La mia vita transgender. Sono nata diversa per fare la differenza
Testimonianza di Alec Butler resa a Caroline Youdan e pubblicata sul sito del Toronto Life (Canada), liberamente tradotta da Giacomo Tessaro
Per i primi dieci anni della mia vita sono stata un maschiaccio felice, pieno di fiducia e di vitalità. Mi chiamavo Audrey. Mio padre lavorava come meccanico dei carri armati per le forze armate e ci trasferivamo spesso: nel 1968 andammo ad abitare a Gagetown, nel New Brunswick (Canada). Vivevamo lì da circa due anni quando il mio corpo cominciò a svilupparsi in modo anormale: come a tutte le altre ragazze mi venne il ciclo e mi crebbero i seni, ma mi spuntarono anche i baffi e la barba. Qualche decina di anni dopo sarei venuta a sapere di una condizione intersex chiamata “virilizzazione del feto femmina”: il feto sviluppa, nel grembo materno, caratteristiche sia femminili che maschili. Ma allora eravamo nei primi anni ’70, in un paesino di meno di mille anime: la parola “intersex” non la conosceva nessuno.
Improvvisamente divenni una paria. Il mio essere diversa era scritta sul mio corpo. I bulli mi prendevano a pugni e calci e mi rendevano la vita un inferno. Preoccupatissimo del mio benessere, mio padre lasciò il lavoro sacrificando la sua pensione e ci portò in un remoto angolo dell’Isola del Capo Bretone, sperando che in quel luogo così isolato sarei stata più al sicuro. Una mezza dozzina di dottori mi visitò, ma nessuno poté spiegare cosa stava accadendo al mio corpo. Uno di loro consigliò ai miei genitori di rinchiudermi in un istituto fino a che non avessi imparato a vestirmi da donna e truccarmi, altrimenti rischiavo di diventare lesbica. Ma i miei genitori non seguirono il consiglio: mi volevano bene e mi sostenevano senza condizioni.
All’età di quindici anni ero alta 1.68, pesavo 81 chili e mi radevo ogni giorno per non dovermi presentare con la barba. Avevo una gran paura del tragitto di un’ora sull’autobus per andare e tornare da scuola: i ragazzi mi tormentavano senza sosta. Di notte sognavo a occhi aperti di baciare la mia unica amica, una ragazza che viveva in in camper posteggiato nella mia strada.
Nonostante ciò che aveva detto quel medico, non mi sentivo una lesbica, mi sentivo un ragazzo con una passione per una ragazza. Ma cosa poteva significare? Guardavo ovunque per poter trovare indizi. Sviluppai un’ossessione per i miti greci, in particolare quelli su Tiresia, l’indovino che poteva cambiare genere. Leggevo articoli su Christine Jorgensen, la prima donna americana a rendere pubblica la sua operazione per diventare donna. Mi chiedevo se da qualche parte ci fosse un chirurgo che potesse trasformarmi in un ragazzo. Sembrava una favola.
Dopo il liceo feci la donna delle pulizie per pagarmi il corso alla locale università. In quel periodo cominciai a identificarmi pubblicamente come lesbica “butch” [cioè, estremamente mascolina, n.d.t.]. Nei primi anni ’80 seguii un’amica e me ne andai a Toronto, affamata di opportunità. Passai dieci anni a lavorare come cuoca, frequentare i bar lesbici e scrivere per il teatro. Era un periodo esaltante per i giovani queer di Toronto. Durante i fine settimana io e le mie amiche facevamo graffiti sui muri e partecipavamo a manifestazioni antifasciste. Scrivevo commedie sulla vita, l’amore e l’essere lesbica, una delle quali ricevette una menzione a un importante premio. La comunità lesbica divenne la mia famiglia e il mio rifugio, ma mi sentivo ugualmente un’intrusa. Alcune tra le mie amiche erano delle fanatiche separatiste che non volevano avere nulla a che fare con gli uomini e blateravano sul rifiuto del fallo: io desideravo in segreto di averne uno.
Nel frattempo, continuavo a incontrare violenza e ostilità ovunque andassi. Una volta, mentre mi stavo recando da un’amica, un uomo tentò di gettarmi sotto un tram. Anni dopo, durante un Pride, un gruppo di gay mi circondò e minacciò di calarmi i pantaloni per vedere cosa avessi tra le gambe.
Nei primi anni ’90 la crisi dell’AIDS aveva reso invalide alcune delle mie migliori amiche. In quel periodo mi prendevo cura di loro e non avevo il tempo di radermi ogni giorno come avevo sempre fatto. Le mie amiche morenti mi dissero che quella barbetta era bella e mi incoraggiarono a farmela crescere. Cominciai a considerarmi una “two-spirit”, termine nativo-americano che designa le persone dalle caratteristiche sia maschili che femminili. In seguito mia madre, poco prima che un cancro se la portasse via, mi disse che avevo ascendenze nativo-americane, che lei aveva tenuto segrete perché aveva interiorizzato il razzismo incontrato da bambina. Un altro pezzo del puzzle era andato al suo posto.
Avrei potuto continuare a vivere come Audrey se il resto del mondo l’avesse accettata, ma non ero al sicuro: con tette, barba e un nome da donna ero un bersaglio mobile per il bigottismo e gli abusi. Nel 1998, durante la visione di un documentario su Brandon Teena (l’uomo trans interpretato da Hilary Swank in Boys don’t cry), incontrai una persona che stava compiendo la transizione da femmina a maschio. Quell’incontro mi riempì di speranza. Un anno dopo o giù di lì, poco dopo il mio quarantesimo compleanno, cominciai a presentarmi come Alec.
La mia identità two-spirit si riflette nel mio nome legale, Audrey Alec Whitewolf [Lupo Bianco] Butler, e si riflette anche nel mio corpo, che ho scelto di non alterare chirurgicamente. Ora che vengo generalmente percepito come maschio, la vita è più facile. Posso essere Alec nel mondo senza che nessuno mi critichi o mi contesti: qualche volta mi danno del frocio, ma non ci faccio caso.
Questo autunno sono tornato all’università per cominciare un corso in studi aborigeni e della diversità sessuale, due materie che non esistevano quando cominciai l’università trent’anni fa, con l’obiettivo di contribuire al canone della letteratura trans e di aiutare i bambini gender queer a non essere emarginati come succedeva ai miei tempi. Mia madre mi diceva sempre “Sei nata diversa per fare la differenza”. Spero che avesse ragione.
Testo originale: My Trans Life: Alec Butler