Il drammatico triangolo tra religione e violenza. Il cortocircuito della fede
Testo del professore di teologia R. Ruard Ganzevoort* tratto da The Drama Triangle of Religion and Violence pubblicato nel saggio Religion and Violence: Christian and Muslim Theological and Pedagogical Reflections, a cura di Ednan Aslan e Marcia Hermansen Springer, editore Springer Fachmedien Wiesbaden (Germania), giugno 2017, pp.17-20, primo paragrafo, libera traduzione di Giacomo Tessaro
Il sovrapporsi di religione e violenza non è un’invenzione della nostra epoca: da tempi immemorabili queste due dimensioni dell’esperienza umana sono connesse e intrecciate. Non appena gli esseri umani si riuniscono, formano una società e sviluppano una cultura, la religione e la violenza diventano elementi centrali. Preghiamo e svolgiamo riti insieme e ci uccidiamo l’un l’altro. Pratichiamo la compassione e creiamo bellezza, ma ci abbandoniamo anche a terribili crudeltà. Naturalmente i contorni di questa connessione variano a seconda dell’epoca e del contesto, ma una connessione strutturale senza dubbio esiste. Che siano militanti cristiani conservatori che lottano contro l’aborto, manifestanti musulmani che protestano contro la diversità sessuale (per quanto questa possa essere complessa) o buddhisti estremisti che commettono attacchi terroristici contro altre fedi, troviamo la violenza ispirata dalla religione in tutte le tradizioni e in tutte le epoche.
Chi è ostile alla religione sostiene che la essa è causa di violenza e che la violenza è la conseguenza dell’essere religiosi; alcuni si spingono fino ad auspicare l’abolizione della religione. Queste opinioni, tuttavia, si basano sulla falsa premessa di una relazione causale diretta tra i due fenomeni e sull’idea, ugualmente falsa, secondo cui senz’altro tutti obbedirebbero all’ordine di abbandonare la religione; ne riparlerò più avanti. Proprio come le leggi che proibiscono la violenza non vengono obbedite, è assai improbabile che gli sforzi di abolire la religione possano essere coronati da successo; la cosa più sensata è esaminare criticamente il nesso tra religione e violenza, riconoscendo al tempo stesso che la religione è uno dei maggiori fattori nella costruzione della pace.
La domanda allora diventa: come possiamo comprendere (e in seguito cambiare) quelle situazioni terribili e distruttive di umana violenza che godono di una legittimazione religiosa? Le mie ricerche si sono svolte nel campo delle violenze sessuali in famiglia e nelle Chiese. Conosciamo tutti le storie di violenza sessuale con protagonisti guru buddhisti e indù, preti cattolici e ortodossi, insegnanti nelle madrasse islamiche, rabbini ebrei, pastori protestanti e leader di sette di vario tipo.
Inoltre, le nostre società devono fare i conti con molte altre forme di violenza, che in un certo numero di casi hanno a che fare con la religione ma perlopiù sono collegate al nazionalismo o ad altre motivazioni. C’è poi, ovviamente, la recente storia geopolitica, con la sua lotta lunga e senza precedenti contro il terrorismo, a torto o a ragione ritenuto ispirato dalla religione. Gli atti contemporanei di terrorismo nell’Europa Occidentale, nell’Africa del Nord e in Medio Oriente (per non citare che questi) sono spesso giustificati dalla fede islamica di chi li compie.
Invece la società fortemente religiosa degli Stati Uniti ha uno dei più alti tassi di criminalità e di detenuti; in questo Paese negli ultimi cinquant’anni sono state uccise più persone a causa delle armi da fuoco che in tutte le guerre combattute dall’inizio della sua storia. Qual è il disagio che sta dietro al legame tra religione e violenza, apparentemente così in contraddizione con i discorsi di amore, riconciliazione e pace ripetuti in continuazione nei luoghi di culto in tutto il mondo?
Una delle prime risposte, probabilmente, è che questa domanda porta con sé una visione unilateralmente positiva della religione; in realtà, i discorsi nei luoghi di culto e gli insegnamenti esposti nei libri, negli opuscoli e nei siti Internet delle varie religioni non sempre diffondono un messaggio d’amore, riconciliazione e pace.
In ogni tradizione religiosa troviamo correnti fondamentaliste che predicano l’odio, la discriminazione e la violenza: molti evangelicali di destra sostengono la violenza antiabortista e molti cristiani ortodossi hanno attaccato violentemente (per esempio in Serbia) i movimenti di emancipazione omosessuale; i fondamentalisti musulmani utilizzano il linguaggio del jihad nel loro conflitto culturale con la cristianità occidentale; gli estremisti indù hanno distrutto chiese e moschee in India; i combattenti buddhisti nello Sri Lanka e in Myanmar attaccano le minoranze musulmane; i sionisti militano attivamente per la Terra Promessa.
Ma non sono solamente questi estremi a confutare l’immagine pacifica della religione: molti credenti non estremisti, nella maggior parte delle tradizioni, credono che la loro sia l’unica strada per la salvezza e che la piena accettazione delle altre su un piano di uguaglianza costituirebbe un tradimento delle loro più profonde convinzioni religiose, come risulta evidente dai toni accesi di molti dibattiti. Tutto questo dimostra che la religione non è solo bontà, pace e armonia ma anche durezza, esclusione e violenza.
Una seconda risposta alla domanda è che le teorie generali sul nesso tra religione e violenza sono false per definizione. Fino ad ora le ricerche hanno dato risultati contraddittori a proposito dell’impatto della religione sulla violenza e delle relative risposte; l’”ambivalenza del Sacro” (come la chiama Mark Juergensmeyer) sta proprio nel fatto che la religione sembra essere un potente impulso alla violenza e, al tempo stesso, una fonte insostituibile di pace e riconciliazione. Se cerchiamo di districare la complessità di questa relazione dobbiamo fare i conti con la varietà di posizioni all’interno delle e tra le tradizioni religiose, le varie dimensioni religiose e i loro effetti, le molte forme, le molte cause e i molti effetti della violenza.
Nel mio contributo a questo volume su religione e violenza voglio dare uno sguardo ai dibattiti e alle proteste pubbliche nell’Europa contemporanea; più in particolare, voglio interrogarmi sul modo in cui l’associazione tra Islam e violenza si è inserita nel contesto della crisi dei rifugiati e in quello delle violenze commesse dagli estremisti musulmani. Con questo materiale e con le intuizioni della psicologia delle religioni discuterò tre posizioni ben distinte: la vittima, l’aggressore e lo spettatore. Queste tre posizioni sono simili ai tre ruoli nel “triangolo drammatico” di Karpman: persecutore, salvatore e vittima. La tesi di fondo è che questi ruoli non possono essere ridotti a uno e che gli individui e i gruppi possono cambiare di ruolo nei loro rapporti reciproci.
Nell’analisi della violenza i ruoli dell’aggressore, della vittima e dello spettatore implicano l’uno l’esistenza dell’altro e possono essere analizzati solamente nella loro interazione; tuttavia, per una comprensione psicologica della connessione tra violenza e religione, essi vanno analizzati separatamente, in modo da scoprire tutti i nodi con cui si intrecciano. La psicologia dell’aggressione e della violenza è diversa dalla psicologia del trauma e dei testimoni della violenza; dimostreremo che la religione gioca un ruolo diverso in ognuno di questi contesti.
Prima di discutere le varie specifiche posizioni, dovremo risolvere il difficile problema di definire cos’è la violenza. È una questione complessa, per molte ragioni. Per prima cosa, la comune e riduttiva definizione della violenza al danno fisico osservabile non coglie le molte forme di oppressione mentale e spirituale e il potere della dissacrazione simbolica: pensiamo, per esempio, all’abbattimento della statua di Saddam Hussein da parte dei Marines americani o alla distruzione dei templi di Palmira da parte dell’ISIS; tanti più fattori entrano in gioco quando tutto questo si collega alla religione. La visione riduzionista ignora oltretutto le strutture e le culture violente.
In secondo luogo, l’applicazione di una qualsiasi definizione di violenza a un fatto concreto non si riduce a inserire un fenomeno in una categoria teoretica oggettiva, è anche una costruzione sociale in cui si esprimono un giudizio morale e e dei poteri sociali. Definire “violento” un atto è un’azione performativa, radicata nel potere della definizione; la differenza tra azioni di liberazione e guerriglia violenta è, in fondo, una questione di punti di vista. In terzo luogo, a mio avviso la violenza non può essere definita da una categoria di ordine superiore; il comportamento umano, per esempio, non vale come categoria superiore, perché la violenza è presente anche nelle strutture, nei testi etc.
Non è una coincidenza che le religioni, i miti e le letterature descrivano spesso la violenza e il male come fenomeni sovrumani e/o sovrannaturali. Perciò per me la violenza, come per esempio l’amore e la religione, è un concetto sui generis, che può essere indicato ma non definito una volta per tutte. I nostri sforzi in questo senso sono necessari in sede di discussione, ma non cattureranno mai definitivamente la sua natura.
C’è qualcosa che va al di là della concettualizzazione che René Girard chiama “violenza originaria”; vi ritornerò alla fine del capitolo. Il mio suggerimento è che la violenza implichi come minimo l’esercizio della forza e l’infliggere danni: è una definizione su cui lavorare e non una concettualizzazione definitiva; è una definizione appena sufficiente alla discussione dei tre ruoli di aggressore, vittima e spettatore.
* Ruard Ganzevoort é professore di Teologia pratica presso la Vrije Universiteit di Amsterdam (Olanda). Le sue principali aree di interesse sono la teologia e la psicologia pastorale, la psicologia della religione, gli approcci narrativi, i traumi e la cultura popolare. Ha pubblicato pubblicato 16 libri e più di 130 pubblicazioni scientifiche o professionali, è stato presidente dell’Accademia Internazionale di Teologia Pratica, dal 2007 al 2009, attualmente è presidente della Società internazionale per la ricerca empirica in teologia.
Testo originale: The Drama Triangle of Religion and Violence