Fatto ad immagine di Dio. Un prete omosessuale si racconta
Testimonianza* tratta dal Commonweal Magazine (Stati Uniti) dell’11 aprile 2003, liberamente tradotta da Silvia Lanzi
Sapevo di essere stato chiamato al sacerdozio prima di sapere di essere gay. Il fascino del mistero sacramentale che risuonava nella mia giovane anima, la pronta accettazione che ho trovato nella mia comunità parrocchiale e le cure e le attenzioni datemi dai sacerdoti di ogni età e temperamento, mi hanno convinto fin da piccolo che la mia vita avrebbe potuto essere vissuta come un servizio in qualità di prete.
L’eccitamento, la complessità e la bellezza della mia sessualità fu una scoperta più tarda, giunta in un momento in cui il corpo, la mente e l’anima erano pronto per esplorare e capire uno dei più profondi doni di Dio. Sì, seppi di essere chiamato al sacerdozio prima di sapere di essere gay. Questo è il motivo per cui la recente decisione (presa a) di Roma che gli omosessuali non sono adatti al sacerdozio mi fece fermare per riflettere e mi fece domandare: “Come può essere?”
Sebbene scoraggiato e arrabbiato dal crescente numero di voci che mi giudicavano inadatto, non ero sorpreso. Ho visto che anche le persone più amabili cadono preda dell’intolleranza quando si arriva all’argomento “omosessualità”. Una volta, quando ho tentato di parlare con mia madre circa il mio ministero rivolto agli studenti gay e alle studentesse lesbiche in un college locale, la sua sola risposta fu: “Odio quella gente”.
E durante un colloquio personale, quando feci coming out con un pastore che amavo come un padre, lui mi disse: “Strano, non sembri uno di loro”. No, non sono sorpreso. Penso di essermi aspettato, a volte, che accadesse una cosa del genere.
Comunque, sentire le parole che mi etichettavano come inadatto mi fece male e mi confuse. Se Roma decidesse che gli omosessuali non possono essere ammessi al sacerdozio, allora diventerei il membro non bene accetto di una fratellanza la cui caratteristica principale sarebbe quella di provare attrazione per le donne.
Come c’ero finito? Com’è successo che ora mi sento come un ospite che vada ad un banchetto di nozze senza il vestito adatto? Perché nessuno mi fermò sulla porta (della chiesa) prima della mia ordinazione, venticinque anni fa?
Durante i miei sette anni di formazione in seminario, ho combattuto con il “problema” della mia attrazione per le persone del mio stesso sesso e mi sono chiesto se fosse possibile rispondere alla chiamata al sacerdozio, visto l’insegnamento della Chiesa e di come era considerato l’argomento. La chiamata al ministero (sacerdotale) era chiara per me e per molti altri, inclusa la (mia) famiglia, gli amici, i preti che avevo conosciuto e gli educatori del seminario.
Comunque, la questione rimaneva: avrei potuto vivere una vita celibataria felice e significante al servizio degli altri, sapendo che la Chiesa che volevo servire considerava una parte importante di me come “intrinsecamente disordinata”? Mentre il problema emergeva ad ogni passo, c’era sempre un direttore spirituale a guidarmi, e, per un periodo di due anni, un consigliere che mi aiutava a capire il ruolo che la mia sessualità aveva nell’idea che mi ero fatto di me e nel mio rapporto con gli altri.
Nella vita di preghiera in seminario, nella direzione che avevo ricevuto dalle mie guide spirituali e dai confessori, nella comunità dei miei fratelli seminaristi che mi era vicina e che mi aiutava, ho trovato la forza e l’accettazione di cui avevo bisogno per continuare, in vista dell’ordinazione. Mi sorprende che quelli che ora si oppongono all’ordinazione di persone omosessuali pensino che vivere in un seminario potrebbe rendere più difficile vivere castamente (Andrew R. Baker, “Ordination and Same-Sex Attraction,” America, 30 Settembre 2002).
Tutti gli articoli e i libri che ho letto incoraggiano quelli che vogliono vivere in accordo con l’insegnamento della Chiesa sull’omosessualità a sviluppare un’intensa vita di preghiera, a cercare un direttore spirituale comprensivo, e ad essere parte di una comunità che condivide l’insegnamento della Chiesa.
Lungi dall’essere una fonte di tentazione, il seminario dovrebbe essere il luogo ottimale dove trovare la direzione (spirituale) e l’aiuto per vivere una vita casta.
L’asserzione che un seminario interamente maschile possa essere un occasione di tentazione per un omosessuale è assurda. Significa che visto che ascoltare le confessioni in un convento potrebbe essere una tentazione per un prete eterosessuale questo dovrebbe essere evitato? Certamente no.
Perché la sessualità e ridotta sempre all’impulso sessuale piuttosto che essere compresa nel più largo contesto di come ci si dovrebbe porre in una persona completa – corpo, mente e spirito?
Trovo anche disturbante che si pensi che queste conclusioni associate talvolta agli omosessuali (Baker suggerisce abuso di sostanze, dipendenze sessuali e depressione) siano correlate intrinsecamente all’omosessualità piuttosto che l’essere il risultato di una identità sessuale debolmente formata.
Ciò è dovuto ad una ragione: se un omosessuale (maschio) inizia con la teoria che la sua sessualità è disordinata perché, come afferma Baker, “tende ad una fine ambiguo” e “non” può “mai immaginare Dio e non può contribuire al bene della persona o della società” come potrebbe combattere con la sensazione di disadattamento e depressione che vive.
Queste attitudini tutt’altro che salutari e questi comportamenti autodistruttivi derivano non dall’orientamento (sessuale) in se stesso, ma dall’immagine autodistruttiva imposta agli omosessuali dalla società e dalla Chiesa. Se dovessi credere che il dono della sessualità che mi ha donato Dio è disordinato, come potrei mai stabilire una relazione amorevole e basata sulla fiducia con quel Dio che mi ha creato così?
Vivere una vita celibataria non cancella la sessualità. Il celibato esige di incanalare tutta l’energia relazionale (eterosessuale o omosessuale) nel servizio amorevole verso coloro i quali ci sono stati affidati. L’energia relazionale è molto più di un’espressione genitale; è l’intero essere in relazione con gli altri.
È un rompicapo per me che scrittori come Baker che esprime opinioni così forti su questo argomento riduca la sessualità ad attrazione fisica. I venticinque anni che ho speso nel mio ministero sacerdotale sono stati anni di battaglia, grazia e condivisione nel mistero del Dio incarnato reso visibile in Gesù, che continua a vivere in e attraverso la sua Chiesa.
La persona del sacerdote è chiamata a riflettere l’amore di Cristo, casto e altruista, in coloro che egli serve. Egli fa così non perché è eterosessuale; fa così perché è suo desiderio riaffermare la divinità delle persone fatte a immagine e somiglianza di Dio, chiamandoli a vivere il messaggio del vangelo contrastando le incomprensioni, le sfide e il sacrificio.
Sono giunto a concludere di essere un “vero” ministro, nonostante il fatto di essere omosessuale, ma spesso proprio perché sono omosessuale. So che per alcuni è difficile capire quest’affermazione. Questo può succedere perché gli scrittori come George Weigel (The Courage to Be Catholic) divide gli omosessuali in due categorie: gay (“un uomo che fa del suo desiderio omoerotico il centro della sua personalità e della sua identità”) e quelli che riconoscono che i loro desideri omosessuali sono disordinati.
Un’analisi così concepita riduce le scelte che fa una persona omosessuale alla promiscuità o alla negazione di sé. Nessuna delle due porta ad una spiritualità sana basata sull’apprezzamento di essere stati creati ad immagine e somiglianza di Dio. Ci vuole un’altra opzione, una che definisca le molte sfaccettature della sessualità e rifletta l’infinito amore che Dio ha per la sua creatura.
Non c’è nulla come un generico amore divino: l’amore di Dio è diretto in modo unico e geloso (in senso buono) ad ogni persona che lui ama. Nella stessa maniera è unica la risposta individuale alla grazia di Dio, che è fondata sulla natura di ciascuno, sia essa omosessuale o eterosessuale.
Poiché l’insegnamento ufficiale della Chiesa nega una possibilità del genere per gli omosessuali, capisco la battaglia (interiore) che vivono gli omosessuali credendo di essere fatti ad immagine e somiglianza di Dio, di essere buoni, e che l’insegnamento della Chiesa serva come fondamento di una spiritualità sana e piena di grazia.
Sono rattristato che siano le autorità della Chiesa che amo che hanno posto il più grande ostacolo all’accettazione di questa divinità, chiedendoci di sentirci “disordinati” fino ad una fine meschina. Questo è uno dei pesanti carichi, difficile da (sop)portare, che la Chiesa impone a molti suoi figli e figlie. Guai a chi impone un tale peso! Sarà un giorno ben triste per me se quelli che hanno l’autorità decideranno di imporre un veto all’ordinazione di uomini omosessuali e sarà un giorno triste per tutta la Chiesa.
Molti di noi saranno perduti, perché ho il sospetto che ci sarà chi, a dispetto del rispetto che deve a se stesso, sceglierà di uscire senza strepiti dal ministero al quale Dio l’ha chiamato e che ama. Sospetto che quelli ai piani alti difficilmente lo noteranno o sprecheranno fiato per dare loro conforto.
Quelli che hanno creduto e fatto tesoro del loro ministero, comunque, noteranno la cosa e saranno rattristati che il loro benessere spirituale sia compromesso ancora una volta da quelli che hanno un’autorità, mutuata da Cristo, di prendere decisioni senza la sua mente e il suo cuore per farlo con saggezza.
* Commonweal Magazine pubblica raramente articoli anonimi. In questo caso tuttavia, date le possibili conseguenze per l’autore di questa testimonianza, la redazione del giornale ha deciso che (purtroppo) l’anonimato era una decisione giustificata.
Testo originale: Made in god’s image. A homosexual priest speaks out