Storia e destino di Gerusalemme, città tre volte santa
Articolo di Gian Maria Vian pubblicato su “L’Osservatore Romano” del 7 dicembre 2017
«Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato, se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia» (Salmi, 136, 5-6). Le struggenti parole di un anonimo poeta costretto alla lontananza dalla città — forse in esilio a Babilonia nel sesto secolo avanti l’era cristiana — riecheggiano quelle dei salmi detti graduali o delle ascensioni.
Questi quindici componimenti (120-134 nella numerazione ebraica, 119-133 in quella greca e latina, più diffusa) erano probabilmente cantati dai pellegrini giudei che salivano sul colle gerosolimitano, dove sorgeva l’antico santuario attribuito al mitico sovrano Salomone, distrutto dai babilonesi e molto più tardi ricostruito: «E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! Gerusalemme è costruita come città salda e compatta. Là salgono insieme le tribù, le tribù del Signore (…) Domandate pace per Gerusalemme» (121, 2-3 e 6).
In queste parole — poi fatte proprie dai cristiani e grazie a loro enormemente diffuse (si pensi alla fortuna liturgica, musicale e poetica) — si può riassumere il legame fortissimo e innegabile dell’antica religione d’Israele e poi del giudaismo con l’allora piccolo centro, destinato a una sorte simbolica senza pari e a un destino storico affascinante e tragico. Emblematica del ruolo speciale della città tra i giudei radicati in altre nazioni è la lunga digressione a essa dedicata dalla Lettera di Aristea.
Il testo giudaicoellenistico è un bellissimo scritto di propaganda della seconda metà del secondo secolo avanti l’era cristiana, e deve la sua fama al racconto, dai tratti leggendari ben radicati nella storia, di come si era arrivati alla versione greca delle Scritture sacre ebraiche, attribuita a settantadue traduttori e da allora detta dei Settanta. La descrizione della città e del tempio (il secondo santuario, ricostruito dopo la distruzione babilonese) è messa in bocca a stupefatti ambasciatori alessandrini: «Quando arrivammo sul luogo, osservammo la città situata nel centro dell’intera Giudea (…) Sulla sommità si ergeva il Tempio, che ha dimensioni grandiose (…) Il suolo è interamente pavimentato a lastre di pietra e ha delle pendenze in direzione dei punti adatti al convogliamento delle acque che servono per purificarlo dal sangue delle vittime, perché nei giorni di festa vengono offerte in sacrificio molte migliaia di animali (…)
L’officiatura dei sacerdoti è incomparabile per la forza fisica che richiede, per il decoro e per il silenzio (…) Regna assoluto silenzio, tanto che sembrerebbe non vi sia anima viva, mentre gli officianti ammontano fino a settecento — e grande è la folla di quelli che offrono le vittime — ma tutto si svolge con riverenza degna della maestà divina (…)
La visione complessiva di tale spettacolo suscita timore reverenziale e sgomento, tanto da far pensare di essere arrivati in un altro mondo, fuori dal nostro. Posso assicurare che chiunque vada ad assistere alla scena descritta sarà colto da indicibile ammirazione e sbalordimento, e rimarrà sconvolto nel suo intimo dall’impronta di santità implicita in ogni particolare» (83-99).
Due secoli dopo, tutto era finito: al termine della terribile guerra giudaica narrata da Flavio Giuseppe, nel 70 il grande tempio, magnificamente restaurato da Erode il Grande, venne incendiato, mentre nel 135, repressa l’ultima rivolta antiromana, la città fu rasa al suolo e il suo nome cancellato, sostituito da quello pagano — voluto dall’imperatore Adriano ed esecrabile alle orecchie dei giudei — di Aelia Capitolina.
A salvarne la memoria (e il nome) furono i cristiani, dei quali già verso l’anno 170 sono attestati pellegrinaggi, come quello del vescovo Melitone di Sardi, che volle documentarsi sulle Scritture giudaiche là «dove furono predicate e si svolsero» (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, IV, 26, 14). Ed Eusebio osserva che ai tempi suoi — agli inizi del quarto secolo — si recavano a Gerusalemme i credenti in Cristo «da ogni parte del mondo non come per il passato, per ammirare lo splendore della città o per pregare nell’antico Tempio», bensì «per ammirare gli effetti della conquista e della distruzione di Gerusalemme» e, soprattutto, «per pregare sul Monte degli Ulivi di fronte alla città», là «dove hanno sostato i piedi del Salvatore» (Dimostrazione evangelica, VI, 18, 23).
Autore della rinascita religiosa di Gerusalemme e di tutta la regione fu Costantino, imperatore tra il 306 e il 337, dopo la svolta filocristiana del 312 e grazie a un’imponente politica edificatoria che costellò di luoghi di culto tutta la Palestina, trasformata in “terra santa” dei cristiani e sempre più meta di pellegrinaggi, come narra ancora Eusebio con chiaro spirito antigiudaico: «gli ordini appena emessi subito diventavano operativi, e così nel luogo stesso in cui fu sepolto il Salvatore venne costruita la nuova Gerusalemme, in contrapposizione alla città antica e famosa, la quale, dopo il cruento assassinio del nostro Signore, fu travolta fino a subire l’estrema devastazione, pagando con ciò il fio per la colpa dei suoi empi abitanti.
Di fronte ad essa l’imperatore, con sontuosa e prodiga munificenza edificò un monumento che testimoniava la vittoria che il Salvatore aveva conseguita contro la morte, e forse non è errato identificare proprio in questo monumento la nuovissima Gerusalemme annunziata dagli oracoli dei profeti, quella Gerusalemme nei cui confronti innumerevoli sono le lodi che a lungo celebrano le profezie ispirate dallo spirito divino.
Prima di ogni altra cosa Costantino volle adornare il sacro speco, perché lo considerava il centro ideale del mondo intiero: si trattava, infatti, del sepolcro grondante perenne memoria, del luogo che serbava il trofeo della vittoria che il nostro grande Salvatore aveva conseguita contro la morte, del divino sepolcro, presso il quale un giorno risplendette la luce dell’angelo che annunciò a tutti gli uomini la buona novella della rigenerazione rivelatasi attraverso il Salvatore» (Sulla vita di Costantino, III, 33).
Nella basilica del Santo Sepolcro Eusebio — testimone quasi incredulo del rovesciamento delle sorti cristiane in meno di un trentennio, dalla feroce persecuzione dioclezianea che infierì con accanimento in Palestina alla nascita della «terra santa» — identificava così la Gerusalemme escatologica intravista dai profeti e poi sempre rimasta sullo sfondo dell’apocalittica giudaica.
Ma la storia non finì, e Gerusalemme conobbe nuove guerre e conquiste: nel settimo secolo la breve stagione persiana e quindi, dopo la riconquista bizantina, l’inizio nel 638 della dominazione musulmana, sostenuta dalla sacralizzazione islamica della città: terzo luogo santo dell’islam — dopo Mecca (meta del grande pellegrinaggio musulmano) e Medina — per il misterioso trasporto notturno di Maometto narrato dal Corano (XVII, 1), Gerusalemme richiama infatti nel suo nome arabo, al-Quds, l’assolutezza della santità divina.
I quasi tredici secoli della dominazione islamica — chiusa nel 1917 dall’entrata a Gerusalemme delle truppe britanniche — sono stati un succedersi spesso tragico di avvenimenti in cui Oriente e Occidente, sacro e profano, miserie e sogni, ideali e interessi politici si sono mescolati inestricabilmente, come mostra in modo emblematico la vicenda delle crociate nella storia, nella propaganda e nell’immaginario collettivo.
Anche in età moderna e contemporanea tuttavia la mescolanza tra miti religiosi e realizzazioni politiche ha segnato la città, e il motivo è in definitiva la valenza escatologica di Gerusalemme per i tre grandi monoteismi che sono cresciuti l’uno sull’altro, l’uno contro l’altro, l’uno con l’altro, indissolubilmente. Così nell’Inghilterra anglicana del Seicento — come ora tra i fondamentalisti protestanti statunitensi — si ragionava sul ritorno degli ebrei in Palestina e sulla loro conversione finale, preludio alla venuta finale di Cristo, mentre è stata per prima la critica religiosa ebraica a opporsi alle teorie del sionismo politico, nato verso la fine dell’Ottocento e realizzato nel Novecento, il secolo spezzato dalla catastrofe europea della Shoah.
Sionismo e Shoah sono storicamente i prodromi della nascita nel 1948 dello Stato d’Israele. E nella seconda metà del Novecento — tra guerre e spregiudicate politiche di potenza di ognuno dei contendenti e dei loro sostenitori, che mai hanno guardato all’interesse dei popoli, in particolare quello palestinese — sembra un miraggio lontano la pace invocata per Gerusalemme dal salmista.
L’offensiva terroristica su scala mondiale — che ha finora avuto il suo culmine nel tremendo attacco dell’11 settembre 2001 agli Stati Uniti ma che riserva quasi ogni giorno orribili novità — ha molto complicato lo scenario internazionale, sul quale è sempre da collocare l’ormai cinquantennale questione del Vicino Oriente e di Gerusalemme. E proprio la condizione della città appare oggi un simbolo del tragico stallo nel quale sembra sprofondare ogni speranza e dal quale sono estromesse le voci che invocano una soluzione negoziale. Per la città, annessa da Israele in due fasi (nel 1948 e nel 1967), la Santa Sede — che dal 1994 ha con Israele normali relazioni diplomatiche — resta favorevole alla risoluzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che nel 1947 auspicava per Gerusalemme uno statuto speciale garantito internazionalmente.
Nel contesto più ampio della questione palestinese, che reclama un’urgente soluzione, la preoccupazione della Santa Sede è per la pace e per sostenere la presenza cattolica e cristiana nella regione. Estremismi politici e fondamentalismi religiosi stanno infatti sempre più riducendo la consistenza delle diverse comunità cristiane e persino i pellegrinaggi.
Dopo oltre mezzo secolo di sangue e di odio — per limitarsi alla storia recente — bisogna, almeno a Gerusalemme, abbandonare risentimenti e rivendicazioni. Il vero destino della città, nei tre monoteismi, è quello escatologico. I credenti devono averne coscienza, pregare e operare; e chi non crede deve tenerne conto. Nell’interesse di una convivenza finalmente tollerante e pacifica.