Coscienza e cuore nella Bibbia e nella Tradizione cattolica tra libertà, diritti e doveri
Riflessioni* di James F. Keenan s.j.** pubblicate sul sito del settimanale cattolico America (Stati Uniti) il 4 aprile 2016, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro
Durante il Sinodo dei Vescovi dell’ottobre 2015 i leader della Chiesa hanno discusso delle molte sfide che devono affrontare le famiglie moderne, come la Comunione ai divorziati risposati, la contraccezione e il matrimonio omosessuale. Nella relazione finale i vescovi affermano che, in quei casi in cui il matrimonio è fallito, “il discernimento pastorale, pure tenendo conto della coscienza rettamente formata delle persone, deve farsi carico di queste situazioni” (n. 85). E nel suo discorso alla fine del Sinodo papa Francesco ha rilevato che “a parte le questioni dogmatiche chiaramente definite dal Magistero della Chiesa… ciò che per alcuni è libertà di coscienza, per altri non è che confusione”.
Per chiarire almeno un po’ la confusione è utile rivolgersi alla Bibbia e alla tradizione della Chiesa, che forniscono tante intuizioni valide. Ecco quindi quattro tra i maggiori contributi all’attuale concezione cattolica della coscienza.
Primo: nella Bibbia ebraica il termine più vicino a “coscienza” è “cuore” – lebab in ebraico, kardia in greco. Ci sono letteralmente centinaia di riferimenti al cuore nella Bibbia. È significativo che, mentre le edizioni protestanti della Bibbia traducono la parola il più delle volte come “coscienza”, l’edizione cattolica della Revised Standard Version insiste nel mantenere la parola “cuore”. Spesso il cuore viene giudicato da Dio. In Siracide 42:18 Dio “scruta l’abisso e il cuore e penetra tutti i loro segreti”. Qui il cuore non viene identificato con la coscienza, in quanto quest’ultima si riferisce semplicemente ai profondi e privati interessi della persona: conoscere il cuore di qualcuno equivale a conoscere le sue vere tendenze. In altri passi, invece, la Scrittura suggerisce che l’esame del cuore da parte di Dio lo rende del tutto analogo a ciò che noi oggi chiameremmo “coscienza”, come in Geremia 17:10: “Io, il Signore, scruto la mente e saggio i cuori, per rendere a ciascuno secondo la sua condotta, secondo il frutto delle sue azioni”. A volte il cuore è il luogo in cui riconosciamo la nostra colpa: è la cosiddetta “coscienza giudicante”, che giudica le nostre azioni passate. In 1 Samuele 24:6 leggiamo che “dopo aver fatto questo, Davide si sentì battere il cuore per aver tagliato un lembo del mantello di Saul”. Qui il cuore è la coscienza che accusa la persona, il frutto di una coscienza ben esaminata.
Oggi distinguiamo tra la coscienza giudicante, che guarda al passato, e la coscienza legiferante, che guida le azioni future e ricorre poche volte nella Bibbia ebraica. Qui la coscienza non è il cuore bensì una voce, una voce che ci accompagna. Questo concetto di “voce con noi” si lega alla “coscienza”, vale a dire al “conoscere con“. In Isaia 30:21 leggiamo “i tuoi orecchi sentiranno questa parola dietro di te: «Questa è la strada, percorretela», caso mai andiate a destra o a sinistra”. Questa voce dirige la nostra vita. Il cuore è anche, occasionalmente, la coscienza che guida e che ha bisogno di essere formata, come in 2 Maccabei 2:3: “con altre simili espressioni li esortava a non ripudiare la legge nel loro cuore”.
In breve, la coscienza nella Bibbia ebraica è principalmente una questione di cuore. In molti luoghi il cuore non è altro che ciò che Dio esamina per rivelare le nostre tendenze, in altri luoghi invece il cuore è identificabile con una coscienza attiva attraverso la quale ci volgiamo a Dio, giudichiamo il nostro passato, guidiamo il nostro futuro e aneliamo a essere modellati dalla sua Legge.
Ascoltare la Verità
Se guardiamo alla filosofia greca e romana troviamo che, da Democrito in poi, la coscienza ha una caratteristica singolare: è giudicante. A differenza del pensiero ebraico, dove il cuore è passivo e può essere giudicato, questa versione della coscienza emette il giudizio, il più delle volte causando disturbo. Anche se la coscienza di Cicerone lo giudicava favorevolmente, nella filosofia antica la funzione della coscienza consiste per lo più nel metterci a disagio a causa dei nostri falli. La coscienza come concepita dalla filosofia greca e romana si trova in tutti gli uomini, ma sempre come giudice: come Yahweh, essa giudica ogni persona. Non se ne rimane tranquilla quando viene fatto il male, anzi risveglia chi lo ha compiuto con spasimi di dolore. La coscienza ci costringe a riconoscere le nostre cattive azioni. Durante questo rude risveglio, molti incontrano la coscienza per la prima volta. Avere una coscienza significa riconoscere la propria colpa. La coscienza colpevole riconosce la mancanza di connessione tra ciò che pensavamo fosse accettabile e il senso di colpa che sentiamo in seguito. Il dolore che ne segue non solo ci risveglia alle nostre cattive azioni ma anche alla coscienza stessa. Quando ci siamo risvegliati ci rendiamo improvvisamente conto che dentro di noi abbiamo un senso morale che non ama essere disturbato. Attraverso questi spasimi di dolore cominciamo a renderci conto che al nostro interno esiste un faro morale che ci mette a disagio quando abbiamo torto e ci conferma quando abbiamo ragione. Ecco cosa ci offre la filosofia antica: la nascita della coscienza, l’esperienza, analoga a quella di Isaia, di una voce che possiamo sentire. La coscienza diviene una nuova forma di comprensione, una nuova forma di ascolto della verità.
Affermare la Verità di Cristo
Se ci volgiamo al Nuovo Testamento abbiamo di fronte soprattutto san Paolo, il quale per prima cosa pone la sua coscienza alla luce della fede e sotto la guida dello Spirito Santo: “Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo” (Romani 9:1). A processo di fronte al Sinedrio, Paolo afferma: “Fratelli, io ho agito fino ad oggi davanti a Dio in perfetta rettitudine di coscienza” (Atti 23:1; vedi 2 Corinzi 1:12). Ma nella sua coscienza c’è anche umiltà. Paolo dà grande enfasi al seguire la sua coscienza ma riconosce comunque il primato del giudizio di Dio: “perché anche se non sono consapevole di colpa alcuna non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore!” (1 Corinzi 4:4). Il giudizio incombente di Dio, tuttavia, non sostituisce la coscienza: fino a che non arriverà il giudizio, abbiamo la coscienza come guida morale: “Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza” (Romani 13:5). Secondo Paolo noi siamo chiamati ad avere “fede e buona coscienza” (1 Timoteo 1:19; 3:9). Paolo pensa anche ai Gentili; essi non hanno la Legge, ma essa è scritta nel loro cuore e la coscienza testimonia di loro e, come tutti, verranno giudicati l’ultimo giorno (Romani 2:14-18).
Infine, Paolo crede che noi cresciamo attraverso la coscienza, sia i deboli che i forti, insieme. Nella sua discussione sulle carni consacrate agli idoli prende in considerazione le persone dalla coscienza non formata le quali, vedendo i loro fratelli cristiani mangiare tali carni, pensano che stiano partecipando all’adorazione degli idoli (1 Corinzi 8). Paolo avverte i suoi fratelli: anche se la loro coscienza è forte, devono essere consapevoli della confusione che potrebbero provocare in alcuni. In questo pezzo di casuistica Paolo insegna ai cristiani che amare il prossimo significa aiutare, non scandalizzare. Con Paolo, perciò, abbiamo la coscienza come giudice morale e guida e capiamo che tutti i cristiani, i forti e i deboli, hanno sempre qualcosa da imparare fino al giorno del giudizio.
Infine arriviamo a Tommaso d’Aquino, che offre un ulteriore sviluppo sul tema. Nella Summa Theologiae l’Aquinate si chiede se una coscienza che sbaglia sia vincolante. Risponde che “parlando in maniera assoluta” ogni discrepanza con la coscienza “che questa sia nel giusto o nel torto, è sempre male”. Tommaso spiega che, anche se l’errore non viene da Dio, il dettato di una coscienza che erra “impone il suo giudizio come vero e, conseguentemente, come se derivasse da Dio” (I-II, q. 19 a.1); perciò, quando la coscienza che erra “propone qualcosa come se fosse comandato da Dio, disprezzare il dettato della ragione equivale a disprezzare il comandamento di Dio”. Per Tommaso Dio ci dà la coscienza per discernere il giusto, e perciò dobbiamo sempre obbedirle. Tuttavia, come insegna Paolo, anche se dobbiamo seguire la nostra coscienza possiamo comunque essere in errore. Immediatamente dopo la questione se possiamo rigettare il dettato della coscienza, l’Aquinate si chiede se la volontà è buona quando segue una coscienza che erra (I-II, q. 19 a. 6). Qui Tommaso determina se siamo responsabili per la nostra coscienza che erra e scrive che se avessimo potuto sapere la verità ed evitare l’errore, allora non potremmo giustificare il nostro agire errato; se non abbiamo potuto sapere la verità, allora siamo giustificati.
La Tradizione oggi
Se vogliamo conoscere ciò che la nostra tradizione afferma oggigiorno sulla coscienza, niente val meglio della Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo emanata dal Concilio Vaticano Secondo. Dopo aver valutato l’influenza delle Scritture ebraiche, dei filosofi greci e romani, di san Paolo e di san Tommaso d’Aquino, credo che potremo capire perché il Concilio ha utilizzato parole come cuore, legge, voce, errore, dignità etc. Il testo che proponiamo oggi incarna molto bene la sorgente da cui è scaturito (n. 16). Leggiamolo di nuovo:
“Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa questo, evita quest’altro.
L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità.
Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità.
Ma ciò non si può dire quando l’uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all’abitudine del peccato.”
Molti cattolici di oggi concepiscono la coscienza soprattutto come quel qualcosa che ci dà il diritto di dissentire dal Magistero. Questa opinione, sfortunatamente, è un concetto monco di coscienza. Il diritto di dissentire deriva prima di tutto dalle responsabilità che abbiamo verso la coscienza – vale a dire, esaminare la nostra condotta, formare e informare ogni giorno la nostra coscienza e determinare la corretta direzione della nostra vita. Il linguaggio della coscienza, perciò, non è tanto il linguaggio di un diritto quanto il dovere di agire sempre in coscienza – vale a dire, l’obbligo di trovare e seguire la nostra comprensione della volontà di Dio.
*I passi biblici sono tratti dalla Bibbia di Gerusalemme/CEI.
**James F. Keenan s.j. è teologo morale e insegna all’ateneo gesuita Boston College.
Testo originale: Examining Conscience: Ancient wisdom on judgment, justice and the heart