Hanukkah e il Ringraziamento: non accontentiamoci dell’evidenza, abbiamo fiducia in Dio!
Riflessioni di H. Adam Ackley* pubblicate sull’Huffington Post Stati Uniti) il 3 dicembre 2013, liberamente tradotte da Silvia Lanzi
Quest’anno [2013], coincidenza che accade ogni 70.000 anni, il primo giorno intero, da tramonto a tramonto, della Hanukkah ebraica e la celebrazione del Ringraziamento negli Stati Uniti si sovrappongono.
Mentre Hanukkah è una festa di luci che celebra la riconsacrazione del Tempio di Gerusalemme al culto ebraico dopo molti anni di profanazione da parte delle forze di occupazione greche, il Ringraziamento è una celebrazione civile di gratitudine, una festa del raccolto che commemora la condivisione del cibo da parte di un popolo occupato con i colonizzatori che li avevano invasi, ma non sapevano ancora come far crescere le colture locali. Entrambe le tradizioni fanno uso di preghiere, riunioni di famiglia e cibi speciali per celebrare la miracolosa provvidenza di Dio che ha sostenuto una popolazione che lottava in un contesto di oppressione coloniale. Riflettere profondamente e con umiltà su che cosa differenzia queste due celebrazioni può anche aiutare coloro che negli Stati Uniti vogliono superare le brutte connotazioni post-coloniali del Ringraziamento civile e la frenesia della gola e dell’avidità che segnano il giorno dopo, un “venerdì nero” della pubblicità e del consumismo negli Stati Uniti.
Durante i loro quarant’anni di peregrinazione nel deserto verso la nuova Terra Promessa dopo la fuga dalla schiavitù d’Egitto, l’antico popolo ebraico (come i pellegrini ebrei sotto il dominio greco prima della riconquista del Tempio, che viene celebrata ad Hanukkah) ha spesso perso la fede e la speranza nel compimento delle promesse di Dio, che sembravano continuamente posticipate. Il loro punto più basso avviene durante l’assenza di sei settimane di Mosè mentre questi si consultava con Dio sugli specifici modi del vivere quotidiano che sarebbero stati scritti nella Torah, la legge ebraica che entra nel dettaglio di specifiche pratiche che esprimono il patto di Dio con Israele. Mentre Dio e Mosè stavano parlando faccia a faccia e la personale intimità di Mosè con Dio cresceva (Esodo 33:11), suo fratello Aronne e la gente di Israele perdettero a tal punto la speranza e la fede che costruirono un vitello d’oro da adorare al posto di Dio. Come la ricerca di beni materiali negli Stati Uniti, che inizia con i festeggiamenti del Ringraziamento e continua durante la stagione dei regali delle vacanze, l’antico sostituto ebraico di Dio era qualcosa al quale essi potevano contribuire e quindi farne una loro proprietà. Lo potevano vedere continuamente davanti a loro (a differenza di Dio) mentre cantavano e lo adoravano, mangiavano e giocavano vicino ad esso.
Quando il compimento delle promesse di Dio sembra ritardato così a lungo, è fin troppo facile perdere la speranza e accontentarsi di ciò che è meno vero, meno di quello che Dio vuole darci, che può essere più difficile e può richiedere lunghe attese (quarant’anni a vagare verso la Terra Promessa o anni costretti fuori dal Tempio solo per ristabilire un periodo culto di otto giorni con un solo giorno di approvvigionamento). Ci sembra di scegliere invece quello che possiamo vedere e toccare, anche se non è reale, non è vivificante. Nel caso dell’adorazione del vitello d’oro, Dio attribuisce la perdita di speranza del popolo di Israele alla ristrettezza della loro visione spirituale, il loro essere “di dura cervice”. Quando sono “di dura cervice” (una condizione che sono arrivato a capire nel suo significato letterale di avere spesso in tensione la parte superiore della schiena, le spalle, il collo e la mandibola), non riesco a girare la testa da un lato all’altro o su e giù. Essere spiritualmente “di dura cervice” suggerisce un’incapacità a guardare in alto (in questo caso, alla montagna dove Dio e Mosè erano in intima preghiera per guidare gli israeliti) e un’altrettanto uguale incapacità di girare la testa per guardarsi intorno, alla gente del patto e alla creazione di Dio che testimoniano tutt’intorno a noi la presenza costante e la realtà di Dio. Mosè, a sua volta, implora Dio di non rispondere al culto idolatrico del popolo in modo altrettanto rigido, ricordandogli le promesse e la fedeltà tra Lui e chi è venuto prima, gli stessi “antenati” ebrei nella preghiera di accensione delle candele di Hanukkah. Mosè ci insegna dunque a pregare fedelmente nei nostri momenti di sconforto e Dio che “si pente”, mostra pietà per coloro che hanno costruito e adorato l’idolo del vitello d’oro (Esodo 32). Pregare attraverso tali difficoltà e paure durante i periodi di deserto è lottare apertamente con Dio (come Giacobbe fece fisicamente e Mosè con la parola), esprimendo fiducia in Dio anche quando abbiamo paura o ci sentiamo in dubbio. Questo ci rende Dio presente e reale, in modo da non cadere preda della tentazione comune di costruire, in quei momenti, i nostri più immediati e accessibili “vitelli d’oro”, idoli di falsa sicurezza.
Questa dinamica di fede è illustrata in modo ancora più vivido quando le stesse persone, avendo distrutto il vitello d’oro e costruito un tabernacolo dove poter adorare Dio presente in mezzo a loro, scelgono ancora una volta la falsa sicurezza e questa volta per un periodo di tempo ancora più lungo, in cui anche la fede di Mosè sembra ristagnare. Dei quarant’anni tra la fuga dalla schiavitù e l’arrivo alla loro nuova terra, Mosè è il popolo ebraico scelsero di passare più di trentacinque anni semplicemente attaccandosi alla minima sicurezza e salvezza di un’oasi del deserto, piuttosto che mettersi in cammino per lasciare il deserto (Numeri 21:14-36:13). La loro esistenza quotidiana doveva rimanere così precaria che lottarono per mantenere la fede nella continua presenza di Dio con loro, per non parlare della speranza nel reale adempimento delle precedenti promesse di Dio (Deuteronomio 30:19-20). Il fatto che la maggior parte dei quarant’anni di viaggio verso la Terra Promessa sia stata passata senza viaggiare mi ricorda la costante tentazione di tenere sotto controllo le nostre vite, guardando a ciò che è presente e raggiungibile per sopravvivere alla meno peggio, piuttosto che avere fede e aspettare, dal momento che Dio ci ha promesso che nutrirà il pieno fiorire delle nostre vite con dolcezza e delizia (“latte e miele”). In difficoltà e deprivazioni prolungate, anche io solitamente ho tentato di cercare l’equivalente spirituale di un piccolo laghetto e solamente l’ombra e i frutti di un albero o due. Ho tentato di vivere una vita vuota, come un’ombra di me stesso, piuttosto che credere che ciò che sono (una persona transgender) invece è “fatto tremendamente e magnificamente” (Salmo 139:14) o che Dio avrebbe potuto benedire qualcuno come me (un uomo attratto da un altro uomo) con un patto nuziale “attraverso cui tutte le famiglie della terra benediranno se stesse” (Genesi 28:14). Come le persone di Israele, ho sempre e solamente smesso di cercare le promesse di Dio e ho mollato invece che sperare e avere fiducia.
Comunque, queste storie degli antichi ebrei nella Torah e a Hanukkah possono ricordarci che, invece di scegliere una morte vivente al livello minimo spirituale e relazionale di un’oasi nel deserto, Dio ci chiama a scegliere una vita di speranza abbondante e di benessere. Negli Stati Uniti, durante le vacanze del Ringraziamento, è importante specialmente ricordare che le promesse di Dio non vanno comprese come promesse di prosperità materiale e invasione coloniale, ma sono piuttosto richiami di come Dio vuole che noi facciamo, in pienezza, esperienza della nostra identità, in comunione con Dio e con i nostri fratelli, e di come Dio vuole che amiamo. Nel primo Ringraziamento coloniale vediamo ciò incarnato non nel comportamento dei pellegrini, ma piuttosto nell’altruistica e compassionevole condivisione dei nativi americani con loro. Questa grazia e questo miracolo, che possiamo commemorare ogni anno negli Stati Uniti, stavolta senza celebrare l’oppressione, coincide con l’avviso pieno di forza di Dio al popolo ebraico mentre sta entrando nella Terra Promessa, che la prosperità materiale e il compimento delle promesse di Dio non devono essere concepiti come qualcosa di guadagnato o di meritato. La provvidenza di Dio che sostiene il suo popolo, celebrata sia durante Hanukkah che durante il Ringraziamento, è l’evidenza della pura grazia di Dio.
Le antiche storie di attesa degli ebrei – dai quattordici anni tra l’incontro di Giacobbe e Rachele prima del loro matrimonio (Genesi 28-30) ai quarant’anni di vagabondaggio nel deserto passati per lo più nelle oasi, alla più tarda riconsacrazione del Tempio da parte dei Maccabei, con l’olio per le lampade dell’altare sufficiente solo per un giorno che Dio mantenne miracolosamente durante gli otto giorni di attesa prima che venisse spremuto quello nuovo – tutto mi ricorda che per sperimentare il compimento delle promesse di Dio nelle nostre vite ci sarà sempre bisogno di tempi di fiducia cieca in Dio e andare avanti, nonostante i ritardi e le difficoltà, continuando verso ciò che Dio promette, che è il meglio, invece di starcene comodi in un tipo di vita, in comportamenti e relazioni che sembrano più plausibili solo perché sono più a portata di mano. Così, invece che lasciarci andare alla disperazione quando ci sembra che abbiamo poco che ci sostenga, il Ringraziamento e Hanukkah ci ricordano (nelle parole della preghiera di accensione delle candele della hanukiah [speciale candelabro ebraico a nove bracci n.d.t.]) di benedire Dio per dove siamo ora, avendo fiducia in Dio e gli uni negli altri, invitati in pienezza di fede alla dolcezza e alla completezza del vivere insieme, ricordando i miracoli che Dio ha fatto per i nostri antenati nei tempi passati.
* H. Adam Ackley è professore universitario in pensione e si occupa di prevenzione del suicidio tra le persone trans.
Testo originale: Hanukkah and Thanksgiving as Seasons of Trusting in God’s Miracles