La volta che ho detto a mia madre: ‘Sono omosessuale’
Articolo di Maria Elena Barnabi tratto dal mensile PerME, n.1 del marzo 2004, pp.76-80
In certi istanti della vita sembra che una strada si chiuda e se ne apra un’altra. Sono momenti che segnano un prima e un dopo, senza ritorno. Come quando un figlio dice alla madre di essere omosessuale. Di colpo lei intravede, con preoccupazione e dolore, il nuovo mondo che le si spalanca davanti. Un mondo dove lui non potrà sposarsi né avere figli, dove forse verrà discriminato, dove dovrà lottare per avere rispetto. «La madre è, di solito, il primo genitore con il quale un figlio omosessuale si apre» spiega Luca Pietrantoni, docente di psicologia all’Università di Bologna, consulente dell’Arcigay e autore del libro L’offesa peggiore (Edizioni del Cerro).
«E il percorso che deve compiere per accettare la confessione è ancora oggi lungo, faticoso, sofferto. Non perché, come volevano le vecchie teorie psicanalitiche, tra mamma e figlio gay esista un rapporto speciale. La ragione è più semplice e immediata: è la madre la vestale della sfera delle emozioni, degli amori e degli affetti. Se qualcosa non va a livello emotivo, si sente immediatamente coinvolta».
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Che cosa prova davanti alla rivelazione dell’omosessualità del figlio?
«Anzitutto, la sensazione di trovarsi di fronte un estraneo: l’immagine che si era costruita del suo ragazzo, con annesse fantasie di fidanzamento, matrimonio, nipotini, è spazzata via» continua Pietrantoni. «Al suo posto si profila una figura nuova, senza figli, senza donne, magari deformata dai grotteschi stereotipi dell’omosessualità. È un vero lutto, che richiede tempo e sensibilità per essere affrontato e superato». Oltre allo straniamento, in una madre scattano anche i sensi di colpa: crede di essere stata lei, con le sue soffocanti attenzioni e la sua energica presenza, ad aver “rammollito” il bambino, creando le condizioni perché diventasse gay.
«Si ha un bel dire che l’omosessualità è, in realtà, solo una variazione dell’orientamento sessuale e affettivo» aggiunge la psicoterapeuta Margherita Graglia, responsabile del consultorio per gay e lesbiche patrocinato dal Comune di Reggio Emilia. «Per una madre, almeno all’inizio, resta un tabù, difficile da affrontare e ancor più difficile da superare. E se il figlio è giovane, c’è anche la preoccupazione che possa subire umiliazioni e abusi da persone adulte. Ancora molti, infatti, identificano il mondo gay solo con ambienti torbidi e malsani».
C’è poi la minaccia del giudizio sociale, di un bollo di “malattia” appiccicato alla famiglia che ha un figlio “diverso”. Eppure oggi in Italia c’è un gay ogni venti famiglie, il 5 per cento della popolazione.
E per sostenere e aiutare i genitori che devono fare i conti con una realtà alla quale non erano preparati c’è una struttura, l’Agedo, creata dalle madri e dai padri che hanno già vissuto questa esperienza. Anche se la strada da percorrere passa soprattutto attraverso il dialogo e il rispetto. Solo dandosi tutto il tempo di cui si ha bisogno, si riesce a guardare la realtà da un’altra prospettiva. Per vederla con gli occhi del figlio. E accettarla come parte di lui.
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«Dopo sei anni mi ha regalato delle lenzuola matrimoniali»
Giovanni Dall’Orto, vive a Milano e dirige(va) il mensile Gay Pride. La mamma Paola ha fondato l’Agedo (associazione dei genitori con figli omosessuali). «Mia madre lo sa da quasi trent’anni. Cioè dal 1976. Avevo 18 anni e di omosessualità in Italia non si parlava. Era un periodo di libertà sessuale, ma solo tra uomini e donne. Nessun gay era mai andato in tv, nessuna intervista, nessun libro, lo decisi di uscire allo scoperto. Sono partito da lontano: prima gli amici, i cugini, gli zii, mia sorella. Mia madre per ultima. Volevo preparare il discorso, ma mi ha anticipato: aveva ascoltato per caso le confidenze con mia sorella e mi ha affrontato di petto. Era cattolica.
Mi ripeteva che era colpa sua, che dovevo andare dallo psicologo, che avrei cambiato idea. Come se la mia fosse stata un’eccentricità passeggera, da dimenticare al più presto. La discussione che abbiamo avuto è stata sgradevole, ricordarla non mi piace. Mi sono trasferito a Torino, a vivere con il mio compagno. Ma un giorno, dopo sei anni, lei mi ha regalato un completo da letto matrimoniale. Un gesto simbolico, forte ed emozionante. Era il segnale che di me accettava tutto, anche la mia storia d’amore. Sono tornato a Milano e sono stato il primo gay ad andare in tv: da Enzo Biagi, in una trasmissione sull’Aids, nel 1985. Quando sono diventato presidente dell’Arcigay milanese, mi sono reso conto che otto telefonate su dieci ruotavano sul rapporto genitori-figli. Era il problema più diffuso, il più doloroso. Ho pensato che scrivere un libro a due voci, un figlio e una madre, fosse un modo per aiutare chi non trovava le parole giuste. La difficoltà era trovare un genitore: l’ho chiesto a mia mamma e lei ha accettato, a patto di non andare in tv. Invece è accaduto che durante la stesura mia madre, con altri genitori, ha fondato l’Agedo, l’Associazione genitori, parenti e amici di omosessuali. E da allora, non so quante interviste e trasmissioni abbiamo fatto. Noi due, insieme».
«Vedete? Non ha voluto farsi fotografare. E troppo presto»
Luca Ceglia, vive a Brescia, insegna italiano e latino al liceo. La mamma Fernanda è pensionata. «L’ho detto a mia madre l’estate scorsa al mare. Nei miei piani la cosa doveva andare un po’ come nel film Indovina chi viene a cena. Le avrei detto che avrebbe conosciuto la persona che amavo e, sorpresa, mi sarei presentato con il mio ragazzo. Invece è successo una sera, durante una discussione. Mi rimproverava di farmi gli affari miei. Come nel weekend del mio compleanno. Aveva organizzato una cena con amici, e io non ci ero andato. So bene perché: c’era la manifestazione nazionale dei gay a Bari e io, per la prima volta, avevo partecipato.Non lo sapeva nessuno ma, prima che me ne rendessi conto, quella sera mi è scappato di bocca; le ho raccontato che ero a Bari.
E che era vero che avevo una storia. Ma con un ragazzo, Cesare. Le ho svelato il mio segreto così, con due semplici frasi, un po’ brutalmente. E ammutolita, mi ha guardato, ha incassato in silenzio. Forse è tornata alle parole crociate, o ha finito di lavare i piatti, non ricordo. Da allora ne abbiamo riparlato due o tre volte. È una donna aperta, ma è come se facesse finta di niente. Sta assorbendo la notizia, forse si preoccupa per me.Quando le ho chiesto se voleva farsi fotografare per questa intervista ha risposto che ci doveva pensare. Sarà per la prossima volta».
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«Quella sera mi ha detto: finalmente ho capito perche stavi cosi male»
Roberto Shaw, vive a Seregno, studia fiosofia. La mamma Donatella è casalinga. «Tutto è successo dopo l’esame di maturità. Avevo passato un inverno difficile, non uscivo quasi mai. Poi una mattina d’estate mi sono svegliato e ho capito che stavo male perché non ero sincero con i miei genitori. Dovevo assolutamente dire che ero omosessuale: avevo bisogno del loro appoggio. A 18 anni non avevo mai avuto una storia con nessun ragazzo. Mi era chiaro che quella era la mia strada, ma per imboccarla dovevo sentire che loro erano con me. I miei hanno meno di cinquant’anni, hanno viaggiato molto e, dato che mio padre è inglese, si sono confrontati con due culture differenti. Credo sia questo che li ha resi più pronti a capire la diversità.
Ma fare una dichiarazione del genere, scoprirsi e rivelare un aspetto così profondo di sé, è un momento di forte emozione, non puoi prevedere la reazione degli altri. E quella che mia madre ha avuto quando ho dichiarato a precipizio: “Devo dire una cosa, sono gay” mi ha sorpreso. Era sollevata! Finalmente aveva capito perché negli ultimi tempi ero stato così chiuso e così strano. Mi abbracciava e mi diceva che mi voleva bene, e io mi sono subito sentito euforico: ecco, adesso potevo iniziare una nuova vita, con il loro appoggio. Mia mamma deve aver passato un brutto quarto d’ora, ma non me l’ha mai dimostrato. Anche mio padre è stato unico: quella sera siamo usciti à bere una birra insieme. Quando siamo rientrati, mia madre era seduta in poltrona a leggere una vecchia rivista inglese. La pagina era aperta su un articolo come questo, dove Barbra Streisand parlava del rapporto con il figlio gay. E lì ho capito che tutto sarebbe andato bene’».
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«Ha pianto. Ma ora l’uomo che amo vive con noi
Salvo La Rosa, vive a Siracusa e studia all’università. La mamma Candida è insegnante alle scuole medie. «Dovevo dirglielo, ero stanco delle mezze verità. Mi ero fidanzato con un ragazzo di Parma, volevo trasferirmi da lui ma senza sotterfugi, volevo il loro appoggio. Così ho scritto una lettera. E un sabato, anziché andare a scuola, ho preso un treno e sono andato da un amico. Ho spento il cellulare.
Mia sorella, che sapeva tuffo, aveva il compito di consegnare la lettera ai nostri genitori. Non so come è andata. So solo che mia madre ha pianto e che mio padre si è chiuso in camera. Il mattino dopo ero nervoso: non volevo tornare, avevo paura di affrontarli. Invece alla stazione c’era mio padre. Ha chiesto di me, del mio ragazzo. Ero in un vortice di emozioni. Arrivati a casa, il panico. Mio padre mi ha spinto fuori dall’auto, mia madre è venuta verso di me, ci siamo abbracciati. Mi chiedeva se ero sicuro, dove aveva sbagliato, diceva che era colpa sua. Ho capito che erano loro ad avere bisogno di aiuto: ho spiegato che non c’era nessuna colpa, che ero felice e innamorato, che non scegli di essere omosessuale, Io sei e basta. C’è voluto un anno di discussioni, ma ora il mio ragazzo vive con noi, i suoi genitori non lo accettano. Hanno bisogno di tempo. Come tutti»
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Sigmund Freud la pensava così
«Il modo popolare di vedere l’istinto sessuale è rappresentato nella poetica leggenda che racconta della divisione degli esseri umani originari in due metà, l’uomo e la donna, e come queste tendessero sempre a riunirsi nell’amore. Ecco perché ci desta stupore sapere che ci sono uomini il cui oggetto sessuale è un uomo, e donne il cui oggetto sessuale è un’altra donna. Gli individui di questo tipo sono definiti come aventi delle “pulsioni sessuali contrarie” o meglio, come “invertiti”, e il fatto è indicato come “inversione”. (…) L’inversione fu in un primo momento considerata come il segno di una degenerazione nervosa congenita. Ciò dipese dal fatto che i medici osservavano il fenomeno su persone che soffrivano di disturbi nervosi (…). Un insieme difatti dimostrano che gli “invertiti” non possono essere considerati dei degenerati in quanto l’inversione si trova in individui che non mostrano altre gravi deviazioni dal normale (…)», da Tre saggi sulla teoria sessuale di Sigmund Freud, ed. Bollati Boringhieri.
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Indirizzi utili: Agedo, associazione di genitori, parenti e amici di omosessuali, www.agedo.org