Rispettare anzitutto la persona. Ma se poi quella persona non conta?
Riflessioni del pastore Peter Ciaccio* pubblicate sul sito del settimanale evangelico Riforma il 17 giugno 2016
“Anzitutto una persona. Ma quella persona non conta“. Questo è quello che qualcuno ha detto sulle vittime della strage di Orlando e questo è quello che molti hanno detto di Jo Cox, la parlamentare britannica uccisa ieri nei pressi di Leeds. Ed è quello che dice chi è contrario all’espressione “femminicidio” ogni volta che un uomo uccide una donna, spesso brutalmente.
Purtroppo non è così. Dico “purtroppo” perché sarebbe bello che tutti fossimo considerati e considerate “persone”, con dei ruoli, delle relazioni, delle responsabilità, certo, ma anzitutto delle “persone”. Non è questa, però, la realtà. È un desiderio, condiviso certamente da chi ha fondato le democrazie moderne, dove la persona è privilegiata rispetto alle distinzioni.
Ci limitiamo a due citazioni. «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali», recita l’art.3 della Costituzione italiana. «[Nessuno Stato] potrà privare qualsiasi persona della vita, della libertà o della proprietà senza un processo nelle dovute forme di legge; né negare a qualsiasi persona sotto la sua giurisdizione l’eguale protezione delle leggi», recita il XIV emendamento della Costituzione americana.
I 49 morti di Orlando non sono state uccisi in quanto “persone”. Sono stati ridotti da persone a simboli, da soggetti a oggetti. Erano 49 gay e lesbiche, anzi 49 che non si chiudevano in casa, ma che osavano andare in una discoteca LGBT. E poco importa che magari tra loro non fossero tutti omosessuali, ma che ci fosse qualche amico o amica etero che non aveva problemi ad andare a ballare lì. La persona non conta. Conta il simbolo, l’oggetto. E l’oggetto si tiene in mano, si possiede e quando non lo si vuole più si butta, si distrugge.
Jo Cox non è stata uccisa in quanto “persona”. Chi l’ha uccisa non ha pensato di rendere orfani due bambini di 3 e 5 anni. È stata uccisa perché anche lei oggettificata. Non era più Jo Cox: era una donna, era della “casta” dei parlamentari, era a favore dell’Unione Europea o chissà cos’altro. Jo Cox era qualunque “cosa”, ma, agli occhi di chi l’ha uccisa, certamente non una persona.
L’oggetto, il simbolo, la cosa. Come il terrorismo nostrano: nel 1977 Carlo Casalegno fu “preferito” a Ezio Mauro dalle BR, perché più noto, più simbolo e più facile da colpire. Anche in questo caso la persona non c’entra. Chi se ne frega se era stato un partigiano o se aveva una famiglia.
E anche i contrari all’espressione “femminicidio” dovrebbero riflettere sul vero senso della parola. Non basta uccidere una donna per avere un femminicidio. Ma lo è se si uccide la donna che mi appartiene o che non mi appartiene più. “Mi appartiene”, come un’automobile, una casa, un paio di calzini. Come una cosa.
Chi fa cultura dovrebbe riflettere su questo. Le chiese, i pastori, come le moschee e gli imam, dovrebbero riflettere sulle conseguenze dell’oggettificazione. Dovrebbero farlo non solo per costruire un mondo più giusto, con meno sofferenza, meno lacrime: dovrebbero farlo per coerenza con la propria dottrina. Il Dio di Abramo è un Dio di cui non conosciamo il nome. È un Dio che non vuole essere ridotto a idolo, perché non è un oggetto che si può possedere. Testimoniare il falso, parlare di “omosessualismo”, di “propaganda omosessuale”, diffondere bufale da un pulpito. Non sono solo parole, ma sono parole che uccidono, perché riducono la persona a oggetto. E se butto un paio di pantaloni o la penna che non mi serve più, perché non posso eliminare quello lì che è sbagliato, che non dovrebbe esistere, che mette in discussione le mie certezze — anch’esse oggettificate, anch’esse “mie”.
E se uno spara a 49 uomini e donne dicendo che «Dio è il più grande!» e un altro spara a una donna dicendo «Prima la Gran Bretagna!», forse la politica laica dovrebbe porsi le stesse domande che inquietano le religioni. Non è la fede in generale né una fede in particolare a ridurre le persone a oggetti di cui disfarsi con l’orgoglio con cui si mette in ordine una stanza eliminando le cianfrusaglie. È l’essere umano. È quell’essere umano che ha inventato il motto «Business is business», tradotto col calco «Gli affari sono affari», ma che invece renderei con «Niente di personale».
Chi fa cultura, chi propone analisi della realtà, si tratti di religioni o movimenti politici, di professori o gente di spettacolo, deve prendere coscienza della propria responsabilità: ogni volta che si riduce una persona a cosa, la si rende un bersaglio. E c’è sempre qualcuno, col dito sul grilletto e la sicura tolta, pronto a sparare.
* Peter Ciaccio è pastore presso la chiesa valdese di Palermo