Francesco e la riforma dell’amore
Riflessioni di Alberto Melloni pubblicate su La Repubblica il 9 aprile 2016
Per spostare l’asse attorno al quale ruotava da cinque secoli la storia del matrimonio bisognava ripensare una parola: “amore”. La parola con cui inizia l’ esortazione post-sinodale di papa Francesco da ieri affidata ai suoi tre destinatari: il tempo, i vescovi e le chiese locali che entrano così in uno stato sinodale. “Amori Laetitia”, partendo da una lettura biblica profonda, non evade i temi su cui la chiesa era attesa al varco: la comunione dei divorziati risposati, la dignità delle persone omosessuali, la visione della sessualità. Sul primo punto Francesco difende la propria posizione nella cruciale nota 336.
La chiesa di Bergoglio non s’ affida a un divieto o a un permesso, ma al discernimento: col quale si può capire quando in una situazione «particolare, non c’ è colpa grave». Le coppie “cosiddette irregolari” (quel “cosiddette” vale tutta l’ esortazione…) cessano di essere un “caso”, e diventano i destinatari dell’ eucarestia, che non è l’ onorificenza dei presuntuosi, ma “l’ alimento dei deboli”. Francesco non offre una “apertura” paternalistica: dice a quei preti che hanno comunicato i divorziati risposati sapendo cosa facevano che non hanno agito contro la norma, ma secondo il vangelo. E riconsegna ai vescovi la loro funzione di giudici: non devolvere loro una grana, ma riconosce che nella funzione di “pastore e capo della sua chiesa” del vescovo c’ è la grazia necessaria ad ascoltare, accogliere, perdonare e insegnare a perdonare.
Sulle persone omosessuali “Amoris Laetitia” non ripete l’errore compiuto nel primo sinodo dei vescovi: quando si fecero aperture rivelatesi immature e che oggi il papa recupera con qualche cautela. Francesco bada soprattutto a non creare ostacoli per un progresso nella fede che passerà dal tempo, dai vescovi e dalle chiese: ripete dunque la formula del catechismo vigente che proibisce “ogni marchio di ingiusta discriminazione” contro gay e lesbiche: senza però cassare quella limitazione (“ingiusta”) che è ingiusta in sé. Dichiara che una eguale “dignità” della persona esige “rispetto”: anche se adotta il linguaggio ambiguo della “tendenza”.
Fa sua la contrarietà dei vescovi del sud del mondo al gay mariane senza però porre una questione di “natura”: e così non pregiudica il discorso sulla “amori laetitia” che anche lesbiche e gay sperimentano.
Infine, pur elogiando i metodi naturali di Paolo VI, condanna la contraccezione di Stato, ma non quella dei singoli: e apre a parti inattese, come l’ elogio della gioia erotica che non appare più come un male, neutralizzato dal suo esito procreativi, ma un dono di Dio come tale, letto senza astrazioni irrealistiche e senza spiritualismi. Sbaglierebbe, però, chi pensasse che “Amoris Laetitia” si riduca all’ ultimo rigore di un derby fra rigoristi e possibilisti finito in parità ai tempi supplementari, e tirato dal papa a porta vuota. L’ atto ha qualcosa di epocale proprio perché sposta l’ asse del discorso sul coniugio, che dal concilio di Trento in qua era chiuso in una gabbia giuridico- filosofica strettissima. Talmente solida che perfino la secolarizzazione aveva inventato un “matrimonio civile” prigioniero degli stessi paradigmi del matrimonio tridentino: autorità, norma e fini di ordine sociale e di procreazione che placavano la forza eversiva del desiderio.
Questa concezione aveva superato il matrimonio di “puro consenso” (in cui era possibile perfino qualche matrimonio gay) e aveva resistito fino a ieri: lo dimostra il recente e debolissimo dibattito italiano sulle unioni civili, incagliatosi sui figli, senza percepire quei valori che “Amoris Laetitia” riconosce in unioni che vuole equiparate al matrimonio, ma non vuole ridurre ad atto privato.
Dato che quella gabbia concettuale di un matrimonio fatto di fini era nata nella chiesa, toccava dunque alla chiesa ricominciare a dire che l’ esperienza dell’ amore – minaccia o tomba del matrimonio secondo i bigotti religiosi e i bigotti irreligiosi – è la sola su cui risplenda la luce del Regno, la sola redenta dalla croce, la sola a cui soccorre il perdono e la pazienza, la sola per cui valga la pena di affrontare la fragilità della relazione e il dolore che dalla sua stessa intensità può scaturire. Rimettere l’ amore al primo posto liberandosi di astrazioni “fredde” che non corrispondono né alla rivelazione né alla relazione è il compito che s’ è dato questo lungo documento. «Non consiglio una lettura generale affrettata», raccomanda sornione Francesco. Che, anziché farsi intrappolare nella falsa dicotomia di un moralismo permissivo e un moralismo proibitivo, ha fatto un passo avanti nella sua riforma del magistero e del papato.
Il magistero, secondo Francesco, deve rinunciare ad essere onnivoro: «Non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero»; deve liberarsi dall’ idea che l’ astrazione sia un bene in sé (perché la norma è tanto più incerta quanto più si avvicina al caso concreto); deve dare l’ esempio di essere “umile e realista” davanti agli errori della chiesa che Bergoglio elenca in una di quelle liste impietose, tipiche della sua predicazione: errori nel presentare le “convinzioni cristiane”, nel “trattare le persone”, nel proporre un “ideale teologico”, nel praticare una “idealizzazione” del matrimonio mistificante, che alla fine ha ingenerato una sfiducia “nella grazia” (proprio così: “nella grazia”!) che ha fatto sì che anziché rendere il matrimonio “più desiderabile e attraente” ha fatto “tutto il contrario”.
Il papato – che esce più forte non per motivi politici o geopolitici, ma per la bellezza evangelica di alcuni passaggi sui bambini disabili, per la descrizione così vera della pazienza e delle crisi coniugali, per la fermezza con cui chiede quel rispetto per l’ altro che la chiesa non aveva mai insegnato agli ex coniugi – scrive con questo atto un altro capitolo della propria riforma.
L’ esortazione post-sinodale – inventata da Paolo VI davanti alle impasse del sinodo del 1974, usata per fini disciplinari o teologici da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI – cambia Dna con “Amoris Laetitia”. Davanti a un documento che Francesco ha fatto votare ai vescovi e che ha raggiunto sempre i 2/3 dei voti si muove con libertà e rispetto: cita, trascrive, glossa, integra, corregge. Lo intreccia con la propria teologia e con le citazioni delle Conferenze episcopali, rovesciando la diffidenza romana per questi organi di comunione (che vent’ anni fa raggiunse il proprio apice, e generò disastri). Ripassando il genere della esortazione Francesco restaura un altro pezzo di sinodali come principio del cattolicesimo latino.
Documenta che la collegialità episcopale – cioè quel carattere che per diritto divino rende i vescovi “cum et sub Petro” successori del collegio apostolico – non diminuisce il ministero papale, ma lo esalta liberandolo da una concezione “monarchica” del pontificato di stampo medievale. Che una riforma del papato di questo tipo fosse l’ agenda della chiesa lo dicevano molto da molto tempo.
Peter Hünermann – teologo tedesco impegnato per decenni in una disputa senza esclusione di colpi con Ratzinger – aveva scritto che il papa doveva diventare un “notarius publicus” della chiesa: un “papa notaio”, che registrava e armonizzava le voci episcopali, senza affidare al centralismo della sua corte decisioni frettolose, destinate a diventare inciampo (interessante da questo punto di vista il trattamento della contraccezione di “Amoris Laetitia”).
Francesco dimostra che chi, come Ratzinger, per negare quella prospettiva vedeva nelle conferenze episcopale una minaccia alla solitudine del potere pettino aveva torto; e che la figura “notarile” immaginata da Hünermann era insufficiente. Con “Amoris Laetitia” il papato si propone come la guida di un “coro” – l’ antico titolo di Pietro era proprio “corypheus apostolorum”.
Il papa “corifeo” mette a disposizione di tutti il tempo, il carisma dei vescovi, la sinodali delle chiese, per una maturazione necessaria. Necessaria perché l’ amore reale vissuto dalle ragazze e dai ragazzi che non si sposano (e anche da quelli che la chiesa non vuole che si sposino perché omosessuali) sentano il tepore della luce del Regno nella loro vita vissuta.
Necessaria perché il magistero inizi a “trasfigurarsi” per non essere più «mera difesa di una dottrina fredda e senza vita» che indossa il cristianesimo senza averlo dentro ma diventi testimonianza credibile dell’amore “malgrado tutto”.