi sono sempre maturi per fare quel che è giusto (…).
Dirò adesso della seconda grossa delusione che ho provato. Sono rimasto gravemente deluso dalla chiesa bianca e dalle sue gerarchie. Ci sono, s’intende, alcune eccezioni degne di nota (…). Ma nonostante queste eccezioni degne di nota, devo in tutta onestà ripetere che la chiesa mi ha deluso. Non lo dico come certi critici distruttivi, che trovano sempre qualcosa da rimproverare alla chiesa. Lo dico come ministro del vangelo che ama la chiesa, che è stato allevato nel suo seno, sostenuto dalle sue benedizioni spirituali e che le resterà fedele per quanto si prolungherà il filo della vita.
(…) Profondamente deluso, ho pianto per la negligenza della chiesa. Ma siate certi che le mie lacrime erano lacrime d’amore. Non può esserci una profonda delusione se non dove c’è un profondo amore. Sì, io amo la chiesa. Come potrei non amarla? Mi trovo in una situazione unica: sono il figlio, il nipote e il pronipote di pastori. Sì, vedo la chiesa come il corpo di Cristo. Ma, ahimè, di quanti sfregi e cicatrici abbiamo coperto questo corpo, per negligenza verso la società e per la paura di apparire non conformisti!
(…) Forse la religione organizzata è legata allo status quo da nodi talmente inestricabili da non essere in grado di salvare la nazione e il mondo intero? Forse devo rivolgere la mia fede alla chiesa interiore e spirituale, la chiesa all’interno della chiesa, come vera ecclesia e speranza del mondo. Ma anche qui, sono grato a Dio che nelle file della religione organizzata alcune anime nobili si siano liberate dalle catene paralizzanti del conformismo e si siano unite a noi per prendere parte attiva alla lotta per la libertà (…). Ma hanno agito sostenuti da una fede assoluta: che la giusta ragione, anche quando viene sconfitta, è più forte del male trionfante. La loro testimonianza è stata il sale dello spirito che in questi tempi tumultuosi ha preservato intatto il significato autentico del vangelo. Sono riusciti a scavare una galleria di speranza nella montagna tenebrosa della delusione. Io spero che la chiesa nel suo insieme raccoglierà la sfida di quest’ora decisiva. Ma anche se la chiesa non dovesse venire in aiuto della giustizia, non dispero del futuro. (…)
Spero che la mia lettera vi trovi forti nella fede. (…) E tutti insieme speriamo che le nere nubi del pregiudizio razziale si diradino presto, e la fitta nebbia del malinteso si allontani dalle nostre comunità sommerse dalla paura, e che in un domani non troppo lontano le stelle luminose dell’amore e della fraternità risplendano sulla nostra grande nazione in tutta la loro sfavillante bellezza.
Vostro per la causa della pace e della fraternità,
Martin Luther King (Dalla Lettera dal carcere di Birmingham, 16 aprile 1963)