Le parole del vescovo di Pistoia parlano al cuore di ogni persona omosessuale
Lettera aperta di Gianni Geraci, portavoce del Guado di Milano, del 14 aprile 2011
Mi permetto eccellenza di scriverle una breve lettera in cui vorrei esprimerle, a nome del Gruppo del Guado, il sentimento di gratitudine che abbiamo provato quando abbiamo letto quello che lei ha affermato in seguito all’aggressione di cui è stato vittima Federico Esposito, presidente dell’Arcigay della sua città.
«Più che le ferite nel corpo – questo il testo della sua dichiarazione – credo abbiano fatto male quelle nell’animo. Ma entrambe le ferite subite da Federico, segretario del Comitato pistoiese Arcigay, obbligano a riflettere e vanno condannate con fermezza. Sono una violazione della dignita’ umana».
Nel leggere queste sue espressioni di solidarietà umana mi sono venute in mente tutte le lettere con cui, in passato, ho sollecitato da parte degli esponenti della gerarchia italiani, dichiarazioni simili che riuscissero finalmente a rompere il muro di diffidenza che, qui in Italia, separa la Chiesa dalle persone omosessuali.
«Non potete chiederci di approvare quello che in coscienza riteniamo sbagliato!» mi ha detto una volta un suo confratello durante un colloquio piuttosto animato.
«E’ inutile negarlo! La Chiesa cattolica non si preoccupa tanto della salvezza eterna delle persone omosessuali, quanto della loro scomparsa: altrimenti spiegami come mai nessun vescovo condanna gli episodi in cui gli omosessuali vengono ricattati, vengono minacciati, vengono picchiati, vengono uccisi?» mi faceva notare un amico che continua a sostenere l’assurdità della posizione di chi, come me, si dichiara «omosessuale e cattolico».
Finalmente le poche righe in cui ha espresso la sua solidarietà a Federico Esposito hanno rimesso le cose a posto e hanno aperto una strada che spero sia percorsa dagli altri vescovi che si troveranno di fronte alle aggressioni omofobe che, purtroppo, continuano ancora in Italia.
Nel leggere le sue parole mi è venuta in mente la parabola del Buon Samaritano. Gesù nel raccontarla non si perde a spiegare i motivi per cui l’uomo che viene assalito dai briganti stava scendendo da Gerusalemme a Gerico.
Quello che mette in evidenza è il fatto che, avendo subito un’aggressione, quell’uomo aveva bisogno di aiuto.
Un aiuto che prescindeva da qualunque paura. Un aiuto che prescindeva da qualunque opinione si potesse avere su quell’uomo.
Mi sono sempre chieso come mai il Sacerdote e il Levita lasciassero quel povero sventurato a morire sulla strada.
Forse davvero erano egoisti. Ma forse pensavano che si trattasse di una persona impura che, in qualche maniera poteva contaminarli con la sua impurità.
Solo il samaritano sa andare oltre alle paure e si fa prossimo di quest’uomo. Non si perde dietro a inutili elucubrazioni sui valori dello sventurato che incontra per strada: si accorge che è stato assalito e lo aiuta.
Si fa prossimo a lui, dice Gesù. E facendosi prossimo a lui vive nella sua vita il comandamento che gesù aveva appena ricordato al Maestro della Legge che lo aveva interrogato: «Amerai il prossimo tuo come te stesso!».
Ecco, monsignore, questa settimana lei si è imbattuto in un uomo che è stato aggredito.
Non ha fatto come il sacerdote, come il levita o come tantissimi suoi colleghi che hanno evitato di farsi coinvolgere per paura che qualcuno, nelle loro parole, vedesse un’approvazione dell’omosessualità che, in coscienza, non se la sentivano di dare.
Ha fatto come il samaritano: è partito dal bisogno della persona che aveva di fronte e le ha espresso la sua solidarietà.
Ha vissuto, in sostanza, il Vangelo. E, mi creda, quando hanno a che fare con le persone omosessuali, sono davvero pochi i vescovi che riescono a seguire con fedeltà le raccomandazione del Vangelo.