Cristiani Lgbt, ecco la mappa dell’accoglienza nella chiesa cattolica
Articolo del gesuita padre Giuseppe Piva* pubblicato su Noi famiglia & Vita, supplemento di Avvenire, del novembre 2016, pp.16-17
Da qualche tempo in ambito ecclesiale si parla con sempre più frequenza delle persone Lgbt (Lesbiche, gay, bisessuali e transgender) credenti. Pur in modo riservato, questa realtà cristiana si sta rivelando viva e propositiva nel panorama pastorale del nostro Paese.
Il fatto che per molto tempo questa parte del popolo di Dio sia rimasta invisibile e senza voce nelle comunità ecclesiali, le ha permesso di sviluppare un particolare senso di identità credente, pur sofferto e per questo forte, che ora si manifesta in tutta la sua dinamicità, pur tra tensioni e qualche incomprensione.
Nelle comunità cristiane ormai cominciano a presentarsi persone e coppie – a volte con figli – che convivono fedelmente da oltre 10-20 anni e mostrano un’immagine inedita e finora sconosciuta della vita delle persone omosessuali, compreso il loro desiderio di integrazione ecclesiale. Si è cominciato a parlare in modo ufficiale di pastorale delle persone omosessuali trent’anni fa con la “Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali” della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1986, che definiva la questione in termini di”problema pastorale” (“Homosexualitatis problema“) a causa delle gravi implicazioni di morale sessuale.
Una attenzione pastorale quindi che, pur nella bontà delle intenzioni, prevalentemente sottolineava le difficoltà dell’accoglienza e indicava precauzioni; tra queste, il divieto di dare qualsiasi tipo di appoggio (celebrazioni religiose, uso di edifici appartenenti alla Chiesa, ecc.) a quei gruppi che non aderissero completamente ed esplicitamente alla dottrina della Chiesa in materia di morale sessuale. Nel tempo, con il Catechismo della Chiesa Cattolica (1997), i toni sono diventati meno difensivi e l’atteggiamento più pastorale.
Interessante notare, ad esempio, come l’espressione “ingiusta discriminazione” nella Lettera del 1986 venisse intesa polemicamente come un pretesto del mondo omosessuale per poter giustificare le proprie pretese; mentre nel Catechismo questa espressione indica una reale minaccia per la dignità e l’integrità delle persone omosessuali, e la Chiesa vuole evitarla e contrastarla.
Le prime esperienze di condivisione e accompagnamento delle persone omosessuali in Italia risalgono agli anni ’80 per iniziativa di persone Lgbt che decisero di chiedere aiuto anche ad alcuni sacerdoti di frontiera a Torino e a Milano. Il gruppo milanese del Guado, per esempio, ha ormai 36 anni di vita. Contando solo le realtà attualmente ancora attive, sempre negli anni ’80 comincia il gruppo di Bologna in Cammino, e quello di Vicenza. Tra la fine degli anni ’80, e l’inizio degli anni ’90 nascono realtà maggiormente visibili e interattive con il contesto ecclesiale: Nuova Proposta di Roma (1986) che, pur non avendo mai avuto accoglienza in una parrocchia (si incontra infatti nei locali della comunità Valdese), almeno ai suoi inizi ebbe una feconda interazione con i vescovi ausiliari Riva e Apicella; i Fratelli dell’Elpís (1990) di Catania, con la convinta disponibilità di padre Gliozzo, sono inseriti stabilmente nella parrocchia del Crocifisso della Buona Morte. E poi il gruppo Narciso e Boccadoro di Rimini. E a Padova, in parrocchia, il gruppo Emmanuele.
Altri gruppi a Milano, Roma, Parma e Cremona, ospitati in ambienti ecclesiali, mantengono una forte riservatezza. Dall’anno 2000, iniziano Pinerolo, Brescia con il Mosaico, Bergamo, e Firenze con il gruppo Kairós molto attivo e presente nel contesto sociale ed ecclesiale, soprattutto nella parrocchia della Madonna della Tosse. Nel 2003 è la volta di Ponti Sospesi a Napoli, non radicato in una parrocchia ma presente in vari contesti ecclesiali non solo cattolici; a Palermo dal 2008, Ali d’Aquila, accolto nella chiesa San Francesco Saverio da padre Scordato. A Genova il gruppo Bethel, ora assistito da un diacono; a Trieste Progetto Ruah, realtà giovane e in crescita; a Cuneo, grazie ad una mamma che si è rivolta al suo vescovo; in una parrocchia a Bisceglie il gruppo Nicodemo; e infine a Vigevano l’Albero di Zaccheo che, grazie all’accoglienza del vescovo, si incontra in una struttura della diocesi ed è accompagnato da un sacerdote.
Una grande novità sono i gruppi di genitori credenti di persone Lgbt, come alcuni dell’Agedo (associazione di genitori, parenti e amici di omosessuali) e il gruppo Davide di Parma che, in contatto con il vescovo Enrico Solmi, aiuta genitori di persone omosessuali ad essere nuovamente madri e padri nell’accoglienza e nell’accompagnamento dei loro figli. Tutte queste esperienze, pur riconoscendosi nella tradizione cattolica, sentono di non poter considerare la vita affettiva delle persone Lgbt come un problema da risolvere con l’astinenza sessuale, ma chiedono alla Chiesa una riflessione più profonda sul significato della sessualità in genere, omosessuale in particolare.
Per tale motivo, anche a partire dalle indicazioni della Lettera del 1986, la disponibilità dei pastori si manifesta in modi molto diversi, che vanno dalla chiusura, all’accoglienza condizionata; dalla semplice e segreta ospitalità nelle strutture religiose, alla accoglienza esplicita in parrocchia compresa la partecipazione al consiglio pastorale; fino a un incarico da parte del vescovo di un responsabile della pastorale per le persone Lgbt come a Torino: l’arcivescovo Cesare Nosiglia ha ufficialmente incaricato don Carrega per la pastorale delle persone omosessuali, e tra quelle diocesane figura anche l’iniziativa Alla Luce del Sole, cioè incontri di formazione spirituale rivolti a persone omosessuali, ai loro familiari e operatori pastorali del settore. Oppure, a Catania, il Convegno “Omosessualità: dall’accoglienza al riconoscimento?” organizzato nel 2015 dai Fratelli dell’Elpís, con la presenza, tra i relatori, dell’arcivescovo di Catania, Salvatore Gristina, e del vescovo di Piazza Armerina, Rosario Gisana.
Ma dobbiamo ricordare anche altre esperienze che invece preferiscono non chiedere alla Chiesa un diverso atteggiamento nei confronti della condizione omosessuale. Così da qualche anno si stanno affacciando in Italia anche gruppi per persone che preferiscono definirsi con tendenza omosessuale (non riconoscono questo orientamento come parte dell’identità personale); nello stile dei gruppi di auto mutuo aiuto, intendono accompagnare il disagio esistenziale di chi riconosce in sé questa tendenza.
Per questi gruppi il disagio non è motivato dallo stigma sociale che colpisce da sempre la condizione omosessuale, ma dalla tendenza stessa che, intesa come innaturale, allontanerebbe la persona dalla sua autentica natura eterosessuale. Questi gruppi, assumendo in senso forte l’affermazione dottrinale che parla di «inclinazione oggettivamente disordinata», tendono a tradurla anche in altri ambiti antropologici, compreso quello psicologico. Si inquadrano in questa scelta i vari percorsi terapeutici sui quali il giudizio non è unanime, anzi suscita forti perplessità.
Per altro verso, si sta affermando anche in Italia l’esperienza statunitense di Courage, nata nel 1980 per iniziativa dell’arcivescovo di New York e appoggiata dall’ex Pontificio Consiglio per la Famiglia. Gli incontri di questo gruppo si rifanno al metodo dei dodici passi degli alcolisti anonimi; la tendenza omosessuale in questo caso viene considerata tout court una dipendenza il cui rimedio – nella preghiera – è l’astinenza sessuale (il Catechismo parla di “castità”). In Italia questa esperienza è ospitata in alcune diocesi: Roma, Reggio Emilia, Torino e Altamura, ed è caratterizzata da una estrema riservatezza. Nel 2015 a Roma il convegno internazionale “Living the Truth in Love“, tra i relatori anche i cardinali Sarah e Pell.
Comunque, al di là di tutto, dobbiamo ammettere che un significativo indicatore della serenità delle Chiese locali nell’accogliere la pur complessa realtà dei gruppi cristiani Lgbt, è la possibilità che venga loro concesso o meno di svolgere in una chiesa parrocchiale l’annuale veglia di preghiera per le vittime di ogni forma di omofobia, non solo del contesto italiano, ma soprattutto di quei Paesi dove le persone omosessuali sono incarcerate o addirittura condannate a morte.
A causa ancora della Lettera del 1986 alcuni vescovi temono un uso ideologico – che pure talvolta non è mancato anche in alcune proposte politiche – del termine omofobia. Altri scelgono altri accenti, come l’arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, che nel giugno scorso ha impegnato la sua Chiesa contro ogni forma di discriminazione, esplicitamente compresa l’omofobia.
I cristiani Lgbt italiani hanno accompagnato l’ultimo processo sinodale con una conferenza internazionale teologica, prima, e pastorale, poi, a Roma; e hanno inviato ai padri sinodali un documento di proposte.
Nell’aprile scorso il Forum nazionale dei cristiani Lgbt si è riunito ad Albano Laziale; oltre alla partecipazione di 150 e più tra persone Lgbt, genitori e operatori pastorali, ha visto anche la visita del vescovo diocesano, Marcello Semeraro.
Dal documento finale del Forum un importante messaggio: i credenti Lgbt ringraziano la Chiesa per le attenzioni pastorali che ha saputo rivolgere “per” le persone omosessuali, ma sentono che è giunto il momento che la pastorale sia piuttosto “con” le persone omosessuali, integrate cioè nelle dinamiche pastorali ecclesiali, in modo da permettere loro di poter raccontare la vita e, soprattutto, la fede.
Da anni il sito web https://www.gionata.org svolge un servizio di coordinamento delle attività dei gruppi in Italia; mentre l’associazione di cristiani Lgbt Cammini di Speranza, http://camminidisperanza.org, è la prima a carattere nazionale, in rete con analoghe associazioni a livello europeo e mondiale.
* Padre Giuseppe Piva è coordinatore nazionale per i Gesuiti degli Esercizi ignaziani.