Essere lesbiche in Senegal. Senza un posto dove poter essere se stesse
Articolo di Sarah Elzas* pubblicato sul sito di USA Today (USA) il 4 agosto 2017, libera traduzione di Silvia Lanzi
Non è semplice essere lesbiche in Senegal dove l’omosessualità è illegale, sebbene vi siano piccoli gruppi per i diritti LGBT. Ma, dal momento che sono stati fondati durante la crisi dell’AIDS, per combattere l’infezione dell’HIV, si occupano prevalentemente di uomini. Le lesbiche stanno iniziando ora la battaglia per il riconoscimento in una cultura che le rifiuta e in un mondo di attivisti che le esclude.
Nella capitale, Dakar, non ci sono club apertamente gay e ci sono pochissimi luoghi in cui le persone omosessuali possono passare tempo insieme sentendosi al sicuro – e questo è il motivo per cui gli attivisti gay organizzano degli incontri, come lo workshop ospitato da Sourire de Femme (Sorriso di Donna), l’unico gruppo attivista lesbico del paese.
Recentemente, in un piccolo hotel a un paio d’ore di viaggio a sud di Dakar, un gruppo di donne ha passato due giorni insieme lavorando e rilassandosi. “Qui facciamo quello che ci pare. Siamo libere” dice una donna guardando un gruppetto di altre giocare a biliardo dopo pranzo. Come tutti i gay e le lesbiche intervistate per questo articolo, anche lei, per precauzione, ci ha chiesto di restare anonima. Noi la chiameremo Nash. “Siamo davvero felici di stare insieme” aggiunge Nash a proposito del workshop. “Vorremmo che succedesse ogni weekend”.
In Senegal, i comportamenti omosessuali sono punibili fino a cinque anni di carcere. Il paese è a prevalenza musulmano, e gli imam tuonano periodicamente contro l’omosessualità. L’atteggiamento nei confronti delle persone gay è oltremodo negativo. Così la ventisettenne Nash, deve stare in guardia. Oggi indossa dei jeans e una camicia button-down ed è pettinata in modo molto femminile. Ma le piacerebbe vestirsi diversamente. Se potesse “si vestirebbe tutto il tempo da maschio: giacca, cravatta e dreadlocks”.
Nash ha studiato legge ma, siccome non ha ancora trovato lavoro, non può andare a vivere da sola. Così vive con la sua famiglia, che la aiuta economicamente. Dal momento che vive con altre dodici persone, per poter incontrare la sua ragazza deve trovare un posto più apparto. “Per farlo dobbiamo pensarci due o tre mesi prima. A volte un amico ci presta la sua camera per un giorno, altre affittiamo un appartamento. Ma non siamo sicure al 100%“.
La maggior preoccupazione per gli omosessuali senegalesi, donne e uomini, è di essere scoperti e cacciati di casa. Djamil Bangoura, fondatore di Prudence, la più vecchia organizzazione LGBT, dice che aiuta qualcuno in questa situazione praticamente ogni settimana. Recentemente, un pomeriggio, ha incontrato un ragazzo che aveva bisogno di una mano.
“Ho invitato u ragazzo a casa mia alle 10″ spiega un ragazzo. Ma suo fratello, che l’aveva scoperto, aveva avvisato tutta la famiglia”. “Allora mio padre mi ha detto di andarmene. Non avevo nessun posto dove andare. Dormo per strada“. Anche se, ufficialmente, Prudence non si occupa di questo (il suo obiettivo principale infatti è quello di curare gli uomini con l’HIV), Bangoura dice di avergli trovato un posto sicuro dove stare.
Nei primi anni 2000 in Senegal, dopo l’inizio della crisi dell’AIDS, i gruppi di salute pubblica hanno notato che, mentre facevano progressi con la diminuzione dei casi di infezione da HIV (nel 2015, meno dell’1% per gli adulti tra i 15 e i 49 anni), tra gli uomini gay essi rimanevano alti. Anche oggi sono appena inferiori al 20%. Così hanno cercato persone omosessuali come Bangoura.
“In quel momento avevano bisogno dell’aiuto delle persone gay” dice Bangoura. “Volevamo un effetto-valanga”. Lui si rese disponibile e ne reclutò altri. “Volevamo che i gay uscissero allo scoperto e si organizzassero e volevano anche lavorare con loro” dice Ndeye Kebe, a capo del gruppo Sourire de Femme. Ma le donne non ne facevano parte. “Le lesbiche non rischiavano così tanto di contrarre l’HIV. Così non si occuparono di noi” dice.
Non solo i gruppi LGBT impegnate sul fronte HIV le ignoravano – dice Kebe – ma le lesbiche erano escluse anche dal movimento femminista senegalese. “Alcuni gruppi femministi che lottavano per i diritti delle donne non volevano saperne di omosessualità. Le donne etero non avevano niente a che fare con le lesbiche. Non le volevano con loro“.
“Anche se” dice Kebe “le lesbiche lottano per gli stessi diritti. Non si può essere lesbiche senza essere femministe. Non lottiamo solo per i ‘nostri’ diritti. Lottiamo per i diritti delle donne. Per esempio, il diritto all’aborto. Se un uomo ha della terra e tu ci lavori sopra, non per questo hai un salario che puoi mettere da parte. Le donne, qui in Senegal, non hanno molti risparmi”.
Però non tutte le lesbiche senegalesi la pensano così. Dija, ventisei anni, pochi mesi fa ha deciso di risparmiare per trasferirsi nella capitale. Questo perché ci sono più opportunità di lavoro e anche più occasioni di incontrare altre lesbiche. “Vorrei trovare una ragazza che mi ami e con la quale star bene”, dice Dija, seduta sul letto della sua stanza in affitto.
Col tempo, spera di fare coming out e di farsi accettare dalla sua famiglia, che oggi preme perché si adegui al mondo etero. “‘Quando hai intenzione di sposarti?’ ‘Non sei ancora sposata?’, sempre la stessa domanda”, dice Dija. “Nella mia famiglia, devi avere un marito. Per le donne ci sono casa, faccende domestiche, marito, figli e basta”.
A Dakar, Dija ha contattato un gruppo LGBT prevalentemente maschile. Spesso, quando sta con loro è l’unica donna, così finisce in cucina a preparare il pranzo. “Di solito cucino per i miei, per cui non mi scoccia farlo”.
Kebe, con Sourire de Femme, dice che è difficile rompere con il modo di pensare tradizionale, ed è anche tra le poche organizzazioni gay del paese. “Forse sono la nostra cultura e la nostra educazione a mettercelo in testa, propagando così il sistema patriarcale” dice. Non si cambiano le cose dalla sera alla mattina. Come sui i diritti dei gay in Senegal ci vuole un cambiamento di prospettiva – per tutti. “Penso che la cultura, sia cultura,” dice Kebe. “Dobbiamo cercare di ottenerne il meglio e usarlo. E perfezionare quello che deve essere perfezionato“.
* Questo articolo è sostenuto dall’International Reporting Project ed è apparso originariamente su GlobalPost and PRI.org.
Testo originale: Lesbians in Senegal just want a place where they can be themselves