Le origini della caccia ai gay in Egitto. Dalla primavera araba all’inverno arabo
Dossier di Jack May pubblicato su Winq Magazine (Gran Bretagna), dicembre 2017, pp.188-193, seconda parte, libera traduzione di Andrea Shanghai
Ma perché’ un concerto di una band libanese ha il potere di accendere (in Egitto) una simile recrudescenza (omofobica)? L’omosessualità è da sempre un argomento estremamente sensibile in Egitto. Secondo un’analisi a livello globale del Centro di Ricerca Pew, quello egiziano è uno dei gruppi che più ardentemente si oppongono all’omosessualità, con addirittura il 95% della popolazione che si oppone alla sua accettazione. Una chiara fetta della popolazione egiziana vede come una priorità del governo quella di eliminare l’omosessualità.
Per quanto riguarda il governo, una campagna come questa gli torna sicuramente utile. Considerando da un lato le insurrezioni che stanno minacciando una caduta completa della penisola del Sinai nell’anarchia, dall’altro condizioni economiche catastrofiche che hanno messo in ginocchio la classe lavoratrice e tenendo poi conto del crescente malcontento causato dalla detenzione e dall’uccisione di molti oppositori politici, il governo di Abdel Fattah el-Sisi, che è salito al potere nel 2014 in seguito a un colpo di stato militare, può utilizzare la campagna contro l’omosessualità come un metodo per unificare una nazione sempre più divisa e caotica. E non è certamente la prima volta che questo succede.
Sotto il regime dispotico di Hosni Mubarak, che ha governato l’Egitto per 30 anni fino a che è stato rovesciato durante i sollevamenti della Primavera Araba nel 2011, vi fu un simile giro di vite nei confronti dei gay egiziani. L’11 maggio del 2001, 52 uomini furono arrestati in un night club galleggiante chiamato Queen Boat, che era ormeggiato sul Nilo, al Cairo. Cinquanta di essi furono condannati secondo la legge del 1961 per “corruzione abituale” e per “pubbliche oscenità”, mentre gli altri due furono condannati per “vilipendio alla religione” in base a un’altra legge. I “52 del Cairo” furono processati per 5 mesi, esposti alla berlina dei media con i loro nomi e indirizzi pubblicati, in un processo descritto da Human Rights Watch (HRW) come “una buffonata piuttosto che un vero giudizio”.
I procedimenti furono dirottati alla corte per la sicurezza dello stato, un’entità legale speciale creata nel 1981 con una legge di emergenza per gestire i casi sospetti di terrorismo. L’atteggiamento degli accusati fu giudicato come “non-egiziano” e un importante quotidiano aprì la prima pagina con il titolo: “i pervertiti dichiarano guerra all’Egitto”.
I ricercatori di HRW riportano che nella campagna che seguì, almeno 179 uomini sono stati condannati per “corruzione dei costumi” fra il 2001 e il 2003. “Con tutta probabilità questa è solo una minima percentuale del numero totale”, sostiene il report per l’anno 2004 dell’associazione, sottolineando il fatto che centinaia di altre persone sono state molestate, arrestate e torturate, pur in assenza di alcuna accusa specifica.
“La motivazione ufficiale è autenticità culturale congiunta all’ igiene morale”, prosegue il rapporto. “gli agenti protagonisti delle campagne vanno da ministeri del governo, fino alle falangi di informatori della polizia che si muovono al Cairo”.
Anche fattori culturali propri all’Egitto hanno giocato un ruolo rilevante nell’esito del processo Queen Boat, come sottolinea Brian Whitaker, ex corrispondente del Guardian per il Medio Oriente e autore del libro Unspeakable Love: Gay And Lesbian Life In The Middle East, sostenendo che bisogna dirigere lo sguardo verso i confini orientali del paese. “Israele ha legalizzato le unioni omosessuali nel 1988. Quattro anni dopo fece un passo ulteriore divenendo l’unica nazione nel Medio Oriente a dichiarare illegale la discriminazione basata sulla sessualità”, afferma Whitaker. “Questi sono sicuramente traguardi importantissimi, ma sono diventati armi di propaganda su entrambi i fronti. Da un lato hanno rilanciato l’immagine di Israele come una società liberal-democratica, dall’altro sono state utilizzate dalle società arabe come un mezzo per dimostrare come l’omosessualità sia un fenomeno “straniero”. Unire nello stesso odio due nemici come Israele e omosessualità, da’ ai propugnatori anti-gay arabi ulteriore forza”.
Questa idea ha preso vigore durante il processo Queen Boat, quando la rivista Al-Musawar ha pubblicato un articolo di tre pagine dedicato al “Popolo di Lot”, completato da una fotografia ritoccata del difensore principale Sherif Farhat con indosso un elmetto dell’esercito israeliano e seduto a una scrivania con una bandiera israeliana.
Titolo originale: From Arab spring to Arab winter