Jessy, una rifugiata trans palestinese in fuga per la vita
Articolo di Aline Jaccottet pubblicato sul sito del Magazine 360° (Svizzera) il 23 marzo 2016, libera traduzione di Marco Galvagno
Nata in un campo profughi palestinese in Libano, Jessy è stata dichiarata di sesso maschile alla nascita. Esiliata in Svizzera lotta ogni istante per guadagnarsi il diritto di essere, ciò che è, cioè una donna.
“Nice to meet you” tende la mano con le unghie laccate di rosso, abbozza un sorriso e si tira un lungo pullover sulle spalle. Jessy è carina e stamattina è venuta all’appuntamento indossando una gonna, nonostante il freddo. La sua presenza attira gli sguardi e fioccano commenti cattivi, ma lei guarda con fierezza l’obiettivo, che immortala il suo atteggiamento sicuro in mezzo alla gente. Jessy ha scelto di vivere e non saranno certo alcune parole sarcastiche a fermarla. La ragazza dalla fragile silhouette è in piedi, viva e vegeta, nonostante abbia vissuto una storia inimmaginabile.
Ho sfiorato la morte
Questa storia comincia in Libano, in un campo di rifugiati nel quale marciscono alcuni palestinesi, che si trovano lì dal lontano 1948, anno della nascita dello stato d’Israele. Siamo nel 1991 e una famiglia accoglie con gioia e grande fierezza la nascita del secondo figlio maschio, che viene sempre preferito a una bimba. Questo bambino è Jessy. Gli anni passano. Un giorno quando ha cinque anni il padre la vede davanti allo specchio, mentre sta usando i trucchi della madre.
Prime botte, primi insulti, il calvario comincia per questo bambino, che in realtà non è maschio e la cui esistenza provoca odio e disgusto. Dato che Jessy è nata in una società patriarcale in cui le milizie armate fanno il bello e il cattivo tempo facendo leva sull’islam e sul nazionalismo palestinese.
In questo ambiente ultraconservatore subisce mille persecuzioni. Rinchiusa e torturata dalla famiglia, violentata e denudata in pubblico, picchiata a sangue numerose volte, Jessy sfiora la morte. Tenta di suicidarsi. E sopravvive pure ai tentativi di omicidio messi in atto dai propri famigliari, il fratello nonostante le sollecitazioni del padre non se la sente di ammazzarla e un’altra volta Jessy sfugge per un pelo al coltello del padre.
La presenza di questa donna dalla voce sottile è un vero e proprio miracolo. Un miracolo di volontà, ad essere esatti, dato che Jessy non ha rinunciato neppure un giorno alla speranza di diventare la donna che è. Nel campo profughi dalla nascita ha cercato di coltivare la propria femminilità contro tutto e tutti fino ad intraprendere da sola un trattamento ormonale, però sotto rigido controllo medico. .
Doppia Prova
Oltre alla sua transizione identitaria Jessy deve affrontare un’altra sfida: è palestinese in una società in cui i rifugiati, parcheggiati nei campi profughi, privi di diritti politici, vivono in estrema miseria e sono considerati cittadini di serie b. Certa che sarà l’istruzione a salvarla si aggrappa allo studio e ottiene il diploma di maturità, però verrà esclusa dalla cerimonia di consegna dei diploma. Jessy non avrà mai la pergamena redatta in bella calligrafia che di solito i genitori orgogliosi dei figli appendono in salotto. Ma non si ferma lì.
Si iscrive all’università, quando nella sua famiglia nessuno è mai andato nemmeno alle superiori. Jessy lotta per accedervi, lavora di notte per poter studiare di giorno, lei che è priva di mezzi, sogna di diventare infermiera. Il giorno X le porte dell’università le si chiudono davanti. Non c’è posto per lei nell’aula dell’esame di ammissione. Si reca al ministero dell’istruzione per denunciare il sopruso, ma viene cacciata. Ma la voglia di studiare è troppa, non si dà per vinta, s’iscrive a una seconda università e affronta l’odio e le vessazioni degli studenti, spalleggiati dai professori. Perde la borsa di studio che aveva ottenuto un anno prima del diploma. La famiglia non contenta di perseguitarla minaccia di consegnarla a un gruppo islamista.
Cacciata dagli islamisti del suo quartiere sente il soffio della morte più vicino che mai e fugge a Beirut. Lì comincia a balenarsi un’altra vita per lei: “Grazie ad associazioni LGBTQI come Proud Lebanon, Helem o Mosaic ho incontrato persone transgender rifugiati siriani e iracheni. Mi sono impegnata in campagne di prevenzione: ad esempio avvertendo che è pericoloso assumere ormoni femminili senza un controllo medico” spiega. E poi a Beirut ha incontrato l’amore, basta evocare il nome del suo fidanzato che il suo viso si illumina, anche se la distanza geografica mette a dura prova la relazione. “ Non mi basta essere una donna, ho bisogno di un uomo al mio fianco per essere completa”.
Purtroppo Beirut non può offrirle la nuova vita auspicata. È costretta a prostituirsi per sbarcare il lunario e subisce abusi e violenze. Convinta che la sua salvezza sia altrove, cerca asilo politico all’estero attraverso gli uffici dell’alto commissariato Onu per i rifugiati (HCR) e l’ufficio di soccorso e lavoro per i rifugiati palestinesi e medio orientali (UNRWA). Dopo varie settimane d’attesa viene a sapere che andrà in Svizzera. Il 27 novembre 2015 prima di prendere l’aereo telefona alla madre. “ Mamma vado in Svizzera, li sarò al sicuro”. Lei ha pianto e mi ha detto: « sarai sempre mio figlio».”
Qua mi sento viva
Il 27 novembre 2015 Jessy atterra all’aeroporto di Ginevra. “Scendendo dall’aereo ho sentito l’ossigeno tornarmi nel corpo” mormora lei. Un interprete marocchino mandato dalla Confederazione Elvetica la porta a Losanna dove dorme cinque notti in hotel. In seguito va a vivere in un centro per rifugiati, dove ha una camera tutta sua, anche se è costretta a incontrare gli altri che fanno commenti sarcastici e offensivi. Al contrario è rimasta molto colpita dalla gentilezza e dal rispetto nei suoi confronti delle autorità elvetiche. Mi hanno persino chiesto se preferivo essere chiamata signore o signora, vi rendete conto? Qua mi sento viva”.
A metà febbraio il suo desiderio di ottenere un appartamento individuale viene esaudito e le autorità glielo cercano nelle settimane successive. La battaglia di questa straordinaria donna- coraggio non è ancora finita. Jessy desidera comunicare agli altri l’energia che l ha sostenuta durante tutti questi anni.
Nel futuro spera di poter riprendere gli studi per difendere le persone transgender in Medio Oriente. “Incontrare dei militanti ha rappresentato una svolta nella mia vita e vorrei dare agli altri quello che ho ricevuto. Ho solo una cosa da dire a quelli che vivono nella mia condizione. Battetevi non tornate indietro. Non date retta agli altri. Siate forti- forti” conclude stringendo i pugni.
Una ricerca-azione
L’accoglienza delle persone come Jessy è una sfida complessa; anche perché le associazioni che si occupano di persone GLBTI e quelle per i rifugiati hanno pochi contatti tra loro, ciò rischia di aumentare la vulnerabilità di queste persone, già stigmatizzate.
Per porvi rimedio il coordinamento Asilege e la federazione ginevrina delle associazioni GLBTI conducono un’azione-ricerca sui bisogni delle persone GLBTI che chiedono asilo politico a Ginevra, il progetto è iniziato nel gennaio 2016 e si concluderà nel dicembre 2017. Si tratta di identificare le persone, di elaborare le azioni in loro favore e di sensibilizzare coloro che intervengono nella situazione. I promotori del progetto vogliono che i richiedenti asilo GLBT partecipino alla valutazione del progetto in corso. (…)
Testo originale: JESSY, RÉFUGIÉE TRANS