Il dono speciale di un figlio gay
Testo di Mary Ellen Lopata e Casimer Lopata tratto dalla prefazione al loro libro Fortunate Families: Catholic Families with Lesbian Daughters and Gay Sons (Famiglie fortunate: famiglie cattoliche con figlie lesbiche e figli gay),Trafford Publishing, 2003, pp.XI-XIII, libera traduzione di Diana
Nostro figlio maggiore Jim, che è gay, è nato in una famiglia cattolica tradizionale ed è stato battezzato due settimane dopo la nascita. Andava a messa la domenica e in tutte le festività, frequentava regolarmente le lezioni di religione, andava ai ritiri spirituali annuali, cantava nel coro, ed era responsabile del gruppo giovanile parrocchiale. Quando andò all’Università, continuò ad andare a messa e ad essere un membro attivo della comunità cattolica universitaria.
Come famiglia partecipavamo attivamente alla vita parrocchiale e stringevamo amicizia con le altre famiglie con valori religiosi e morali simili ai nostri. Gli adulti di riferimento per i nostri figli erano rappresentati da un gruppo di mamme e papà che avevano il compito di spiegare i valori fondanti del Vangelo: l’amore di Dio e del prossimo. Questi valori non erano vuoti sentimenti, ma realtà vissute, dimostrate, per esempio aiutando il vicino di casa la cui moglie era in ospedale o prendendosi cura degli orfani vietnamiti sparsi nel mondo. Non andavamo semplicemente “in Chiesa”; noi credevamo (e ancora ci crediamo) che come popolo di Dio, siamo la Chiesa e dobbiamo lavorare incessantemente per far fronte a questa responsabilità.
Molti di noi si erano trasferiti da altri luoghi del paese e diventammo consapevolmente una specie di famiglia estesa fornendo il supporto ed il conforto di cui avevano bisogno i nostri figli nel passaggio difficile, e a volte pericoloso, verso l’età adulta. Nonostante questa vicinanza ci vollero tre lunghi anni di solitudine e di isolamento prima di dire alla mia migliore amica – che faceva parte di questa rete di supporto – che Jim era gay. Il mio sollievo fu palpabile quando la sua reazione fu premurosa e solidale, senza giudizio o peggio pietà.
Questo mio ritardo nel condividere questa notizia con la mia migliore amica può apparire contradditorio.
Come poteva questa comunità di supporto essermi vicina se io non riuscivo a condividere con nessuno di loro, nemmeno la mia migliore amica, questo fatto importante e non riuscivo ad allungare la mia mano verso di loro? Avevamo condiviso con loro molti altri traumi famigliari, compresi divorzi, gravidanze impreviste – sia di genitori che di figli adolescenti, aborti, sesso prematrimoniale, droghe, frodi, abuso di alcool, eccetera, tutti i pericoli della vita famigliare. Bene, non tutto! Non è mai stato sollevato l’argomento dell’omosessualità nel nostro gruppo. Mai! Soltanto una volta è stato accennato dal pulpito in modo indiretto, quando un prete coraggioso ha sfidato l’odiosa retorica antigay di Anita Bryant*.
Ma non se ne era mai parlato nella nostra comunità alla periferia nord di New York. Anche io volevo questo silenzio, un silenzio che trasmetteva un messaggio forte e chiaro: l’omosessualità era una cosa talmente brutta che non se ne poteva parlare.
Quando Jim fece il suo coming out capivo confusamente che la Chiesa cattolica condannava l’omosessualità. Non c’era motivo di porre domande o fare discussioni. Ero troppo ignorante per sapere che domande porre. Allo stesso tempo ero confusa, perché il sillogismo “L’omosessualità è male. Mio figlio è omosessuale. Mio figlio è cattivo”, non funzionava. Non aveva senso. Secondo la mia esperienza non era vero.
Trovando comprensione, ma non molto di più, da parte del nostro parroco alla fine dovetti uscire dalla mia comunità di fede per trovare le informazioni e l’aiuto di cui avevo bisogno. Alla disperata ricerca di informazioni su di un argomento di cui nessuno voleva parlare, rubai dei libri dalla biblioteca. Ero troppo imbarazzata che qualcuno potesse vedermi mentre li consultavo. Mesi dopo restituii i libri di notte. Ci vollero anni per superare l’imbarazzo e la vergogna.
Trovai conforto nelle riunioni della PFLAG (l’Associazione statunitense per genitori, famiglie ed amici di lesbiche e gay) e di Dignity (l’organizzazione cattolica per i diritti delle persone LGBTQ). Nella mia comunità di fede non ci fu nessun aiuto, finché parecchi anni dopo il coming out di Jim, il nostro vice parroco, padre Kay Heverin, ci offrì una serie di libri per l’educazione degli adulti intitolata “Omofobia e la Chiesa”.
Dietro le quinte aiutai a organizzare e pubblicizzare il programma di questa iniziativa, non lasciando mai trapelare che avevo un interesse personale. Questo programma consisteva in un’esperienza di gioco di ruolo sulla discriminazione, una presentazione di uno studioso di Sacre Scritture, una presentazione sull’AIDS e da discussioni tenute da un gay, una lesbica ed i genitori di un gay, tutti cattolici. Alla fine del programma nel mio cuore sapevo che se io davvero amavo e rispettavo mio figlio, come dicevo, non potevo continuare a negare – col mio silenzio – una parte di ciò che egli era. Non potevo rimanere chiusa nell’armadio. Fu un processo graduale, della durata totale di nove anni.
Ad un certo punto lungo il cammino, cominciai a rendermi conto del dono speciale che Jim rappresenta per me, per la nostra famiglia e per l’intero corpo di Cristo, non nonostante, ma proprio perché è gay.
* Anita Jane Bryant è una cantante e attivista evangelica statunitense, nota soprattutto per le sue prese di posizione contro l’omosessualità e protagonista, negli anni 1970, di grandi campagne politiche per impedire la parità di diritti per le persone omosessuali.