Attraverso la porta santa della mia omosessualità. Ora sono un prete felice
Testimonianza inviataci da don Giovanni
È la notte di Natale del 2000, e l’anno giubilare è al suo termine. Sto celebrando la messa con tutta la comunità di cui sono viceparroco. Sono sull’altare accanto al parroco, e ho il compito di badare che i chierichetti combinino meno danni possibili (succede spesso nelle celebrazioni solenni come queste).
Mi capita spesso di esser così preoccupato dalle cose da fare durante la liturgia, che le messe più importanti mi sfuggono via senza che riesca a partecipare ad esse con l’attenzione dello spirito. E’ quello che mi sta capitando anche in questa messa di Natale.
Ma questa notte un fatto mi sorprende. Mentre sto per indicare ai chierichetti di andare a prendere il turibolo con l’incenso, le parole della prima lettura mi colpiscono dritto al cuore tanto da farmi dimenticare i chierichetti che rimangono in mezzo all’altare senza saper che fare. Il lettore sta proclamando il primo versetto del capitolo 9 del profeta Isaia: “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce…”.
Quelle parole, lette e ascoltate tantissime volte in tante altre liturgie della mia vita di prete, questa volta mi avvolgono. Sono parole che sento vere e attuali e stanno raccontando, anche dopo migliaia di anni da quando sono state scritte, la mia esperienza spirituale e umana di oggi.
Sono omosessuale da sempre. Ora lo posso dire con serenità dopo tanti anni nei quali avevo perfino timore e vergogna di accostare questa parola al mio nome.
Oggi ho 40 anni anni e sono prete da più di quindici. Fin dall’età di dieci anni mi sono sentito diverso e “sbagliato” nella mia sessualità. Le mie fantasie erano dirette verso i ragazzi, e non verso le ragazze come tutti gli altri miei amici. Con passar del tempo ho passivamente accettato, nella più totale solitudine, questo mio “errore” innominabile che sentivo pesante e senza scampo. Mi sentivo come handicappato, ma di un handicap che fuori non si vede e quindi si può ben dissimulare.
Consideravo l’omosessualità una cosa che appartiene solo a persone infelici che vivono male e sole, ma io non volevo vivere infelice. Non conoscevo nessuno come me, e pensavo che “quelli così” vivono solo “in America”, cioè assolutamente altrove e non vicini a me, nella mia città del nord Italia. Ora so che mi sbagliavo, ma sono cresciuto con questo peso interiore. E questa solitudine, unita alla vergogna, mi ha profondamente segnato.
Per fortuna ho una famiglia che mi ha dato una educazione cristiana serena e forte allo stesso tempo. Non ho mai pensato a Dio come ad un castigatore capace solo di condannare, ma l’ho sentito piuttosto come un Dio pronto a consolare e a perdonare, un Dio al cui amore misericordioso potevo abbandonarmi con fiducia.
Sono entrato in seminario a venti anni e dopo sei anni di teologia sono diventato prete. Non ho intrapreso la via del sacerdozio come fuga o soluzione a quello che allora pensavo fosse il mio handicap sessuale, e oggi più che mai sono convinto della mia scelta.
La formazione e soprattutto il confronto spirituale in seminario hanno praticamente ignorato questo aspetto di me che tenevo semplicemente nel congelatore della mente. Un soffertissimo accenno fatto al padre spirituale sull’argomento non ha prodotto nulla se non una bonaria pacca sulla spalla: insomma l’effetto di una iniezione di cortisone che copre il problema per un po’, ma non lo risolve.
Dopo tutti questi anni sono un prete felice di esserlo e con moltissime soddisfazioni spirituali e pastorali.
Attorno ai trent’anni anni è iniziata una nuova fase della mia vita, e questa svolta non ha potuto non toccare anche la mia vocazione di prete. Una decina di anni fa, attraverso internet, vengo a conoscenza di gruppi di omosessuali credenti ed entro in contatto con qualcuno di loro. E’ in questa sorta di “confessionale con grata” elettronico che faccio i primi passi di un confronto sulla mia vita sessuale che non avevo mai fatto con nessuno, tanto meno in seminario.
E’ iniziato attraverso la tastiera del computer un cammino di crescita che mi ha portato a incontrare persone come me, laici e preti. Non ero più solo e soprattutto potevo guardare con occhi nuovi quella cosa “innominabile” che aveva invece un nome preciso, omosessualità, e che finalmente senza timore potevo associare al mio nome e alla mia vocazione.
Il primo omosessuale che ho incontrato dal vivo e con il quale c’è stato un dialogo profondo è stato proprio un altro prete. Ricordo ancora la fortissima emozione di poter essere me stesso fino in fondo nell’incontrare un’altra persona. Finalmente potevo togliermi la maschera dietro cui mi nascondevo e che mi ero messo per proteggermi dalla paura che la mia omosessualità mi distruggesse come uomo e come prete.
Mi ricordo che in quella occasione ho parlato tantissimo e ascoltato ancor di più. E quello che mi ha aperto alla speranza è stato sentirmi dire una frase, all’apparenza banale, ma che nessuno mi aveva mai detto: “puoi essere un buon prete anche se sei omosessuale. Non è l’orientamento sessuale che ti fa essere un buono o cattivo sacerdote…”. Sentivo quelle semplici parole come vere e liberanti.
La mia ricerca attraverso internet di materiale di riflessione su fede e omosessualità e anche di nuovi confronti si è fatta sempre più intensa. Avevo una grandissima sete di parole diverse e positive rispetto a quelle che mi ero detto da solo o che sentivo attorno a me, e che erano sempre di condanna o di derisione riguardo la realtà omosessuale.
Mi sono imbattuto allora nel sito del gruppo “La fonte” di Milano e nel nome di don Domenico Pezzini. Mi sono messo in contatto con lui e mi sono ritrovato dopo qualche tempo a colloquio. Ricordo che quando mi ha fatto la proposta di partecipare ad un gruppo di amici preti omosessuali ho provato una gioia immensa.
Subito dopo questo incontro sono entrato nella mia chiesa e ho ringraziato il Signore che stava rispondendo a tutte le mie preghiere , anche a quelle che non avevo nemmeno fatto. Io, che avevo pregato per tanti anni di trovare la pace con la liberazione da questa cosa innominabile, ora ricevevo una risposta bellissima e insperata.
Ecco perché quella notte di Natale le parole di Isaia sono state così penetranti e hanno catturato la mia attenzione spirituale profonda. In quel popolo che camminava nelle tenebre ho riconosciuto la mia storia, che dopo anni di buio aveva trovato una luce fatta di consapevolezza e accettazione.
Avevo trovato soprattutto un cammino di crescita libero dalla solitudine di prima. È proprio vero che la prima forma di guarigione spirituale è la libertà di raccontarsi…
I passi successivi della mia autoaccettazione come omosessuale mi hanno portato a parlare di me apertamente in famiglia e con gli amici più cari di sempre. E ho trovato accoglienza e ancor più amore. Mia sorella, come risposta immediata al mio racconto, mi ha detto con un gran sorriso: “ volevo infatti chiederti come mai ultimamente eri molto più aperto e sereno! …”.
Dopo una vita di nascondimento avevo voglia di aprirmi senza aver più paura di quel che sono. Ho maturato la convinzione profonda che se sono omosessuale e prete allo stesso tempo non è certo per un errore di Dio, perché lui conosce le sue pecore (come dice il Vangelo) e chiama chi vuole.
Quindi ha chiamato anche me, sapendo benissimo quel che ero e la mia storia. Ho iniziato anche a occuparmi di persone omosessuali che cercano un aiuto per il loro cammino di fede, persone che si sentono sempre minacciati dai troppi pregiudizi che sopravvivono nella Chiesa sotto le apparenze di una “misericordiosa” accoglienza.
Sento che quella luce che ha illuminato le mie tenebre deve raggiungere, anche attraverso la mia esperienza, altre persone omosessuali che per questo fatto si sentono nel buio spirituale.
Fin da subito infatti ho cercato di confrontarmi onestamente con il mio vescovo e con alcuni responsabili dei preti della mia diocesi. Forse sono stato ingenuo nel credere nella riservatezza e nella vera comprensione. Purtroppo ho toccato con mano l’assoluta inadeguatezza del clero nell’affrontare queste tematiche, soprattutto al suo interno.
Quando si tocca la questione della vita affettiva e sessuale dei preti (così importante per un sano ministero) tutto diventa ancor più difficile e si parla solo per pregiudizi e per norme assolute che lasciano spesso le persone reali nella loro disperazione.
Le mie confidenze sono state subito raccontate ad altri preti con la scusa di “fare il mio bene”, e alla fine mi son sentito trattare come un problema grave da risolvere.
Non voglio soffermarmi troppo sull’amarezza mista a rabbia che in questi anni ho maturato, anche perché in me comunque prevale un senso di gioia e di grande pace spirituale. Il Signore davvero non mi ha lasciato solo, ma mi ha sanato in quella parte di me che sentivo incurabile e da nascondere. Mi ha sanato dandomi un progetto di vita e facendomi sentire in armonia con tutto me stesso.
Una sera ero a cena con una coppia di sposi della mia parrocchia, Valentino e Chiara. Quest’ultima mi parlò di un suo cugino gay e disse di essere dispiaciuta perché in famiglia era un po’ emarginato. La fermai dicendole: “e se ti dicessi che anche io sono omosessuale?”
A quel punto raccontai brevemente la mia storia. Subito mi abbracciarono e aggiunsero: “Era da un po’ di tempo che volevamo dirti che ci sembri più sereno in viso e che sei più luminoso ed ispirato quando predichi! Adesso capiamo il perché…”.
Da quel giorno la nostra amicizia è diventata ancora più forte e quelle parole mi hanno confermato che il cammino che avevo intrapreso non era qualcosa di sbagliato e pericoloso per il mio sacerdozio, ma il contrario.
Il 2000 è stato per la Chiesa l’anno del grande Giubileo. In quell’anno sono state aperte le porte sante e molti in pellegrinaggio le hanno varcate. E’ stato anche l’anno delle grandi richieste di perdono da parte della Chiesa in cerca di riconciliazione con il passato.
Ho fatto anch’io nel 2000 il mio giubileo personale. Ho aperto porte che credevo chiuse e percorso strade che pensavo dirette al male e quindi assolutamente da evitare. Mi sono soprattutto riconciliato con me stesso e con la mia identità profonda. Non pensavo che il mio Giubileo sarebbe stato di questo tipo, ma ancora oggi non finisco di ringraziare Dio e sono felice come uomo e come prete.