L’era trans gender. Dai tabù del passato al movimento queer
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Articolo di Marta Erba tratto da Focus Storia n.46 dell’agosto 2010, pp.64-70
Per millenni la regola è stata: maschi e femmine sono diversi e si devono distinguere. Ma nel secolo scorso quel confine si è assottigliato. Grazie anche ai divi del rock. “La donna non si metterà un indumento da uomo né l’uomo indosserà una veste da donna; perché chiunque fa tali cose è in abominio al Signore tuo Dio”.
Per secoli questa ingiunzione del Deuteronomio è stata la citazione preferita dei puritani che infierivano contro ogni forma di travestitismo, dagli spettacoli rinascimentali inglesi a quelli delle drag queen contemporanee.
Prima ancora che determinare la classe sociale di appartenenza, infatti, l’abbigliamento ha sempre fornito un’informazione fondamentale: questa persona è un maschio oppure una femmina.
Agli inizi del Novecento, però, l’imperativo biblico cominciò lentamente a perdere di senso. Per le strade giravano le prime donne in pantaloni né disdegnavano di comparire in pubblico vestite da uomo alcune vip, come la diva del cinema Greta Garbo, la pittrice Frida Kahlo o la cantante Josephine Baker.
Nel film Marocco (1930) l’attrice tedesca Marlene Dietrich, indossando un frac nero e un cappello a cilindro, si chinava a baciare una donna: era il primo bacio omosessuale della storia del cinema e la scena, pur facendo scandalo, piacque moltissimo a gran parte degli spettatori.
Tabù
Ma se, nel caso delle donne, l’adottare abiti maschili si confondeva con la battaglia politica per l’emancipazione, molto meno comprensibile – e socialmente accettabile – sembrava il fenomeno contrario. A coniare il termine “travestito” per definire l’uomo che ama assumere sembianze femminili con l’aiuto di vestiti e trucco fu per primo il medico tedesco (e omosessuale) Magnus Hirschfeld, a suo tempo definito “Einstein del sesso” per i suoi studi approfonditi nel campo.
Hirschfeld aveva osservato che il fenomeno del travestitismo non aveva molto a che fare con l’omosessualità. Anzi: a suo dire era più frequente tra gli eterosessuali. Né era chiaro il significato di quel fenomeno. Nella maggior parte dei casi, infatti, gli uomini che vestivano in abiti femminili (come le drag queen dell’epoca) esasperavano abiti e trucco: più che assomigliare a una donna, ne erano una parodia.
Effetti comici erano cercati anche dai primi travestiti cinematografici. Nella commedia di Billy Wilder A qualcuno piace caldo (1959), i due protagonisti si travestono da donne per entrare a far parte di un’orchestra femminile e sfuggire così a una gang malavitosa.
Tra le tante gag la più memorabile restò per tutti la scena finale, quando il miliardario Osgood, innamorato di “Dafne” (in realtà Jerry, l’attore Jack Lemmon), commenta la scoperta della sua virilità affermando candidamente che “Nessuno è perfetto”. Come dire: il fatto che sei uomo un po’ mi dispiace, ma in fondo è un dettaglio. La trovata era umoristica, ma era anche il segno di un cambiamento culturale in atto.
Divini rocker
Ad accorgersi che il travestimento e l’ambiguità sessuale colpivano l’immaginario collettivo fu soprattutto la scena pop-rock degli anni Settanta, anni in cui l’immagine dell’artista diventò importante quasi quanto la sua musica. Si truccava e si pittava le unghie, tra gli altri, Lou Reed, che nell’album Transformer (1972) e in particolare nella canzone Walk on the wild side (scritta sotto l’influenza dell’artista pop Andy Warhol) toccò il tema tabù della transessualità (la canzone venne infatti censurata in alcuni Paesi).
Negli stessi anni il cantanteDavid Bowie apparve sulla copertina dell’album The man who sold the world (1970) vestito da donna e giocò ancora di più con il suo naturale aspetto andrògino in seguito, vestendo i panni dell’alieno Ziggy Stardust.
Erano i primi esempi del cosiddetto “glam-rock”, quando gli artisti si divertivano a indossare abiti vistosi, lustrini e paillettes: lo fecero, tra gli altri, Freddie Mercury, Boy George e il nostro Renato Zero.
A sdoganare definitivamente il travestitismo fu però un musical del 1973, diretto da Richard O’Brien e portato sul grande schermo nel 1975, dove divenne presto film di culto col titolo: The Rocky Horror Picture Show. La storia era quella di una coppietta tradizionale, Brad e Janet, che finiva in un castello popolato da strani individui capitanati da uno scienziato travestito. Il personaggio chiave era proprio lui, Frank-N-Furter, un Tim Curry in bustino di pizzo, giarrettiere, trucco vistoso e tacchi a spillo.
Frank-N-Furter affascinava perché appariva superiore a ogni stereotipo di genere, ma non perché fosse privo di sesso come gli angeli: al contrario era donna e uomo all’ennesima potenza, contemporaneamente macho e civettuolo, aggressivo e ammiccante, erotomane e sentimentale.
Il messaggio del musical è reso esplicito in una delle canzoni: “Don’t dream it, be it” (“Non sognatelo, siatelo”). Perché limitarsi a desiderare quando si può essere ciò che si vuole, in barba ai codici imposti dal genere di appartenenza?
Lo stesso concetto è stato ripreso una ventina d’anni dopo dal regista Pedro Almodóvar per bocca di uno dei suoi personaggi più bizzarri, la transessuale Agrado del film Tutto su mia madre: “Una persona è più autentica quanto più assomiglia all’idea che ha di se stessa”.
Sesso e potere
Nel frattempo anche tra i filosofi si era fatta strada l’idea che le regole imposte sulla sessualità fossero limitanti. Il francese Michel Foucault, nella sua Storia della sessualità (1976), sosteneva che la “scienza sessuale” è un dispositivo del potere per controllare gli individui. Come? Attraverso il linguaggio, costruendo stereotipi di genere, definendo ciò che è normale e ciò che è patologico o perverso.
Nel 1990 Judith Butler, filosofa dell’Università di Berkeley (Usa), si spinse oltre: il sesso è un prodotto culturale e linguistico, è la società a determinare quali possibilità di genere sono coerenti e naturali.
Erano i primi passi della “teoria queer” (in inglese, “insolito”) e del movimento transgender, «parola in cui il prefisso “trans” non indica tanto il passaggio da un genere all’altro, quanto il superamento del dualismo uomo-donna» sottolinea Flavia Monceri, docente di Filosofia politica all’Università del Molise.
Per la teoria queer, le categorie dell’orientamento sessuale (eterosessuale o omosessuale), di sesso (maschio o femmina) e di genere (uomo o donna) sono forzature, perché ogni individuo fa storia a sé.
«Lo dimostrerebbero anche i casi di intersessualità in cui si imbattono i medici, quelli cioè in cui assegnare al nuovo nato un fiocco rosa o azzurro non è così semplice» osserva la Monceri.
«Tant’è che poi la decisione – necessaria per registrare il nuovo nato – è spesso opinabile o anche condizionata dai desideri dei genitori». Insomma, tra i due sessi non sempre c’è una separazione netta. Ma il cambiamento prospettato dal movimento queer ha davanti a sé molti ostacoli.
Uno su tutti: negli uffici anagrafe (e non solo) le voci “maschio” e femmina” sono obbligatorie da sempre. Nel frattempo, i primi a essere stati influenzati da queste visioni futuribili sono stati proprio i transessuali.
«In Italia vige ancora la legge 164 del 1982, secondo cui per cambiare sesso sulla carta d’identità è necessario operarsi» dice Roberto Vitelli, psichiatra all’Università di Napoli. «Ma benché gli studi dimostrino che, con la chirurgia, i casi di suicidio diminuiscono, oggi alcuni transessuali si dichiarano pentiti di aver optato per una scelta così radicale».
Perché, si chiedono, affrontare un iter chirurgico lungo, doloroso e non esente da rischi se un giorno si potrà fare a meno dell’etichetta “maschio” o “femmina”?