Il viaggio per la vita di un richiedente asilo gay?
Articolo di Christophe Martet pubblicato sul sito Yagg (Francia) il 2 novembre 2016, liberamente tradotto da Marco Galvagno
Qual’è il viaggio di un richiedente asilo gay? Il sito Yagg ha raccolto la testimonianza di un giovane senegalese di ventisei anni che aspetta di sapere se la Francia gli concederà l’asilo politico. Ho incontrato Mamadou, durante una serata organizzata da Ardhis, un’associazione che si occupa dei richiedenti asilo politico di entrambi i sessi e di coppie miste (binazionali). Lui è un richiedente asilo, mi spiega che vive per strada da vari mesi. Tra i centinaia di richiedenti asilo che spingono ogni anno la porta del centro GLBT ho scelto di raccontarvi la sua storia, quella di un giovane coraggioso e sorridente, una storia di omofobia, di una fuga per sopravvivere, poi di un’odissea attraverso l’Africa prima di arrivare a Parigi per chiedere protezione umanitaria alla Francia.
Mamadou è nato nel 1990 nel sud est del Senegal, a Tambacouda, una cittadina di ottantamila abitanti dal clima desertico. Parla wolof e a causa dei suoi tanti spostamenti, il suo francese è ancora un po’incerto. Da piccolo è stato cresciuto dalla nonna, perché i suoi genitori sono morti prima che compisse cinque anni, il suo patrigno vive con i suoi fratellastri due figli e una figlia in un altro quartiere. Da adolescente amava giocare a basket, accompagnava spesso la nonna al mercato per aiutarla a fare la spesa.
Da quando aveva dodici o tredici anni ha iniziato ad andare nel bosco con i suoi amici. Facevano il bagno nei piccoli laghetti che si erano formati nei buchi del terreno lasciati dalle scavatrici che estraevano sabbia per l’edilizia. “Ho cominciato lì a far l’amore con gli amici del mio quartiere. Ma a quell’epoca non si conosceva l’omosessualità. Comunque dovevamo nasconderci per fare l’amore”.
Spesso gli amici del quartiere gli facevano domande del tipo “Perché non hai la ragazza?” E lui rispondeva scherzando “Non sono ancora pronto per le ragazze…le ragazze vanno bene dopo. Non dovevo dire che non lo volevo andare con le ragazze, perché avrebbero diffuso la voce che ero gay”.
Nel 2008, verso i 18 anni Mamadou incontra Djibril. Lo descrive come un ragazzo più giovane e più piccolo di lui, ma aggiunge che era più muscoloso e con la carnagione più scura. A volte si vedevano spesso, altre volte meno perché Djibril doveva andare a lavorare con suo padre.
“Io ero fedele, ma penso che lui facesse l’amore anche con altri ragazzi”. Per Mamadou non è facile tradurre in francese i sentimenti che prova per Djibril. Credo di capire che la cosa più importante fosse la loro complicità. Portavano dei materassi per dormire insieme all’aperto.
A Mamadou scappa da ridere quando ricorda le belle serate trascorse con il suo ragazzo, in cui parlavano per ore ed ore. Sono stati insieme per quattro anni fino al 2012. Poi tutto è crollato nella primavera di quel anno.
Spesso Mamadou andava a dormire da Djibril, ma un giorno suo fratello, che spesso dormiva fuori casa li sorprende nello stesso letto. “Si è messo a urlare «allora è questo che fate»”. Sono scappato dalla finestra. Avevo addosso solo dei pantaloncini. Sono andato in un altro quartiere a trovare un amico gli ho raccontato che ero andato nel bosco e che i miei vestiti si erano inzuppati con la pioggia e gli ho chiesto di darmi una maglietta e dei pantaloni.
Poi sono tornato a casa per prendere le mie cose, ma mentre ci stavo andando ho sentito delle persone che parlavano male di me. Stavo andando via e ho incontrato mio zio in bici che era venuto a prendermi per picchiarmi. Nel frattempo sono arrivati anche i miei due fratelli e la rissa è iniziata. Sono riuscito a svignarmela. Ho corso e corso, poi ho camminato fino ad un altro quartiere dove sapevo che non avrebbero potuto trovarmi”.
Se torno nel mio quartiere mi ammazzano
Nel nuovo quartiere incontra un gruppo di Baye Fall, musulmani che vivono di assistenza pubblica e vanno a cantare nelle case . Mamadou spiega loro che non ha niente da mangiare e loro lo aiutano per qualche giorno, ma decide di lasciare il Senegal. “Se torno nel mio quartiere so che qualcuno mi ammazzerà”.
Cammina fino a un posto di blocco fuori da Tambacouda. “Ho contrattato con un camionista, al quale ho detto che vivevo a Bamako in Mali. Mi ha detto che andava a Kayes, che si trova a 280 kilometri da Tambacouda, sulla strada che attraversa il Senegal da ovest a est e poi prosegue fino a Bamako in Mali.
Mamadou non voleva restare in Mali, che dal 2012 vive una situazione di grande instabilità, dato che i combattimenti tra ribelli e esercito regolare imperversavano. È avvenuto un colpo di stato nel marzo del 2012 e la regione di Azawad, nel nord del paese, ha proclamato la propria indipendenza, facendo sprofondare il paese in una crisi senza precedenti.
Da Kayes il camionista gli trova un suo collega che lo porta fino a Bamako dove il ragazzo resta due settimane. “Ho iniziato a cercare un posto dove abitare. Dicevo alle persone che facevo l’imbianchino, ma molti avevano paura. Ho chiesto qualcosa da mangiare, ma era dura”.
Mamadou non si sente al sicuro. Parlando bambara riesce a farsi capire, si reca negli uffici di una società di autobus e prende un bus per Agadez in Niger. Il viaggio dura vari giorni, ma una volta arrivato anche lì non si sente al sicuro, ovviamente non conosce nessuno. Gli presentano un senegalese: “Mi dava da mangiare, sono restato un mese durante il quale ho lavorato con i suoi figli”. Bisogna che Mamadou esca dal paese, ma non può andare in Ciad che giudica ancor più pericoloso, né in Nigeria che è un paese anglofono.
Parte per la Libia nascosto in un camion con decine di altre persone. La polvere li ricopre alla svelta, di notte si gela. Secondo lui il viaggio sarà durato tre giorni fino a Quatrum un paesino di 4500 abitanti, in mezzo al deserto del Sahara. È un punto di controllo per gli stranieri che entrano in Libia.
I segni delle percosse
Senza soldi è confinato in mezzo al deserto. Viene regolarmente malmenato e porta ancora in testa i segni delle percosse. “Picchiavano la gente continuamente” . I carcerieri chiedevano che le famiglie dei prigionieri mandassero soldi, ma Mamadou non poteva certo avvisare la sua. I prigionieri del Gambia, nigeriani e somali mangiavano solo un po’ di pasta due volte al giorno, un po’ di pane e bevevano un po’ di coca cola. Dimagriva a vista d’occhio ed era sfinito. La cella misura venti metri quadrati e i prigionieri erano ammassati come sardine. Non c’era nemmeno una doccia. Alcuni cercavano di scappare.
Mamadou afferma d’aver visto i carcerieri sparare addosso ai fuggiaschi di punto in bianco. “Non avevo mai visto qualcosa di simile prima”. Imita ancora i gesti e i suoni della detonazione, poi la sua voce è rotta dal pianto, il ricordo ancora vivo è insopportabile. Pensa di essere rimasto un anno a Quatrum, confinato in quel buco sperduto in mezzo al deserto, senza soldi, né contatti.
Poi un bel giorno è arrivato un uomo alla prigione chiedendo se qualcuno faceva l’imbianchino. Mamadou alza la mano e l’uomo lo porta a lavorare a casa sua. Non lo paga, ma dopo due mesi lo mette in contatto con uomo che lo porta a Tripoli, la capitale della Libia. Incontra un suo connazionale che gli propone di non fargli pagare la traversata se trova quattro passeggeri a pagamento. “ Destinazione? Lampedusa”. “ La Libia non è un bel posto da vivere, mi hanno preso tutto: i soldi, il cellulare. Non potevo rimanere lì.”
Secondo lui circa cento persone erano stipate nell’imbarcazione di fortuna, un gommone di trenta metri quadrati. C’erano molte persone del Mali, del Gambia e somali, anche tre donne. La traversata è durata circa tre giorni. Poi è stato trasferito in un centro d’accoglienza temporanea che si trova in Via Tunisi a Trapani. Gli chiedo di mostrarmelo su Google earth. “Non avevo né famiglia, ne amici, ero rinchiuso in un centro. Ero talmente stanco e avevo paura di tutto.”
Sulla spiaggia di Trapani vicino al centro ha incontrato un signore italiano sulla sessantina. Si vedevano spesso. Mamadou andava spesso a dormire a casa di G. “Ma non avevo lavoro, mi sentivo inutile . So che a un certo momento G. avrebbe voluto stare da solo. La situazione non andava bene per me. Poi nel centro iniziavano a dire che ero gay.”
Chiede asilo politico in Italia, ma pensa di non aver motivato abbastanza bene la sua domanda, a causa della stanchezza. La richiesta viene respinta, fa ricorso, ma anche questo ha esito negativo.
Lascia Trapani alla fine di settembre del 2015 e arriva alla gare de Lyon a Parigi all’inizio di ottobre. Chiede alla gente dove può andare a dormire, un ragazzo del Mali lo accompagna al centro Jaurès. “Ci ho dormito per un mese e mezzo”. Poi incontra un senegalese che lo iscrive al 115 (programma di accoglienza immediata per le persone senza fissa dimora). “Dormivo in una residenza, ma bisognava telefonare presto alle 5 del mattino per prenotare la notte successiva , a volte mi svegliavo alle sette e chiamavo, a volte andava bene lo stesso, ma spesso no, così dormivo all’aperto. “È durato circa quattro mesi”.
La sua richiesta di asilo politico è stata registrata alla prefettura di Parigi solo il 4 marzo del 2016. A partire dal mese di aprile ha cominciato a ricevere l’indennità per i richiedenti asilo. Sono sei euro e ottanta al giorno, ai quali ne aggiungono altri quattro se alla persona non viene dato un luogo dove dormire. Sono circa 330 euro al mese con cui la persona dovrebbe pagarsi vitto, alloggio e indumenti.
La primavera scorsa è andato in una residenza vicina all’ospedale di Nanterre dove pagava cento euro al mese. “Dopo qualche tempo me ne sono andato, però, gli altri parlavano male di me mi chiamavano “ gordijguene, cioè gay in wolof”.
Mamadou è stato accolto all’OFPRA il 27 luglio di quest’anno. L’ufficio francese di protezione dei rifugiati e degli apolidi gli chiede di raccontare la sua storia, come l’ha redatta qualche settimana prima all’organizzazione France terre d’Asile. È raccontando la sua storia a Médecins du Monde che è venuto a sapere che esiste l’associazione Ardhis, ma non ha avuto molto tempo per parlare con gli operatori dell’associazione per preparare l’intervista in cui chiede asilo politico.
Durante il colloquio all’OFPRA è stato assistito da un traduttore senegalese, ma aveva paura e pensava che quest’ultimo avrebbe potuto denunciarlo. Timore infondato dato che gli interpreti e i traduttori non conoscono nemmeno l’identità delle persone.
La sua domanda è stata respinta, dato che il suo racconto non è stato giudicato credibile. Ha fatto ricorso alla corte nazionale per il diritto d’asilo. Durante l’intervista a fine ottobre non sapeva ancora la data del colloquio.
Questa estate ha dormito per strada a Belleville ed è andato a mangiare dalle suore della Caritas a Parmentier o alla Villette. “La strada è pericolosa, non dormo bene. Ci sono le macchine e i camion. Al centro Jaures mi avevano rubato il cellulare”.
Mamadou ha un ‘unica speranza: quella di poter restare in Francia. “Il padre di Djibril è molto religioso e i suoi fratelli mi ammazzerebbero. Penso spesso a lui. Ma oggi voglio dimenticarmi tutto, lasciarmi tutto alle spalle. Aspetto che mi diano i documenti per rimanere qui per sempre. È l’unica cosa che penso alla mattina quando mi sveglio”.
In questi ultimi anni in Senegal la stampa ha lanciato varie campagne omofobe e diversi gay sono stati arrestati. Da quando è scappato dal Senegal Mamadou non ha più notizie del suo Djibril.
* I nomi dei protagonisti nominati in questa intervista sono stati cambiati.
TYesto originale: Mamadou: «Je ne peux pas retourner au Sénégal, on me tuerait!»